Amelia Bortolotti:

“Nessuno si salva da solo”

Sotto un cappello floscio, color cammello, elegante e dall’aspetto curato, spiritosamente anticonformista, la signora Amelia dardeggia intorno a sé uno sguardo allegro. “Fa fresco questa mattina. Non è meglio se ci accomodiamo dentro il bar?” È tutto un susseguirsi di saluti, di sorrisi, di gesti svelti con la mano che la signora rivolge agli ospiti e ai gestori del locale nel quale entriamo. Si vede che l’ambiente le è familiare e che le persone che incontra le sono, in vario modo, consuete e il ritrovarsi, ogni volta che capita, è gradito a tutti. Lo scialle rosso che le avvolge le spalle, ravviva la sua figura: è proprio un ingresso condotto con uno stile che seppur noto ai presenti, sorprende sempre e non passa inosservato. Appena seduta mi porge un biglietto che lì per lì mi sembra un santino.

“Nessuno basta a sé stesso, occorre un cammino comune”

Vi campeggia la faccia di un signore nero, Otto Bitjoka, vestito in modo formale e serio, cravatta, camicia bianca indossata sotto una giacca scura con il fazzoletto candido che fa capolino dal taschino. Chi sia Otto lo scoprirò più tardi a casa, quando vado a documentarmi. Imparo così che il personaggio del biglietto è un camerunense bantù, in realtà questo signore lo si può definire un vero afro-lombardo dal momento che vive a Milano da più di trent’anni, si è laureato alla Cattolica e ha, fra l’altro, anche sposato una milanese. Otto è fortemente impegnato nel sociale e ritiene che “il merito sia il motore del futuro”. Ma tutto questo per adesso lo ignoro: sotto il bel volto del signor Otto, serio ma accogliente, campeggia questa scritta: “Nessuno basta a sé stesso, occorre un cammino comune”. Questo è quanto leggo nel biglietto che mi porge. Come molti fanno quando viene dimostrata la loro ignoranza, nascondo l’imbarazzo non staccando gli occhi dal biglietto, evitando di incrociare lo sguardo con la mia ospite, dissimulando tutto lo smarrimento e lo sconcerto che provo. “Che le dico, adesso?” – penso fra me e me – “Che c’entra questo biglietto con la signora che ho qui di fronte a me?” Perso in questi pensieri taccio, preferendo dare l’impressione d’essere una persona piuttosto scialba e ignorante piuttosto che, dando aria alla chiostra dei denti, darne ampia dimostrazione.

Amelia Bortolotti

Una personalità che ribolle, tra i ricordi e il presente

Non ho mai incontrato Amelia prima d’ora, non so nulla di lei: i brevi cenni che suo figlio Matteo m’ha fatto, hanno scatenato in me una grande curiosità tale da chiedere al mio amico di farmela conoscere al più presto. La consegna del “santino” mi spiazza completamente e in quel preciso momento capisco che sto per avviarmi a scoprire un universo davvero articolato e complesso. Non mi è mai capitato un esordio così particolare. E subito Amelia letteralmente m’inonda con la sua vitalità, la sua energia, la sua brillantezza. Da lei sgorgano perlomeno tre grandi temi: la filosofia che la ispira e la anima e che l’ha guidata per tutta la vita; Castiglione delle Stiviere, la campagna dove nacque e dove compì le prime esperienze di bambina amata ma non certo viziata, e i successivi spazi milanesi, col tempo progressivamente dilatati attraverso l’impegno e la fatica; infine l’amore di una vita, perso ormai più di tre lustri fa ma ancora estremamente  caldo e presente. Tutti questi aspetti corrono, fluiscono, ribollono e s’intrecciano in una corrente vorticosa di ricordi, di persone, di accadimenti narrati mentre le sue mani spesso a momenti mi sfiorano, in altri mi stringono appena, come per sottolineare l’intensità e l’importanza di quell’accadimento narrato.


