C'è bisogno d'amore
Maria Di Francisca una donna, un’imprenditrice, una passione: occuparsi di assistenza domiciliare verso anziani e disabili
Così a fine 2013 comincio a dare corpo ad un’ipotesi: prendermi cura degli anziani è sempre stato una mia aspirazione, un desiderio. Ho scandagliato a fondo, in lungo e in largo internet. Ben presto mi sono imbattuta in ItaliAssistenza: mi sono pienamente riconosciuta nella sua missione: ‘migliorare la qualità della vita dei pazienti e delle loro famiglie’. La mia di famiglia non è che m’abbia incoraggiato un granché, anzi! Però, in qualche modo, mi sono stati d’aiuto lo stesso. Chi fa con te l’avvocato del diavolo ti stimola a guardarti intorno e a leggere lentamente ciò che ti circonda così da interpretare il contesto da un nuovo angolo visuale. Il pensiero laterale non sfiducia la razionalità verticale, bensì la integra e l’arricchisce con nuovi spunti invitandoti a mettere in discussione tue convinzioni e non rimanere vincolati alla prima ipotesi.”
“Tutto ciò premesso a gennaio 2014 apro a Langhirano mio primo ufficio. Langhirano, cittadina di forse diecimila abitanti, è una realtà molto piccola, direi anche molto chiusa; ero obiettivamente un’estranea ma avevo una gran voglia di diventare parte integrante di questa comunità, d’essere riconosciuta come una del luogo, come un’indigena.
Mi sono subito imbattuta in varie e molteplici difficoltà: non mi sono fatta mancare nulla! Volendo un po’ semplificare però posso dirti che ho affrontato due tipi di notevole difficoltà: da una parte il personale di cui hai bisogno e dall’altra le famiglie da servire. Andiamo in ordine: il personale. Chi lavora lo fa perché ha bisogno di ricevere una retribuzione, un compenso che lo ripaghi del proprio spendersi. Questo però è la punta dell’iceberg. Le persone in realtà quando lavorano danno il meglio di sé se s’appassionano ad un progetto, se lo sentono proprio, se si sentono importanti nell’impresa. Allora si mobilitano e ci danno dentro. Ed è allora che fanno la differenza. Ma perché questo accada ci vuole passione, impegno, dedizione da parte del datore di lavoro che col suo esempio dà la spinta, avvalora i sentimenti positivi, favorisce la creazione di un clima proficuo e favorevole. Le persone questo lo sentono e collaborano. Ovviamente non tutti siamo fatti allo stesso modo e soprattutto i tempi di ognuno di noi sono diversi. Insomma, se da una parte ci vuole tempo e pazienza dall’altra tanta bisogna favorire la creazione di fiducia verso di te che è poi alla base del coraggio per sostenere l’impegno. Con i clienti il momento economico che viviamo non è semplice. Molte famiglie attraversano momenti difficili: il lavoro per i giovani scarseggia, le aziende per ridurre i costi magari lasciano a casa i dipendenti. Insomma, da una parte c’è un gran bisogno d’assistenza agli anziani, dall’altra bisogna stare ben attenti alle spese. Ed è lì che gli operatori fanno la differenza. Bisogna imparare a far pensare i clienti in termine di valore e non di costo. Ti ricordi il detto: neanche il cane muove la coda gratis? E’ così: da una parte devi rendere ‘speciali’ le persone che lavorano con te, dall’altro devi far apprezzare al tuo cliente la ‘qualità speciale’ della tua offerta.”
“Dici: e come si fa? La ricetta è semplice: lavoro, lavoro e poi ancora lavoro. Ho lavorato tantissimo: d’altra parte io sono un mulo da lavoro. In questi quattro anni ho saputo sviluppare soprattutto una trama fitta, un tessuto di relazioni nel territorio grazie alla mia empatia. Ora ho un territorio importante da gestire: come ti ho detto curo i territori di Langhirano, Collecchio e Traversetolo. Tant’è vero che dopo quattro anni, per la prima volta mi sono concessa 3 giorni di vacanza. Ora però sono alle prese con un tema grande che m’affascina ma che anche un po’ mi sgomenta. Ci sono famiglie che per i loro disabili maschi vogliono esclusivamente un badante uomo. Respingono tutte le badanti femmine, non dico un po’ carine, ma semplicemente donne. Ma ben presto mi sono resa conto che in certe circostanze il badante uomo non è quello che serve davvero: ho talvolta l’impressione che per certe famiglie i loro figli disabili siano degli eterni bambini o magari angeli asessuati. I genitori amano così tanto i loro figli sfortunati che non riescono a comprendere l’esigenza di una tenerezza diversa da quella che una madre può dare. O meglio, magari anche lo capiscono ma in loro ha il sopravvento la parte giudicante. In quella posizione non riescono a rendersi conto che i loro figli hanno un profondo desiderio d’avere una relazione intima, affettiva.
