Famiglia Briuglio
Teofilo Briuglio
La Storia
Il mio collega Carlo ha conosciuto di recente una persona che lo ha colpito: “Dovresti incontrarlo; secondo me per Stannah Racconta è perfetto.” Carlo è una garanzia: grazie a lui Marzia la fotografa ed io, abbiamo conosciuto Poldina, l’ostetrica della Brigata Garibaldi; Paul, il Garrincha della Costa d’Avorio; Fabio elicotterista e arredatore di chiese e Ruggero che ha imparato il tedesco a forza di scriverne le parole nelle rubriche del telefono. “Carlo è come un lagotto” – mi fa Marzia – “ha il suo stesso fiuto per scovare storie preziose ed affascinanti.”
Seguo allora tutto infervorato questa nuova pista; arrivo all’appuntamento più che curioso: so che sto per incontrare un ex dirigente d’azienda, oggi 88enne, simpatico ed energico. L’accoglienza è franca e calorosa tale da indurmi subito a chiedere al mio ospite il suo nome di battesimo. “Tenga, guardi qua” – mi fa il signor Briuglio e mi porge un fascicolo con una copertina trasparente, rilegato nel modo in cui, di solito, si raccolgono e si presentano documenti aziendali. Sul tavolo ci sono pubblicazioni e riviste per dirigenti d’azienda: quindi faccio quella che mi pare una logica deduzione.
Ovviamente ho preso un granchio: il fascicolo è piuttosto compatto, non più di una cinquantina di pagine. La prima cosa che noto è il titolo in capo al testo: LE MODISTE. Mi sovviene un titolo simile “La modista” di Andrea Vitali, il popolare scrittore di Bellano, ma il contenuto di questo testo, scoprirò più tardi, è di ben altro spessore. Noto anche la scritta al centro del documento, in stampatello: LA MIA FAMIGLIA. Altra deduzione: “Qui c’è la storia della sua vita, vero?” “Sì, certo”. “E questa scritta qui, sulla destra, in cima a tutto: ‘Anno del Centenario 1908 – 2008’ che cosa vuol dire?” “Nel 1908 ci fu il terremoto di Messina, ricorda?” “Altrochè! Nonostante siano passati 111 anni c’è – ancora oggi! – in piedi una baraccopoli per la quale la Regione siciliana e il Comune di Messina hanno richiesto a Roma la ‘dichiarazione d’emergenza igienico-sanitaria’.”
Ne “LA MIA FAMIGLIA” non si respira quell’atmosfera “guardia e ladri”, anche un po’ sensuale e ammiccante del libro di Vitali. In questo testo palpita una storia che si dipana per più di un secolo e seppur offerta al lettore con garbo e con mano leggera, con un tratto capace anche di far sorridere, viene evocato un contesto, uno scenario tristissimo e terribile per le tante sciagure del secolo appena trascorso. Proprio in quest’asprezza emerge il nostro protagonista: lottatore orgoglioso, talvolta temerario, quasi mai favorito dalla buona sorte. Energico, creativo e irrequieto, saprà costruirsi un presente solido e ricco d’affetti e di tenerezze.
“La sua storia, meglio, la storia della sua famiglia dunque prende l’avvio dal terremoto di Messina? “Proprio così. In neanche un minuto sparì una fiorente città. Non so se lo sa, a quell’epoca Messina era la regina del sud e dopo Roma era considerata la città più cosmopolita d’Italia. Lunedì 28 dicembre 1908 alle 5,20 di mattina scoppia il finimondo. Muoiono, pensi, più della metà degli abitanti! Fra i superstiti due sorelle, di 21 e 15 anni che diventeranno tutta la mia famiglia.” “Come fecero a salvarsi?” “Furono dei marinai russi che le estrassero dalle rovine.” “Marinai russi?” “Nel porto c’era una flotta russa, ma c’erano alla fonda anche altre Marine straniere che si prodigarono nei salvataggi. Certo ci volle un giorno e una notte per tirar fuori da lì sotto Tina – che diventerà mia zia – e Sara – la mia futura mamma.” “Della loro famiglia non ci furono altri superstiti?” “No. Morirono i loro genitori e pensi che l’intera famiglia Briuglio ebbe più di venti morti. Si salvarono solo due fratellastri di Tina e Sara che, al momento – per loro fortuna – erano fuori città.”