Alla fine della conversazione mi rendo conto che proprio il tema dell’amore sia il collante che tiene insieme tutti i vari pezzi che compongono il vissuto di Amelia e attraverso questa preziosa lente, posso scorgere gli infiniti rimandi tra un filone narrativo e l’altro, riuscendo così a dipanare la ricchezza del suo racconto inarrestabile, fluviale. Comincia ora a prendere senso anche quella citazione: “Nessuno basta a sé stesso, occorre un cammino comune”.

La nascita a Castiglione delle Stiviere, la povertà e la dignità

Amelia nasce a Castiglione delle Stiviere, paese stupendo della bassa mantovana. Ha portato con sé per mostrarmelo un bellissimo libro fotografico che esalta il ricordo della sua terra dove chiesette, pievi, cascine si susseguono, molte di queste costruzioni inglobando elementi di edifici preesistenti, dove sofisticate colonne del XVI° secolo, sostengono travature di un modesto fienile, in qualche modo così nobilitandolo. Si capisce che per quanto l’abbia vissuto solo bambina, questa campagna la porti ancora dentro al cuore. La storia del nostro paese attraversa le lotte contadine molte delle quali avvennero proprio nella pianura padana: la progressiva trasformazione delle colture, il territorio nel quale, neanche tanto lentamente, spariscono le piccole proprietà; dove i contadini autonomi svaniscono trasformandosi in braccianti, ingaggiati di volta in volta dagli scherani degli agrari. Tutto s’intreccia con l’arrivo della meccanizzazione che precipita la situazione in un inestricabile intreccio di cause ed effetti dove il risultato è l’esplosione dell’ampliamento della forbice che divarica la miseria dalla ricchezza, tanto rabbiosa e crudele la prima, quanto smodata ed arrogante la seconda. “Nessuno si salva da solo. I nonni erano poveri ma il tavolo che avevano in cucina era lungo, parecchio lungo”. La miseria in questi paesi, per queste persone fa rima con generosità e s’avverte netto nel racconto di Amelia il profumo della polenta che veniva distesa su quell’ampia superficie di legno scabro, per placare fami cattive, strazianti, ricorrenti di quei tanti che bussavano alla porta senza venirne mai respinti, condividendo la scarsità cibo, surrogandola con l’abbondanza della solidarietà.

Dalle campagne a Milano, Amelia lavora come sarta in via Durini

Adesso mi mostra una fotografia in cui ha otto – nove anni: “Vede queste scarpe che indosso? Sono di legno”. Questa immagine, così esplicita, m’immerge nella consapevolezza della durezza della sua vita: eppure, il sorriso che illumina la foto, stempera la cupezza del momento. “Quando ho finito la quinta elementare” – continua Amelia – “per i miei insegnanti avrei dovuto assolutamente continuare a studiare. Nonostante vivessi con i miei nonni che mi parlavano solo in dialetto, ero brava in tutte le materie. Ma i miei genitori non se lo potevano permettere. C’era bisogno. Tutti noi, grandi e piccini, dovevamo dare il nostro contributo. Anch’io, quando tornavo da scuola, andavo a raccogliere l’erba da dare poi ai maiali. Poi però dovemmo lasciare la campagna e andare a cercare lavoro a Milano. Mia madre faceva servizio presso le famiglie ma a me il babbo promise che avrei imparato un lavoro, che non sarei andata a servizio di nessuno. Avrei ottenuto una competenza professionale che mi avrebbe dato sicurezza, rispetto e dignità. Così quando arrivammo a Milano io imparai a lavorare come sarta. Lavoravo in via Durini al 9” “Ma scusi, al 9 non c’è il palazzo Cusini?” “Certo, erano industriali tessili da più di trent’anni. L’ha presente quel palazzo, no?” “Certamente: la facciata è davvero monumentale, con statue, balaustre, obelischi” “L’interno, cinque piani, era altrettanto monumentale. In uno stanzone stavamo noi lavoranti, sorvegliati da un tipo che percorreva incessantemente lo spazio fra le postazioni di noi cucitrici”

