Disabili, le tutele della legge

Scritto da Gaetano De Luca il 14-10-2009

La tutela delle persone con disabilità negli ultimi anni è stata rafforzata da uno nuovo strumento normativo: la Legge 1° marzo 2006, numero 67 nota come “Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni”.
Si tratta di una norma molto importante in quanto finalmente introduce anche in Italia un approccio giuridico nuovo, basato sul principio di non discriminazione e sul principio di uguaglianza.
E’ probabile che molte persone con problemi di disabilità non conoscano ancora questo nuovo strumento di tutela e quindi non siano consapevoli delle sue potenzialità applicative. E’ quindi utile capire quali siano le principali caratteristiche della tutela antidiscriminatoria.
Innanzitutto questo tipo di tutela nasce dalla necessità di superare le condizioni di disuguaglianza, emarginazione, isolamento che caratterizzano una certa categoria di persone.
E’ infatti purtroppo oggettivo che le persone con disabilità siano soggette ad un tasso di disoccupazione maggiore, usufruiscano meno degli altri del trasporto pubblico, abbiano difficoltà ad accedere negli spazi pubblici e privati a causa della presenza di barriere architettoniche e così via.
l’esistenza di una normativa sul collocamento obbligatorio delle cosiddette categorie protette, di una normativa per il superamento delle barriere architettoniche, di una normativa sull’inclusione scolastica non ha quindi impedito che le persone con disabilità siano state e siano ancora oggi ugualmente discriminate. Questo è il principale motivo per cui, a partire dagli Stati Uniti e dai paesi anglosassoni, si è pensato di introdurre uno strumento giuridico alternativo che contrastasse nello specifico le discriminazioni, vietandole.

La Legge 67/2006, infatti, dopo aver evidenziato (articolo 1) la sua intenzione di attuare il principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della nostra Costituzione nei confronti delle persone con disabilità, sancisce che non può essere praticata alcuna discriminazione in pregiudizio delle persone con disabilità (articolo 2).
Ma cosa significa discriminazione? La discriminazione è il trattamento non paritario attuato nei confronti di un individuo o di un gruppo di individui in virtù della loro appartenenza ad una particolare categoria.
Secondo la nuova normativa, dunque, la discriminazione vietata può essere diretta quando, per motivi connessi alla disabilità, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata una persona non disabile in situazione analoga, oppure indiretta, “quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono una persona con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto ad altre persone.”
Viene inoltre data rilevanza (vietandoli) anche a quei comportamenti che pur non realizzandosi attraverso chiari trattamenti differenziati, di fatto ledono la dignità della persona. La legge sancisce infatti che “sono, altresì considerati come discriminazioni le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi connessi alla disabilità, che violano la dignità e la libertà di una persona con disabilità, ovvero creano un clima di intimidazione, di umiliazione e di ostilità nei suoi confronti.

La nuova normativa, pertanto, dovrebbe tutelare la persona con disabilità a 360 gradi da qualsiasi comportamento che di fatto lo pone in una condizione di esclusione ed emarginazione rispetto al contesto in cui agisce. Si tratta di uno strumento normativo che deve essere applicato in coordinamento con i principi costituzionali e soprattutto con la recente Convenzione Onu sui Diritti delle persone con Disabilità approvata a New York il 13 dicembre 2006, firmata dall’Italia il 30 marzo 2007 e ratificata con Legge 3 marzo 2009 n. 18.
La Convenzione Onu costituisce infatti la cornice giuridico-culturale di riferimento di tutto il sistema normativo a tutela dei disabili. Tra i diversi principi affermati viene ribadita la centralità del principio di uguaglianza e non discriminazione (articolo 3) evidenziando peraltro come la mancata adozione di “accomodamenti ragionevoli” costituisce di per sé una discriminazione vietata. Questo significa introdurre di fatto un obbligo generale di adottare tutti gli adattamenti e adeguamenti necessari per consentire ad una persona con disabilità di superare gli ostacoli che di fatto gli impediscono di partecipare alla pari con gli altri in un determinato contesto.
Si pensi per esempio agli ostacoli (barriere architettoniche, organizzazione degli orari, caratteristiche della postazione di lavoro, organizzazione delle mansioni, e così via) che una persona con disabilità incontra nel contesto lavorativo. Se si applicasse solamente il principio di uguaglianza secondo cui tutti siamo uguali di fronte alla legge (cosiddetto principio di uguaglianza formale),
di fatto un lavoratore disabile non sarebbe in grado di lavorare alla pari degli altri. Ecco quindi che già dal 1948 la nostra Costituzione (articolo 3, comma 2) introduceva un “aggiustamento”, sancendo l’obbligo di “rimuovere gli ostacoli di ordine …sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione …” (cosiddetto principio di uguaglianza sostanziale).

Lo strumento “dell’accomodamento ragionevole” ha quindi proprio lo scopo di rimuovere quegli ostacoli che di fatto impediscono ad una persona in condizioni di fragilità, di essere messa alla pari degli altri. In altre parole, una discriminazione potrebbe configurarsi nel caso in cui tutti vengono trattati nello stesso modo, senza tenere conto delle differenze personali. Ovviamente l’obbligo di adattamento, necessario per la rimozione degli ostacoli incontra dei limiti costituiti dalla cosiddetta “ragionevolezza”. Questo significa che ad esempio non si potrà pretendere delle modifiche che, nel caso specifico, comportano un “onere sproporzionato o eccessivo” (articolo 2 Convenzione Onu).

Concretamente, però, che cosa può fare una persona con disabilità che ritiene di essere stata discriminata? Innanzitutto può rivolgersi personalmente al Tribunale, depositando un ricorso senza dover necessariamente dare mandato ad un avvocato. In alternativa, può dare mandato ad una Associazione, tra quelle iscritte in uno specifico registro tenuto dal Ministero per le Pari Opportunità. Sarà quindi l’associazione a presentare un ricorso in nome e per conto dell’interessato.
A questo punto il tribunale valuterà la sussistenza o meno della discriminazione e in caso di accoglimento del ricorso, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno, ordinerà la cessazione del comportamento discriminatorio, ove ancora sussistente, e adotterà ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione, compresa l’adozione di un piano di rimozione delle discriminazioni accertate.
Questo procedimento si caratterizza, rispetto ai processi ordinari, per una maggiore flessibilità e rapidità. Per esempio, la persona disabile è legittimata a depositare il ricorso presso il tribunale dove risiede e non presso il Tribunale dove risiede il convenuto, in deroga alle ordinarie regole processuali. Ciò significa evitare di dover spostarsi lontano per poter far valere i propri diritti.