“E poi che successe?” “Prive di tutto, orfane, le due povere ragazze vissero stentatamente. Messina era distrutta al 90%: lo Stato decise d’erogare qualche indennizzo e nel contempo incoraggiò l’emigrazione. In quei frangenti bisogna avere tanto coraggio, disporre di grandi risorse morali; per fortuna le due giovani, piene d’orgoglio e di voglia di fare, furono capaci di mettere a frutto gli insegnamenti ricevuti dai genitori. Entrambe erano state avviate alla moda femminile, s’erano specializzate nella creazione di cappelli per signora, in fiori in tessuto ed in guarnizioni d’abbellimento. Queste capacità resero loro possibile il trasferimento dapprima a Napoli, poi a Firenze ed infine a Torino. La città della Mole nel 1925 è nota come la città della moda, piena di atelier e a stretto contatto con Parigi. Lì viveva Giuseppe, un loro fratellastro, colonnello dei carabinieri che le ospita per i primi tempi.”
“Immagino i sacrifici patiti, ma di certo avranno cominciato a raccogliere qualche soddisfazione, no?” “Di sicuro più dispiaceri che gioie: pensi solo alla discriminazione cui erano sottoposti i meridionali. Tina e Sara ne subirono costantemente gli affronti. Ma non hanno mai ceduto, non hanno mai smesso di lottare. E nemmeno hanno perso la capacità d’amare. Infatti nel 1928 nacque Emilia. Sara era finalmente felice: a 35 anni, sola sì, ma con una bimba stupenda.”
“Come procede la loro attività di modiste?” “Intensissima. Facevano le nottate pur di consegnare in tempo le loro creazioni! Frequentavano per lavoro anche le sfilate di moda dove, in una di queste, Sara incontrerà un certo barone che sarà capace d’ammaliarla. Ma quando nacqui io, di quel barone mi rimase solo il nome di battesimo: Teofilo. Entrambe le sorelle erano dei veri talenti: in particolare mia zia Tina era estrosa, ricca di fantasia. Nonostante la valentia e l’abnegazione d’entrambe, la concorrenza di laboratori meno attenti alla qualità e la contemporanea crisi economica, fiaccarono la loro impresa al punto che io, ad appena due anni, fui ospitato in un collegio di suore in attesa che la famiglia non tornasse nella condizione di riprendermi con sé.”
“Quando poteva vedere la mamma?” “Mai. Le suore pensavano che sarebbe stato meglio non rinnovare i distacchi. Pensi che in molti casi questi bambini non potevano essere ripresi dalle famiglie d’origine che non ce la facevano proprio a mantenerli. Una suora buona ogni tanto mi sussurrava che prima o poi la mia mamma sarebbe tornata a prendermi …. “ “Mentre che succedeva agli altri bambini? Mica potevano restare in collegio per sempre, no?” “I più piccoli venivano dati in adozione.” “E quelli più grandi?” “Eh, per loro c’era lavoro in campagna. Venivano mandati a lavorare nei campi presso dei grandi latifondisti, magari famiglie d’emigrati in colonia dove c’era un gran bisogno di manodopera. A quell’epoca, un po’ in tutta Europa si faceva così ….”
“Ha qualche ricordo di vita quotidiana?” “Come no! La vita ferveva vivace: saggi di canto, di recitazione, giochi con le figurine, con le biglie, a palla, la lotta e poi la scuola … insomma, avevamo il nostro bel daffare. E poi qui ho un ricordo nitidissimo. In occasione della Befana fascista, le monache impiegarono un sacco di tempo a lavarci e a strigliarci perché l’indomani, all’arrivo del Duce, fossimo lindi e pinti. Sicchè tutti schierati, azzimatissimi fummo passati in rivista dal Capo del Governo in persona che ci fece distribuire a ciascuno dei pacchi dono.” “Ah, che bello!” “Lasci perdere. Non avevo fatto nemmeno a tempo a sentire il peso del regalo che altre mani ‘istituzionali’ me lo portarono via!” “E perché?” “Altri collegi, altri incontri; i bambini erano nuovi ma i pacchi erano sempre gli stessi pacchi, dati e ripresi in una sarabanda infernale.”
“Erano ‘gli anni del consenso’. Anche mio padre che era nato qualche anno prima di lei, era sempre in divisa, inquadrato in attività paramilitari, in attività sportive che riempivano i suoi sabati fascisti …” “Già: ho un altro ricordo nitidissimo di quei tempi. Quell’estate ci portarono al mare! In treno fino a Bordighera. Per tutti noi bambini fu una meraviglia straordinaria: la prima volta in treno, la prima volta il mare … un’esperienza indimenticabile.” “Quindi ogni estate il collegio si trasferiva in colonia?” “Macché. Fu quello l’unico anno. Nell’estate del 1939 il mare di quell’anno fu il Sangone, sa quel torrente affluente del Po? Però ci mettevamo d’impegno per divertirci lo stesso.”