Tra ago e filo, ho imparato a vivere

“L’arte del cucito le ha dato da vivere, dunque” “Non solo mi ha dato da vivere, mi ha anche insegnato a vivere” “Che cosa intende?” “Mi piacciono i libri a capitoli. Le tante storie che ciascuno di noi vive nei diversi momenti della sua vita si dipanano, crescono, si sviluppano, si diramano e s’arricchiscono sempre, costituendo così racconti nei racconti, appunto capitoli specifici che poi, raccolti insieme, fanno il libro di quella vita. Sono sempre stata una donna fortunata. Ho potuto frequentare persone che hanno studiato e da cui, con pazienza, ho appreso. Amo ascoltare. Amo socializzare. Andavo a messa e anche le prediche dell’arciprete sono servite ad arricchirmi, mi hanno insegnato. A me va bene qualsiasi religione. Non credo nei santi. Credo di più nell’umiltà, nell’impegno e nell’amore che è dedizione e in sé riassume tutto. Le voglio raccontare un aneddoto. Io ho sempre avuto un grande rispetto per i miei genitori. Non solo li ho amati: li ho proprio compresi nel loro sforzo di vivere con dignità la loro condizione. Come tutte le femmine ho provato più vicinanza con mio padre, anche se non era uomo facile. Mia madre invece m’è sembrata sempre come trattenuta nei suoi slanci verso di me. E un giorno ho capito perché. Quando feci i documenti per il mio matrimonio.

Il matrimonio riparatore e quel rapporto più freddo con la madre

In quell’occasione io scoprii d’essere nata prima che loro si sposassero, prima che – come si dice – ‘regolarizzassero’ la loro posizione col matrimonio ‘riparatore’. Per questo fatto, per avermi cioè concepito prima che si sposassero, mia madre ha sempre avvertito su di sé quello che lei chiamava ‘il peso della colpa’. Ma non è giusto: per me il matrimonio è un contratto, e in quanto tale sancisce i reciproci impegni. E loro li hanno assolti tutti nei miei confronti. E a loro l’ho sempre detto: grazie d’avermi messa al mondo. E poi sa che fantasia ho? Sogno che mi abbiano concepito sotto un albero, in una bella giornata di sole, fra fiori e frasche. Ecco dov’è tutta la colpa che mia madre aveva preso su di sé: galeotto fu il romanticismo e lo struggimento della natura complice”

“Mi stava raccontando che fece i documenti per sposarsi. Dove incontrò suo marito?” “Eh sì, me lo ricordo benissimo. M’innamorai all’istante. Anche questa è una bella storia. Vede, io una volta dissi chiaro e tondo a mio padre: ‘Uno del mio paese non lo sposerò mai’ Prima mi devo innamorare” “E come successe?” “Come sempre succedono queste cose. Per caso? Forse, ma forse anche no. Per farla breve, conosco Sante, il mio Sante, in una casa dalle parti di San Siro dove ero stata invitata per una festa.

Galeotta fu una festa a San Siro e un ballo: Amelia si innamora

Avevo 21 anni. Questo era capitato perché una mia cara amica mi invitò a questa festa. Il mio primo pensiero, appena ricevuto l’invito, è quello che hanno tutte le donne quando capita loro un evento particolare, inatteso, come appunto una festa. ‘Che cosa mi metto?’. Con mille ambasce mi preparo e vado. Entro in una casa bellissima. Laggiù, in fondo al salone c’erano schierati diversi ragazzi, in attesa di noi fanciulle. ‘Eccolo lì’ – faccio fra me e me – Lo vedo e mi dico: ‘o quello o niente’. È il colpo di fulmine. Balliamo, parliamo. Poi la festa finisce. Fuori pioviggina. Niente ombrello. Ma ci bagniamo poco. Ci scambiamo i numeri di telefono. Ed è cominciata così. Pensi che lui lavorava in via Cerva e io in via Durini e non c’eravamo mai incontrati pur vivendo così a un passo l’uno dall’altra” “Eravate in procinto di ‘un cammino comune’” “Proprio. A proposito: senta questa. Un giorno camminavamo mano nella mano. Arrivati che siamo in Piazzale Baracca, scorgo mio padre venirci incontro. Anche lui ci vede. Mi sciolgo dall’intreccio delle dita ma so che ormai è inutile. Quando arrivo a casa m’aspetta il disastro. Che puntuale, al mio rientro, m’investe. Io resisto e a un certo punto faccio a mio padre: ‘o mi sposo o me ne vo’. Tutto detto coll’arroganza della gioventù, senza sapere come avrei potuto mantenere fede a questa affermazione così perentoria. A Sante poi quando l’incontro, a muso duro gli spiattello: ‘hai intenzione di prendermi in giro o hai intenzioni serie? Perché, sai, io non ho mica tempo da perdere’” “E lui? “Sante mi fa: ‘Ti ho guardato negli occhi e mi sei piaciuta subito. Vuoi sposarmi?”

