l'orto in città per amare la terra e la vita

Scritto da Luciana Quaia il 02-08-2012

Vivete in città e attendete la bella stagione per vedere finalmente il balcone fiorito?
E se al rosso di rose, petunie e gerani provaste a sostituire quello di fragole, peperoncini  e pomodori? Non è necessario possedere appezzamenti di terra per gustare la freschezza di un’insalatina appena colta: anche nel risicato spazio di un balcone (per i più fortunati, di un terrazzo) si può compiere la magia del seme che, come scrive Mario Luzi, “deve, lo sa, scoppiare, marcire e trasalire nel rigoglio”.
E’ di poco tempo fa un articolo scritto per Muoversi insieme in cui si rimarcava che per uscire dalla crisi si può ricominciare dalla terra e gli esperimenti sempre più numerosi dell’Orto Diffuso dimostrano che effettivamente questa intenzione si sta consolidando. Secondo le indagini condotte da Coldiretti, infatti, risultano solo in Lombardia oltre un milione di balconi coltivati, mentre sul territorio nazionale la cifra sale a quasi sei milioni e mezzo.
Ciò a confermare che un gran numero di piante orticole si presta a essere cresciuto in vaso, oltre che in pieno campo, a partire dal semplice davanzale della finestra, che può ospitare in vasi lunghi da 50 a 70 cm. le simpatiche erbe aromatiche o i poco pretenziosi ravanelli, sino ad arrivare a balconi, terrazzi o cortili dove vasconi da 1 metro per 40 cm. di profondità diventano luogo sicuro per una varietà innumerevole di ortaggi.
Ma perché fare un orto in città? Il Manifesto di Orto Diffuso recita: “l’orto non è una resa alla nostra condizione di abitanti delle aree urbane, ma è semmai una reazione, una presa di possesso, una riappropriazione della città secondo un modello lontano da quello della speculazione commerciale e edilizia… ristabilisce il legame tra natura, campagna e città, aprendo i confini dell’area urbana … non è una resa all’ambiente inquinato in cui viviamo, ma un’azione diretta che contribuisce alla sua trasformazione … e permette di sperimentare anche forme integrate di autonomia economica”. Vantaggi quindi ecologici ed economici, ma non solo.
Dedicarsi alla cura di un orto, sia  pur minimale, significa anche recuperare le proprie radici, sperimentarsi nella cura, amare la vita. Probabilmente tutti abbiamo avuto esperienza educativa già nella prima infanzia, quando sui banchi della scuola elementare, in piattini coperti da ovatta inumidita, la maestra ci esortava a disporre i semi del nasturzio o del pisello odoroso per introdurci ai misteri della riproduzione e della nascita della vita. O, per molti altri, può riemergere il ricordo delle vacanze nella casa di campagna dei nonni, un po’ come racconta il famoso architetto di giardini Paolo Pejrone: “era molto più piacevole e reale la vita fatta di caldarroste in autunno, di ciliegie in primavera … e poi le cucciolate, l’orto da curare e coltivare, il pollaio da seguire. Per non parlare del raro privilegio di assaggiare tutte le frutta ancora verdi: albicocche, mele, uva”. Veramente una fortuna se paragoniamo questi vissuti a quelli degli attuali bambini di città, che possono tutt’al più contare su gite scolastiche presso aziende agricole o agriturismi, per imparare che zucchine e melanzane non nascono sui banchi del supermercato o nelle celle dei surgelatori.
un’esperienza quindi anche di tipo educativo: seminare e coltivare una pianta sul balcone di casa è un buon metodo per prendere coscienza di quanto tempo e impegno siano necessari per fare nascere una vita vegetale, oltre che per poter constatare la bellezza estetica dei fiori e delle foglie, prima dell’ingrossamento dei frutti. Senza poi trascurare il ripristino della naturalità dell’orologio biologico, ora che frutta e verdura hanno completamente smarrito la specificità del ciclo stagionale, essendo presenti sulle nostre tavole in tutti i mesi dell’anno.