“Non ci sarà stato molto da divertirsi: in quell’anno scoppia la guerra” “Eh già. Sì, siamo ormai nel ’39. Le nostre suore decisero di allontanarci da Torino per scampare ai pericoli dei bombardamenti e ci trasferirono in un altro collegio del loro Ordine che sorgeva a Pistoia.” “Lei all’epoca aveva otto anni: com’era il collegio a Pistoia? Se lo ricorda?” “Una casa colonica, fatiscente di fuori, messa peggio dentro. Ma le suore facevano il possibile per provare ad ingentilirci la vita. La prima notte fu dura. Poi passò la malinconia e la cupezza. I bambini, si sa, sono fantastici: basta un nulla per ridare loro energia e speranza. Quell’estate poi l’Istituto doveva decidere se portarci al mare , in Versilia a Marina di Massa o in montagna, sulle Apuane a Forno. Io speravo tanto che s’andasse al mare. Erano i medici che decidevano quale sarebbero state le migliori condizioni climatiche per la nostra salute. E nell’estate del ’40 ottenni d’andare al mare. Poi l’estate finì e si tornò a scuola …. Ma più che i quaderni mi ricordo i piatti, non abbastanza pieni per placarmi la fame.”
“E arriviamo al 1941. L’Impero comincia a vacillare, vero?” “Più che altro i civili devono tirare la cinghia per riuscire a mandare tutte le risorse necessarie a chi combatteva in Albania, in Grecia, in Africa e in Russia. Sicché anche da noi in collegio, non che ce ne fosse tanto prima ma ora da mangiare ce n’era ancora meno. Un bel giorno con i miei compagni organizzammo l’assalto alla dispensa: la chiamammo ‘operazione topo’. Fummo assai misurati nei saccheggi ma ‘murare a secco’ (così in Toscana si dice mangiare senza bere) ci provocò, più o meno a tutti, qualche, diciamo così, imbarazzo … che solo vigorose purghe risolsero.” “Le suore vi punirono?””Sculaccioni e tirate d’orecchi, robetta. Triste invece fu che quell’estate non ci fu verso d’andare né in montagna né al mare. Gli alloggi estivi furono riservati ai tanti sfollati costretti ad abbandonare le loro case bombardate.” “E voi bambini che facevate ora che la scuola era chiusa d’estate?” “Ci si annoiava. E s’almanaccava fughe improbabili. Un bel giorno mi misi d’accordo col mio migliore amico e si decise che quella notte, visto che il nostro Collegio era così vicino alla ferrovia, avremmo scavalcato cancelli e recinti e saremmo saliti su un qualunque vagone, via! Verso la libertà!” “Racconti, dai!” “Fu già un’impresa svegliare in piena notte il mio amico e poi, quatti quatti ce la filammo dal collegio e cominciammo a correre a perdifiato verso i vagoni che vedevamo lì vicino senza badare che fossero treni merci né avere la minima idea di dove andassero. All’improvviso si scatenò l’inferno: cani all’attacco, polizia che spara in aria ed urla ‘Arrendetevi!’. Circondati, ci arrendemmo immediatamente agli stupefatti poliziotti che ci punirono severamente a forza di filoni di pane e salame.” “E le monache? Come la presero?” “Ci perdonarono.”
“Grande! E poi che successe?” “Tornai del tutto inaspettatamente a Torino!” “No! Non mi dica! Sua mamma …. “ “Si proprio lei e sua sorella mi vennero a prendere, ma io ancora non lo sapevo che erano proprio loro: io avevo davanti due signore fini, eleganti che nemmeno immaginavo mi avrebbero preso con sè. E invece fu proprio così. Via subito in un negozio di abiti e poi in pasticceria: fu lì che cominciai a capire il significato di quel detto toscano: ‘Gli fo più volentieri un vestito che invitarlo a pranzo’!”
“Ricomincia la scuola?” “Eh si, il 9 settembre 1942 inizio la quinta elementare e un anno dopo comincio a frequentare un corso ad indirizzo commerciale. A causa della guerra l’anno scolastico fu piuttosto difficile: talvolta succedeva che venissero trasferiti nella nostra scuola ragazzi la cui scuola d’origine era stata bombardata.” “L’8 settembre degli studenti!” “Eh sì: e come non finì la scuola, non finì nemmeno la guerra. Guerra strana, irregolare, non c’era mai stata da noi una simile. E la scuola ne risentì per forza: quando anche il nostro edificio fu danneggiato, ci trasferirono in una struttura su in collina e lì imparai ad andare in bicicletta. Imparai così bene che un giorno uscì dal cortile e mi ritrovai ad …. Asti. Era notte quando tornai a casa: l’accoglienza non fu trionfale ma la mamma era troppo felice di vedermi tornato tutto intero. Pensai che anche il Direttore della scuola avrebbe saputo apprezzare la mia intraprendenza: due schiaffoni mi fecero venire il dubbio. L’essere rimandato poi a settembre in tutte le materie per il sette in condotta che mi fu rifilato, me lo tolsero del tutto.”