“Ti amo non solo perché sei bella, ti amo soprattutto perché sei bella dentro”.

“Dolcissimo davvero. Quanti anni aveva quando si è sposata?” “24. Siamo stati felici ma poi Sante passa un periodo in sanatorio. Tutti i giorni mi scriveva: lettere di quattro pagine, fitte fitte, lui scriveva piccolo piccolo: ma ciò che diceva era davvero enorme: ‘ti amo non solo perché sei bella, ti amo soprattutto perché sei bella dentro”.

Tutto finisce: Sante ha un glaucoma agli occhi, diventa cieco e poi subisce l’assalto dell’Alzheimer. “Ancora oggi, quando penso a mio marito, morto quasi 16 anni fa, gli chiedo: ‘abbiamo firmato il contratto per tutta la vita, perché mi hai lasciata qua?’ Con la sua morte, con i figli ancora in casa, non le nascondo che ho passato momenti difficili. Ad un certo punto venne un incaricato della banca ad incassare i soldi del mutuo. Ebbe con me un atteggiamento sprezzante: arrivò a dirmi: ‘smetta di pagare il mutuo, tanta questa casa non sarà mai sua’. Che ne sai tu di me? L’ho cacciato a calci. E la casa ce l’ho ancora.

Un’altra massima di Amelia: “conta più la pratica della grammatica”

“Quanto mi dice sembra però smentire la sua affermazione, o meglio quella di Otto: ‘Nessuno basta a sé stesso’. Lei ha dato ampia prova di aver quasi dominato gli eventi, praticamente da sola” “No. Non è così. Vede: io   al mondo col sistema della ventosa che mi ha prodotto un sacco di problemi con disturbi assimilabili all’epilessia. E mia madre ha perso due figlie, una subito alla nascita e l’altra pochi mesi dopo. Sa perché? Perché il suo latte era giallo, ma i medici non se ne erano accorti o non le vollero dire nulla. Che malattia era? Si poteva trasmettere di madre in figlia? Non lo sapevo. Ma quando partorisco il mio primo figlio, dopo ore di lotta, vedo che anch’io produco dal seno un latte giallastro. Proprio come la mia mamma. L’orrore che provo! Possibile che nessuno se ne accorga? Che nessuno faccia nulla? Urlo, chiamo tutti gli infermieri, i medici, strepito come una pazza, finché non ottengo d’essere ascoltata. Ma come – dico – voi avete studiato, voi possedete la scienza. Voi siete in grado di capire. Perché non cercate? Perché non provate? La vita senza ricerca è una vita inutile. L’errore permette di imparare. L’errore insegna. La scienza non è isolamento. La scienza è partecipazione, coinvolgimento perché deve guardarsi attorno, tutto cogliere, tutto considerare. La cura il medico bravo, che capisce, la fa insieme al malato, non si limita a somministrargliela e basta. Io ho imparato nella mia vita che il detto milanese ‘Conta più la pratica della grammatica’, è proprio vero. E che cosa vuol dire pratica se non condivisione, confronto, anche contrasto avendo però in mente un obiettivo comune, mirando così a ‘percorrere un cammino comune’.