La storia di Matteo, tetraplegico dalla nascita. E il naturale bisogno di affetto.
Proprio come un normodotato. Mio cliente è diventato recentemente Matteo, tetraplegico alla nascita che oggi ha 38 anni. Sua madre, una vera chioccia, energica donna di settanta anni, m’ha cercato perché aveva bisogno d’aiuto nell’assistenza a suo figlio. Nel tempo abbiamo cambiato tre o quattro badanti ma per Matteo la soluzione col badante uomo non mi sembrava quella giusta. Alla fine, propongo alla signora di cambiare agenzia (era una voluta provocazione). A questo punto la svolta: la madre finalmente accetta una donna come badante.”
“Un grande passo avanti? Di sicuro un enorme cambiamento. Ti parlo con tanta enfasi di Matteo perché l’ho come adottato proprio per quell’empatia che mi caratterizza. Mi muovo in un contesto delicato: siamo in provincia dove sedimentano tabù, dove certa gente pretende di credere e di sapere che cosa sia lecito proibire e che cosa permettere. Talvolta ho l’impressione che non abbiamo imparato la cultura dell’accettazione, dell’integrazione ma che si inclini ancora, per ignoranza, verso atteggiamenti repressivi. Il contatto corporeo, la fisicità sono bisogni, vorrei dire sono diritti. E per il disabile esprimere il proprio bisogno d’amore ha comportato soprattutto sofferenza, solitudine, emarginazione e ha sollevato in certuni, privi di cuore, addirittura disgusto. Abbiamo tutti un gran bisogno d’amore: noi che abbiamo il privilegio di definirci normodotati lo manifestiamo con gli abbracci, con i baci. Questi modi favoriscono la costruzione del legame senza il quale siamo persi, abbandonati, isolati, privi di una base sicura che ci aiuti a costruirci una sempre più salda identità e coscienza di noi. Poi c’è un aspetto fondamentale: Matteo, che oltretutto è laureato in psicologia, è un ragazzo romantico, non cerca una prostituta. Sogna una fidanzata, una ragazza da abbracciare, da tenere per mano, una compagna di vita.
Tu sai che quando poi si comincia a parlare di sesso, i luoghi comuni, le banalità e forse anche le cattiverie si sprecano. È veramente un grande lavoro d’educazione: occorre proprio sbloccare le coscienze, scardinare i pregiudizi, far avvicinare le persone con umiltà e senza arroganza a confrontarsi con le proprie pulsioni, legittime nei normodotati, sanzionate e screditate per i diversi. Hai presente i risolini di certuni quando si parla di sesso fra anziani?” “Perché sia possibile affrontare il tema dell’assistenza sessuale ai disabili occorre muoversi all’interno di un approccio globale: c’è un’attenta analisi del contesto del paziente e della sua famiglia, c’è il supporto dello psicologo e quando serve anche dei servizi sociali, insomma c’è un team che s’attiva e prende in carico quest’istanza. La preparazione non riguarda solo l’operatrice, riguarda anche il disabile protagonista dell’intervento che è consapevole dell’esperienza che s’appresta a vivere. Il 20 febbraio scorso ho organizzato una Conferenza a Sala Baganza”.
Il convegno a Sala Baganza su “Disabilità e sessualità: la prima assistente sessuale”
Con me c’era anche Matteo, testimone e protagonista della prima iniziativa concreta attuata in zona. Tengo a sottolineare il fatto che il Comune di Sala Baganza ha patrocinato il convegno “Disabilità e sessualità: la prima assistente sessuale”
“C’erano oltre 150 persone. Tieni conto che Sala Baganza è un paesone di cinquemila anime. Magari qualcuno sarà pure venuto perché il termine assistente sessuale ha una valenza un po’ pruriginosa.”
