La psicologia degli oggetti
Scritto da Giovanni Del Zanna il 18-04-2011
Possiamo parlare di psicologia degli oggetti di uso quotidiano? Tutti i giorni utilizziamo, afferriamo, tocchiamo una moltitudine di “cose” di diverso tipo e natura (utensili, ausili, dispositivi tecnologici, componenti edilizi, e così via). Certo che se parliamo agli oggetti forse qualcuno può pensare, a ragione, che non siamo molto a posto. Ma gli oggetti, in qualche modo, ci parlano, ci raccontano di loro, della loro funzione, del modo di essere utilizzati e entrano in relazione con noi.
Una dimensione particolare del rapporto uomo/ambiente è stata analizzata con attenzione da Donald Norman, noto professore californiano di psicologia e scienze cognitive, nel suo libro La caffettiera del masochista, nel quale analizza la “psicologia degli oggetti quotidiani” o, per meglio dire la “psico-patologia”, ossia l’analisi delle difficoltà di rapporto che molte volte abbiamo con gli oggetti.
In effetti, la “caffettiera del masochista” – quella con il manico posto dalla parte del beccuccio – comunica molto bene la sua paradossale assurdità e solo chi vuol farsi del male sarebbe disposto ad usarla, consapevole di rovesciarsi sulla mano il caffè bollente.
Uscendo dal paradosso, possiamo scoprire come, prestando attenzione a come sono fatti gli oggetti e a come ci rapportiamo con loro, non sempre l’interazione reciproca avviene in modo soddisfacente.
Facciamo un esempio. A tutti è capitato di spingere una porta che si doveva tirare, situazione comune, che genera un po’ di disagio. Quando ci capita, abbiamo infatti sempre la sensazione di aver sbagliato qualcosa. Ma è proprio così?
Una porta, dopotutto, presenta due aspetti funzionali: la direzione in cui deve muoversi e il lato su cui agire. Se questa è stata studiata bene (come nella nella foto a destra),
comunica a noi in modo corretto il suo funzionamento e il nostro cervello – macchina prodigiosa! – capisce subito come l’oggetto funziona.
Così, nella nostra vita ci sono oggetti che funzionano e oggetti “psico-patologici” e non sempre la colpa è dell’utente, anzi spesso è del progettista che li ha pensati.
A questo proposito, Donald Norman parla di “affordance” degli oggetti, un termine inglese intraducibile (letteralmente “autorizzazione”) che indica quello che gli oggetti comunicano, suggeriscono il loro funzionamento: una sedia è fatta per sedersi, nessuno ce lo deve spiegare. Se ben progettata con la sua forma e il suo materiale, la sedia ci comunica, in funzione dei nostri costrutti concettuali e culturali, il suo utilizzo.
A questo punto possiamo considerare alcuni aspetti di buon design che possono migliorare il rapporto degli oggetti con l’utente:
- buona visibilità: guardando l’oggetto, l’utente può facilmente intuire il suo funzionamento e capire come entrare in relazione;
- adeguato modello concettuale: se l’oggetto è organizzato in modo coerente, il suo sistema di funzionamento ha una logica chiare che può essere facilmente concepita dall’utilizzatore;
- mapping corretto: i rapporti tra azioni e risultati, fra comandi ed effetti sono chiari (ad esempio, se premo un pulsante in alto salgo, se premo quello in basso, scendo);
- adeguato feedback: l’oggetto (specie se è un oggetto articolato o tecnologico) comunica all’utente un’informazione di ritorno sul suo stato di funzionamento e sui risultati delle sue azioni.
Vi faccio anche un esempio personale. Da qualche mese ho cambiato auto: il comando per l’azionamento degli alzacristalli – montato sul bracciolo delle portiere anteriori (a lato del guidatore o del passeggero) è in posizione inclinata e riporta un pittogramma con l’indicazione del finestrino (immagine a sinistra).
Però, per abbassare il finestrino, si deve premere in avanti e per alzare tirare indietro, con un mapping non molto naturale e in assoluto contrasto con l’indicazione riportata sul pittogramma. Che dire… c’è sempre qualcosa da migliorare!
Dalla ricerca di Donald Norman sono infatti passati diversi anni (il libro è del 1988: a sinistra, la copertina della versione italiana),
ma molte sue osservazioni restano ancora attuali. Come sanno bene molti progettisti che lo ritengono un importante punto di riferimento, il suo libro, scorrevole e ricco di esempi, ci fa scoprire le varie dimensioni del nostro rapporto con gli oggetti e dell’interazione facile o difficile con loro.
Per esempio, consideriamo quelli che possono trovare modalità differenti di utilizzo: basti pensare alle scarpe con il velcro (foto a destra) al posto di quelle con le stringhe che possono semplificare l’azione di allacciarsi le stringhe, specie per chi ha delle difficoltà.
Oppure prendiamo oggetti strani, per esempio come l’orologio a rovescio (foto a sinistra) con le lancette che girano in senso antiorario, che mostra in modo evidente un nostro schema concettuale per noi così abituale da non accorgercene.
E’ importante, soprattutto per i progettisti, osservare e analizzare queste situazioni per capire meglio le modalità con cui interagiamo con l’ambiente e gli oggetti.
Sì… c’è sempre da imparare!
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