Nella coltivazione di un orto, inoltre, la persona impegna corpo e mente. Anche nella prospettiva “domestica”, i gesti della cura sono universali: seminare, diradare, trapiantare, rincalzare, sostenere, bagnare, concimare, cimare, raccogliere … richiedono la stessa attenzione sia che ci troviamo nel campo, sia che siamo al cospetto di vasi o vasche. Anzi, per certi versi, il balcone di casa sconfigge il saggio detto popolare “La terra è bassa” e persino la persona anziana può dedicarsi a questo compito con maggior agio, essendo il piano di lavoro rialzato rispetto al calpestio del suolo.
Che la coltivazione di un orto produca vantaggi psicologici è uno dei principi base dell’Horticultural Therapy. Nata nei paesi anglosassoni per persone disabili, con autonomie compromesse o con problematiche psico-sociali, sta trovando sempre più ampio spazio anche nei servizi di cura italiani, fra cui le residenze socio-sanitarie per anziani e i giardini protetti per persone con demenza. Questi tipi di orti vengono arredati con bancali ergonomicamente costruiti per permettere agli anziani di coltivare  piante stando comodamente seduti come ad un tavolo. l’attività di orticoltura riveste carattere terapeutico-riabilitativo sia perché stimola una serie di abilità motorie, sensoriali, intellettive e psicologiche, sia perché fornisce alla persona compromessa fiducia nelle proprie capacità, rinforzando quindi l’autostima. Nel caso di persone con deterioramento cognitivo è stato anche registrato un effetto benefico sul comportamento disturbato e una minor propensione all’agitazione.
Possiamo quindi riconoscere a questa pratica un valore terapeutico? Herman Hesse, in “Ore nell’orto”, scriveva: “mi accoglie l’orto … anche i pensieri son già lontani, via dalla casa, dalla colazione, dai libri, dalla posta, dai giornali”. Contemplazione e meditazione sul trascorrere del tempo dettato dal ciclo della vita e della morte diventano nell’orto in miniatura elementi di serenità e pacificazione sostitutivi di stress e ansia.
Aggiungiamo poi la stimolazione della creatività, poiché uno spazio ridotto cui si richiede di diventare habitat per l’autoproduzione costringe a cercare rimedi fantasiosi per problemi di tipo architettonico. Nel bel libro di Mariella Bussolati “l’orto diffuso” vengono illustrate idee e soluzioni incredibili e pittoresche per rendere anche lo spazio più esiguo fruibile, vivace, ricco e colorato.
Un altro fattore non trascurabile è legato alla ricerca collaborativa con persone che condividono la stessa passione: nell’amichevole competizione che sempre contraddistingue i produttori “fai da te”, oltre alle schermaglie sulla grammatura più grossa o sul rendimento del raccolto casalingo, si possono scambiare semi, trasferire conoscenze, garantire bagnature in concomitanza delle vacanze, suggerire metodi di cottura o conservazione …
Sinora abbiamo parlato di vantaggi e probabilmente nella lista dobbiamo inserirne un ulteriore, anche se a prima vista potrebbe non sembrare tale.
Ci sono variabili che sfuggono al controllo umano. Il contadino si deve misurare con le avversità del tempo e delle conseguenti ricadute negative sul raccolto, ma questo può accadere anche sul balcone, dove sicuramente si è meno attrezzati tecnologicamente per contrastare ciò che vuole la natura.
In fondo però anche questo è un insegnamento, come rileva Adriana Giorgetti nel suo autobiografico l’arte di coltivare l’orto e se stessi: “Dal mio esercizio ho pure imparato che l’aver cura della terra non dà diritto al risultato, come l’aver cura di un malato non ne garantisce la guarigione, l’aver cura di una relazione umana non giustifica la pretesa di essere ricambiati. Può sempre intervenire un quid d’imponderabile, che distrugge la coltura o la salva malgrado me”.
Un modo per ricordarci che non sempre le cose corrispondono ai nostri desideri.

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