“L’idea di fondo dell’iniziativa è quella di consentire a chi soffre di gravi condizionamenti che riducono od impediscono la libertà di muoversi, di vivere la propria sessualità anziché reprimerla come è stato finora. Inoltre, sono stati posti con fermezza i limiti e le differenze fra ‘assistente sessuale’ e prostituta.”
“Ti chiedi ancora se c’è stato qualcuno che abbia continuato a pensare che ‘assistente sessuale’ sia un termine edulcorato per evitare quello più brutale di prostituta? La realtà è negli occhi di chi guarda. Chi vuol vedere la perversione, il vizio in questo approccio è molto probabile sia condizionato dal proprio pregiudizio. L’assistente sessuale non è una ‘sex worker’: negli incontri con le persone c’è sicuramente un contatto fisico che peraltro è fondamentale, ma non c’è proprio nulla di sessuale.”
Prendiamo la macchina e dopo poco suoniamo a casa di Matteo, una bella casa signorile, un villino ormai quasi a ridosso delle montagne dell’Appennino. Ci accoglie Pietro, l’educatore che segue da qualche mese Matteo. La madre, ex professoressa di Storia dell’arte in un liceo di Parma non c’è. Matteo è contento di vederci e ce lo dimostra con un caldo sorriso. Ha un bellissimo volto in cui spiccano gli occhi scuri e dai quali traspare la vivacità intellettuale e la voglia di vivere. Ora capisco perché Maria definisce ‘suo’ Matteo: lo guarda con gli occhi di una madre, lo coccola con la tenerezza di un’anima gentile, gli parla con la sicurezza d’esser capita per la profonda empatia che sa mostrare e l’ascolta con gli occhi, con le mani, con il sorriso.
Matteo si sforza di parlare, lo fa con evidente fatica ma con tanta passione. Ed io mi perdo nei suoi occhi tale è la sua forza d’attrazione. E m’immedesimo.
Adesso mi sento Matteo, guardato, incoraggiato da una donna. È la prima volta che mi capita: sento la leggera pressione delle sue dita sulle mie; il suo sguardo mi scuote.
Il suo sorriso mi accoglie, mi esprime senza parole la profonda accettazione della persona che sono, dei sentimenti che provo. La pena, la sofferenza, la tristezza che m’accompagna da quando sono nato sembra farsi più lieve, non sparisce; si aggiunge adesso, accanto all’amore della mamma, al garbo delle persone gentili che mi hanno negli anni accudito, l’apprendimento di un altro linguaggio, ineffabile, muto che però prorompe forte dentro di me. Vivo un’altra premura e mi abbandono a queste sensazioni. Mi sento avvolto in un abbraccio che non è fatto di gesti, di movenze gentili e basta ma è tutto costellato di rispetto e di cura dei miei bisogni che trascolorano in desideri. Il malessere che per tanto tempo m’ha consumato dentro svapora e mi pervade un calore, un languore, un ansito che mi commuove. Ho il permesso di esprimere ciò che prima ho sempre e solo pensato con vergogna e paura.
Maria s’è accorta della tempesta emotiva che attraverso e con gran garbo mi aiuta a riconnettermi con me stesso, permettendomi così d’accomiatarmi da Matteo con un senso di profonda riconoscenza per quanto m’ha permesso d’imparare.
Con Maria parlo dei sentimenti che noi, cosiddetti normodotati, abbiamo avvertito magari nell’adolescenza. Il gioco di sguardi, la ricerca del contatto: prendere una mano della ragazzina che sconvolgeva i nostri sogni, conquistarne la confidenza, arrivare ad abbracciarla e a darle un bacio profondo. Profondo e lungo quant’è un minuto con le labbra appoggiate a una guancia fresca che profuma d’innocenza.
“Vedi, i nostri pazienti hanno bisogno di ritrovare un tempo passato e non vissuto, trascorso e non assaporato, ormai alle spalle ma desolato, vuoto di ricordi e d’emozioni. Hanno bisogno di sentire le vibrazioni del cuore, d’imparare a sognare come sognano gli adolescenti. Non credi che ci sia bisogno d’amore?”
Da sempre realizziamo montascale per consentire libertà di movimento ai nostri clienti. Dall’ascolto dei loro racconti nasce il progetto Stannah Racconta, una raccolta di storie di uomini e donne straordinariamente ordinari.