“Anche se era tornata l’estate non era tempo d’andare in vacanza, immagino.” “Immagina bene: fui messo a servizio da un sarto perché imparassi un mestiere. E poi a settembre via di nuovo a scuola. Questa volta mescolati fra noi c’erano dei Balilla armati, indisciplinati e aggressivi. L’inverno fu particolarmente duro: un gran freddo e una gran fame che nemmeno il mercato nero poteva temperare.” “Sua madre e sua zia lavoravano ancora come modiste?” “La mamma impresse un’anima commerciale alla sua attività così con mia sorella andavamo di porta in porta a proporre i nostri articoli.” “E lei aveva smesso di andare a scuola?” “Non era più il caso. Giovani fascisti stazionavano davanti a scuola, provocavano e mandarono un po’ di gente all’ospedale. Meglio evitare. Il laboratorio dove lavoravo forniva divise e abiti borghesi sia ai gerarchi fascisti sia agli ufficiali nazisti, di giorno ma la notte preparava pellicce per i giubbotti dei partigiani. In entrambe le circostanze io mi trovavo coinvolto nelle consegne.”
“Quindi ha fatto anche la staffetta partigiana?” “Salivo su un camioncino carico di botti, ma solo alcune erano piene di vino. Io servivo come diversivo: data la mia giovane età, avevo 14 anni, non ero molto credibile come partigiano. Una sera però l’autista mancò di fermarsi a un posto di blocco, ci spararono addosso e rimasi ferito a un piede. Me la cavai: dal punto di vista fisico in qualche mese e da un punto di vista politico mi beccai un po’ di ceffoni dai militi fascisti. Poi per fortuna fui prosciolto.” “Ormai la guerra era agli sgoccioli.” “Infatti. Finisce un dramma e se n’avvia un altro. Il dopoguerra non fu certo meno difficile. Io ebbi fortuna perché mi capitò per caso di fornire qualche indicazione agli ufficiali americani. Evidentemente fui in grado di rendere loro un buon servizio perché da quel momento mi presero come loro accompagnatore fisso per tutte le loro incombenze in città. In breve imparai la lingua”
“Con il ritorno alla vita regolare, riprese anche a frequentare la scuola?” “Si, di nuovo in collegio dove strinsi una grandissima amicizia. Poco dopo ebbi anche l’occasione di incontrare per la prima volta il famoso barone: mia sorella Emilia in seguito mi disse che quel signore era mio padre. Sarebbe bastato un sorriso per mantenerne un ricordo. Non ci fu. E come da lui non ebbi mai niente, non ne ricordo la mancanza circondato come fui dall’affetto di mia madre Sara, di mia zia Tina e di mia sorella Emilia.”
“Ormai è quasi un giovanotto, no?” “Certamente; oltre a studiare in collegio gioco a calcio e imparo a suonare la grancassa presso la banda musicale con la quale s’andava ad allietare le varie sagre paesane. A luglio del 1947 sono ormai libero dagli impegni scolastici. Con un caro amico ci dedichiamo a epiche gite in bicicletta.” “Con quelle strade!” “Eh di certo non erano molto lisce: ma a noi non mancava l’iniziativa né la voglia di riparare qualche accidentale foratura o di rimetterci in sesto dopo una caduta.” “Gitarelle fuori porta?” “Beh, certamente la Liguria e il Principato di Monaco erano sicuramente fuori … città!”
