Le pensioni e i pensionati del futuro, secondo l'Ocse

Scritto da Alessandra Cicalini il 01-04-2011

Quasi dappertutto nel mondo si sta innalzando l’età della pensione per donne e uomini, ma nonostante si preveda per il 2050 di avere una quota maggiore di persone in servizio ben dopo i sessanta, gli anni da trascorrere a riposo saranno ancora molti. Come mai? La risposta è contenuta nel IV Rapporto dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (in sigla, Ocse) sulle Pensioni relativo a 43 diversi Paesi, presentato lo scorso 17 marzo.
Nella maggior parte degli Stati analizzati – sostiene l’importante documento – la speranza di vita al momento dell’uscita dalla vita attiva è destinata ad aumentare ben oltre l’innalzamento dei limiti previsti dai singoli Stati sull’età massima pensionabile. Di per sé, non ci sarebbe nulla di male ad avere più anni per godersi il meritato riposo. Il problema nasce dal fatto che, sull’altro fronte, non sarebbe previsto un analogo aumento dei nuovi nati, almeno non tanto quanto quello riguardante gli anziani. Chi pagherà le pensioni dei secondi, quindi? E chi occuperà i posti di lavoro rimasti vacanti?
L’indagine dà naturalmente più di una risposta, sulla base anche delle differenze tra i Paesi osservati, tra i quali, per la prima volta, anche Cile, Estonia, Israele e Slovenia, ossia i quattro nuovi membri dell’Ocse, più alcuni Paesi del G20 di grande importanza strategica, dall’Argentina al Sudafrica, oltre ai 27 membri dell’Unione europea.
Mediamente, in tutti gli Stati esaminati l’Ocse rileva una speranza di vita media all’età pensionabile nel 2050 di 20,3 anni per gli uomini e 24,5 per le donne. Per tenere il passo con questo incremento, quindi, bisognerebbe lasciare il lavoro rispettivamente a 66,5 anni per gli uomini e 66 per le donne. Non tutti i Paesi coinvolti nell’indagine si sono però incamminati su questa strada (ben dieci Stati avrebbero abbassato l’età pensionabile degli uomini e tredici per le donne, tra cui la Bolivia, come ricordato anche da Muoversi Insieme, ndr) e oltretutto nel quinquennio 2002-07 in tutta l’area si è andati pensione 4-5 anni prima di quanto facessero i lavoratori negli anni Sessanta. Tutto questo, osserva il documento, “dà un’idea della portata della sfida che i governi devono affrontare”.
In Italia, ad esempio, che cosa succederà? Il Rapporto ci dedica un intero capitolo, dal quale risulta, innanzitutto, che nel 2010 il nostro Paese era il secondo più anziano dopo il Giappone, con sole 2,6 oltre 65 anni ancora in servizio. Di conseguenza, molto consistente è anche la spesa pensionistica attuale, pari al 14,1% del nostro Pil nazionale, rispetto al 7% medio dell’Ocse.
La percentuale dovrebbe diminuire nei prossimi anni, precisa di seguito il Rapporto, via via che andranno a regime le riforme attuate negli ultimi anni nel nostro Paese. Nel giro di poco tempo, infatti, dovrebbe diventare definitivo il passaggio al sistema contributivo per il calcolo delle pensioni ed entrare in vigore a partire dal 2015 l’agganciamento dell’età pensionabile all’aspettativa di vita.
In questa maniera, anche l’Italia dovrebbe “migliorare i tassi di partecipazione dei lavoratori di età superiore ai 60 anni”, precisa il documento; al contempo, anche la spesa pubblica per le pensioni “dovrebbe rimanere sostanzialmente stabile fino al 2050”, chiosano ancora i curatori.
Per tutti i Paesi Ocse, d’altronde, è fondamentale offrire incentivi a proseguire nell’attività lavorativa, dal momento che, un po’ dappertutto, si va comunque in pensione troppo presto. Come convincere gli anziani di entrambi i sessi a restare in servizio più a lungo?
Innanzitutto studiando forme di lavoro adeguate alla loro età evitando la discriminazione a vantaggio dei più giovani. Per il momento, al contrario, nel grosso dei Paesi esaminati sussistono pregiudizi sull’età e sulla capacità di adattamento dei lavoratori anziani, al punto che talvolta sono gli stessi datori di lavoro a ricorrere al pensionamento anticipato “quale modo pratico per modulare le dimensioni della propria forza lavoro”, osserva l’Ocse.
Oltretutto, spesso si sostiene che aumentare la quota di lavoratori anziani danneggerebbe i giovani alla ricerca di occupazione, una tesi con la quale il rapporto è in forte disaccordo.
Scrive infatti l’Ocse: “Il tasso di occupazione degli individui appena ventenni è fortemente e positivamente correlato al tasso di occupazione dei quasi sessantenni. Da una rilevazione sui comportamenti appare che quanto più basso è il tasso di occupazione di lavoratori più giovani e più anziani tante più persone sono pronte a condividere tale argomentazione”.
Insomma, il problema è la carenza del lavoro in generale, non dello scontro generazionale tra lavoratori giovani e anziani.
In questo senso, è interessante l’esempio offerto da una nota casa automobilistica tedesca di cui abbiamo parlato in una delle nostre news, che ha fronteggiato la carenza di operai più giovani ristrutturando un suo stabilimento bavarese con postazioni adeguate ai dipendenti più anziani.
Si tratta, ovviamente, di una goccia nell’oceano degli interventi che i Paesi oggetto dell’indagine Ocse dovrebbero approntare per tenere unita la società tutta. Non a caso, tra gli aspetti esaminati verso la fine, il rapporto si sofferma sul rischio povertà di ciascuno Stato analizzato.
Il documento si conclude perciò con il seguente consiglio: l’unica maniera per evitare il crack per una parte dei futuri pensionati, privati del ricco assegno pubblico attualmente erogato in quasi tutta l’area esaminata, è puntare sempre di più sulle pensioni private, come stanno già facendo Nuova Zelanda, Germania, Regno Unito e Irlanda.
Ed è facile immaginare che presto li seguirà anche l’Italia.