"Somewhere", riflessioni a margine di un film

Scritto da Laura Cantoni il 14-12-2010

Di recente ho avuto l’occasione di vedere Somewhere, il film di Sofia Coppola (figlia del celebre regista Francis Ford) che ha vinto il Leone d’Oro all’ultimo Festival di Venezia.
La storia è molto semplice, come tutte quelle dei suoi film, ma mi è sembrata interessante per i lettori di Muoversi Insieme per i motivi che illustrerò tra poco.
Johnny Marco, celebre attore di Hollywood, vive il suo successo in modo apatico nonostante gli impegni, i contatti e le relazioni tipici dello star system. Separato, conduce un’esistenza da single superficiale vivendo nell’hotel Chateau Marmont di Los Angeles, frequentato da molti attori famosi. Un giorno, il colpo di scena: la convivenza temporanea con la figlia undicenne Cleo apre in lui uno squarcio di consapevolezza sul proprio vuoto esistenziale spingendolo (probabilmente) al cambiamento. Perché, dunque, la trama dovrebbe interessare i nostri lettori?
Pur non essendo in grado di valutarlo come farebbe un critico cinematografico professionista, a mio avviso il film è molto bello per la sua semplicità e densità al tempo stesso, per la sua capacità di raccontare in maniera minimalista sentimenti importanti, per la regia suggestiva che illumina i personaggi, per la sceneggiatura scarna ma precisa, per il tono molto pacato e non giudicante che però fa riflettere.
Soprattutto, Somewhere in maniera inconsapevole sollecita suggestioni psicologiche e sociologiche molto interessanti.
Per esempio, il protagonista  incarna alla perfezione l’esponente-tipo dello star system di oggi. Perché dico proprio “oggi”?
Perché attori come Johnny Marco forse ci sono sempre stati, ma l’immagine che viene trasferita sembra alludere a una realtà un po’ diversa rispetto al mondo dei personaggi di fascino, nella loro statura o eccentricità, a cui storicamente ci siamo abituati.
Johnny è ricco, viziato da produttori e assistenti, trattato come una celebrità di cui si scandiscono, con ritmo incessante, gli impegni sociali, le conferenze stampa, le trasferte, le relazioni istituzionali. In realtà, il personaggio appare molto poco a suo agio in queste situazioni: impacciato, poco coinvolto, non abile nella comunicazione; nonostante la fama, sembra un attore tutto sommato di scarso spessore e i  suoi film storielle strappacuore popolate da improbabili attricette.
La regista ci parla quindi di un mondo molto finto,  impregnato di relazioni vuote di contenuti e di situazioni usa e getta: ma anche di un sistema, quello spettacolo, squalificato, che premia la mediocrità e in cui le incapacità trovano spazio e valorizzazione. Questa  lettura non riguarda però solo Hollywood.
La “prima” del film, in Italia, viene contestualizzata in uno spettacolo televisivo popolare, di cui lo sguardo della regista sottolinea impietoso il kitsch disinvoltamente gestito dalle celebrities nostrane.
Somewhere, ed è la prima lettura, quella diremmo “sociologica”, ci allerta quindi sul rischio dell’impoverimento che sta vivendo la cultura dello spettacolo, che si tratti indistintamente di Hollywood o di Milano. Si tratta di un pericolo contro cui, a mio giudizio, film come quelli di Sofia Coppola forniscono fortunatamente un potente antidoto.
La seconda lettura, probabilmente più intenzionale da parte della regista, è quella psicologica: la vicenda interiore di Johnny, le sue debolezze e il suo riscatto.
Il protagonista ha una figlia undicenne, Cleo, che vive con la moglie separata e che lui vede saltuariamente e distrattamente, complici gli impegni ma soprattutto la sua abulìa anche come padre.
La coabitazione forzata con la ragazzina cambia completamente le carte in tavola.
Bisognosa di affetto, Cleo manifesta verso il padre assente una richiesta di attenzione, oltre che un sottile risentimento che finisce per metterlo in crisi: Johnny comincia a rendersi conto che nella sua vita mancano relazioni significative, coinvolgimenti sentimentali profondi, effettive competenze professionali, in una parola uno scopo esistenziale vero.
Il rapporto con la figlia aiuterà quindi Johnny a riflettere su se stesso, a riprendere possesso della propria vita e forse  anche ad abbandonare  i  fasti e i  falsi miti della celebrità.
Andando al di là della pellicola, la relazione padre-figlia che si snoda tra Johnny e Cleo ci dice molte cose sulle relazioni familiari di oggi.
In primo luogo, ci parla del forte bisogno di riferimenti solidi da parte degli adolescenti, e di come, pur nella “normalità” di condizioni un tempo anomale (le separazioni, le famiglie “allargate”, cambiamenti repentini nelle abitudini di vita),
la presenza dei ruoli genitoriali,  diversi nella loro complementarietà, sia essenziale per il loro equilibrio e felicità. Cleo non soffre tanto per la separazione dei genitori. Avverte piuttosto disagio per la distrazione (sistematica) del padre e angoscia per l’assenza (quando sembra prefigurarsi prolungata e senza notizie) della madre.
La mancanza di attenzione e della consapevolezza di “non poter contare su…” appaiono molto più devastanti rispetto alla forzata autonomia e nomadismo tipici delle famiglie destrutturate.
In secondo luogo, il film ci parla della forza degli affetti, e soprattutto di quelli familiari, come motori del cambiamento. Nei periodi di crisi, e non parliamo solo di crisi economica, ma di crisi delle identità comunque forte in momenti di incertezza, gli affetti stanno assumendo un ruolo importante nelle scelte di vita e delle relazioni: e ce lo dice anche il recupero dei rapporti di coppia stabili da parte dei giovani o la tendenza alla ricostruzione dei nuclei familiari anche dopo esperienze negative, da parte degli adulti.
In terzo luogo, ci parla dei nuovi adolescenti. Sono più adulti di prima perché più autonomi, più informati, più liberi, più capaci di interazione intellettuale; ma sono spesso ancora più bambini nella richiesta (a volte malcelata) di accadimento, nella dipendenza emotiva, nel disimpegno, nella ricerca del piacere. Cleo è l’emblema di questo mix tra l’essere bambina e l’essere adulta, proprio come moltissimi ragazzi oggi: e proprio l’insieme di capacità critica e bisogno di un riferimento le permette di svolgere nei confronti del padre un ruolo maieutico, forse più grande di lei.
Sarebbe a questo punto interessante sapere se qualcuno di voi abbia avuto la mia stessa impressione.
In particolare, mi piacerebbe ricevere commenti dai nonni, in questo momento i migliori osservatori dei cambiamenti sociali che stanno attraversando le nuove famiglie messe su dai loro figli e dai figli di questi ultimi.
Dei cambiamenti è fatta qualsiasi società e dovunque dovessero portarci non bisogna averne paura: l’importante è affrontarli con lucidità e coraggio.
A tutti voi, i miei migliori auguri di Buone Feste.

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