“Non pensava a cercarsi un lavoro?” “Per trovare un lavoro appagante avrei dovuto però approfondire gli studi: alla fine del 1947 mi capita una grande opportunità. Partecipo al concorso per giovani diplomati industriali patrocinato dalla FIAT. Chi l’avesse superato sarebbe stato inserito in un percorso triennale ad alta specializzazione tecnica per poi vedersi dischiusa un’interessante prospettiva di carriera in Azienda. Supero tutte le prove e vengo ammesso al primo anno. C’era una disciplina terribile, ferrea. Ma io resisto e mi diplomo ed entro in fabbrica.” “Questo è stato l’inizio della sua carriera? Da operaio qualificato a Dirigente? Complimenti!” “Guardi che le cose non sono filate così lisce. Dopo quei tre anni durissimi, m’ammalo ai polmoni e ci sono voluti tre anni fra terapie, operazioni, antibiotici perché recuperassi la salute.” “Non aspettò di rientrare in Fiat?” “Mi convinco che aspettare la manna dal cielo non era il caso. Sicché vado a Londra dove non immaginerebbe mai di che cosa mi sia occupato all’inizio.” “Non saprei … Forse lavorava in un pub?” “Suonavo la grancassa con l’Esercito della Salvezza che al momento era senza un musicista proprio per quel ruolo.” “Beh questa proprio non me l’aspettavo.” “Poco dopo trovai un impiego tecnico. Successivamente una ditta di Saragozza m’offrì un lavoro, senza nemmeno conoscermi.” “O questa poi! Com’è stato possibile?” “Ebbi la fortuna di conoscere un architetto spagnolo del quale frequentavo la figlia, studentessa a Londra. Questo professionista mi prese a benvolere e s’adoperò per trovarmi un’occupazione.” “Sicché abbandonò Londra e si trasferì a Saragozza?” “Proprio così. Finché da Torino, nel 1958, mi chiamò la Fiat e la pressione della famiglia mi convinse ad accettarne l’offerta, anche se poi mi rammaricai della scelta fatta. Lo scontento non durò molto perché fui successivamente trasferito alla FIAT AVIO, importante trampolino di lancio per l’altra esperienza fondamentale della mia vita professionale e non solo.” “Che cosa intende?” “Alla fine degli anni ’50 entro in Aspera Frigo e comincio l’ascesa verso posti di sempre maggiore responsabilità. Qui incontro una collega, ben presto destinata a ben altro … ruolo. Infatti nel 1966 ci sposiamo” “Sarete andati in Sicilia per il viaggio di nozze, immagino.” “Sì. Sull’Etna abbandono moglie e comitiva e proseguo l’esplorazione da solo fin in cima al vulcano. Così facendo però perdo i contatti con tutti e mi trovo da solo a 3000 metri d’altitudine e per di più all’imbrunire. All’epoca non c’erano ancora i cellulari. Non avevo la minima idea di dove fosse ubicato il nostro rifugio sicché, senza porre troppo tempo in mezzo, decido di scendere a valle dove giunsi alle 5 del mattino. Alle 6,30 m’imbattei finalmente in un centro abitato. Le lascio immaginare le condizioni in cui ero: sporco e ormai scalzo. Mi rimetto in ordine in un bar e mi rifocillo e come Dio volle, grazie a un taxi, mi ricongiunsi con mia moglie, preoccupata certo ma sicura che ce l’avrei fatta.”
Il Signor Briuglio continua a raccontarmi la sua storia che comporta vent’anni di lavoro (e successo) in General Electric per poi a 50 anni avviare il grande passo dell’Azienda in proprio. Dopo quasi altri vent’anni, raggiunta l’età della pensione, sembra raccogliere le idee per fare un bilancio di tutte le sue esperienze.
“Non mi sono mai perso d’animo e ce l’ho fatta, eccome se ce l’ho fatta. Ho imparato “la forza della tenerezza”: la prima lezione appresa è stata “mai deludere il mio prossimo” (in altri termini: fai quello che devi e mettiti in quello che fai; un’altra lezione: “chi fa una bravata, ne paga le conseguenze” (cioè: quando t’assumi il potere di fare una cosa, te ne assumi anche la piena responsabilità); ancora: “è poco serio accettare senza ragione regalie di ogni tipo” (ovvero: il dono obbliga e condiziona per prima o poi importi di sdebitarti); ed infine: onestà, rispetto e tolleranza verso il prossimo.”
Adesso, ormai in pensione da 12 anni può guardarsi attorno per avere conferma che il suo presente non è affatto un dono: se l’è proprio costruito. Adesso noi che abbiamo per le mani “LA MIA FAMIGLIA” possiamo quasi sentirci di casa mentre leggiamo la sua chiusa straordinaria: “Questo modesto tracciato di vita vuole semplicemente soddisfare la curiosità di qualche nipotino e rispondere al desiderio di sapere chi erano i nonni ed i loro avi per confrontarsi con i tempi moderni.”
Da sempre realizziamo montascale per consentire libertà di movimento ai nostri clienti. Dall’ascolto dei loro racconti nasce il progetto Stannah Racconta, una raccolta di storie di uomini e donne straordinariamente ordinari.