Centenari d’Italia:
vi presentiamo Odo Buratti.
Verso l’infinito e oltre

Centenari d’Italia: vi presentiamo Odo Buratti. Verso l’infinito e oltre

Cari lettori di Stannahracconta, ho conosciuto non un semplice centenario, bensì un ultracentenario!

Si perché il Signor Buratti di anni ne ha cento e otto. “Li ha compiuti venerdì 22 febbraio di quest’anno” – mi dice orgoglioso ed intenerito insieme il Signor Giorgio, suo figlio. “Eccolo qua” – mi fa, presentandomi.

Gli prendo la mano ma non so se stringerla o accarezzarla. Asciutta, magra, piccola ma non esangue.

La trattengo un po’ perché mi sento tutto scombussolato: d’altra parte un’età così importante suscita un atteggiamento di venerazione, di un rispetto che va al di là del normale riguardo che abbiamo verso qualunque altra persona.

Vedo che mi osserva con i suoi occhi neri e calmi, vivi e attenti. Sento la sua presenza.

Sento anche l’affetto che lo circonda e che lo sostiene. Suo figlio Giorgio gli è sempre accanto.

STANNAHRACCONTA INCONTRA IL PIU’ LONGEVO UTILIZZATORE DI MONTASCALE DELLA STORIA DI STANNAH: ODO BURATTI, 108 ANNI

“Come si chiama?” chiedo al Signor Giorgio. “Odo” mi fa. “Odo?” chiedo sorpreso. “Odo? Sarà mica un’abbreviazione” fo fra me e me. Mi viene in mente Odoacre l’imperatore. Anche Odoardo, il Farnese. “Ecco” – mi dico “non solo ha la dignità di un nobile, ma si chiama per l’appunto proprio come un nobile!” “Eh sì” interviene il Signor Giorgio riportandomi sulla terra – “i nonni Paolo e Adelaide, i genitori di mio padre, pensi che hanno chiamato Perindo un altro loro figlio. Poi però, chi lo sa perché, hanno scelto nomi meno bizzarri e strambi, più tradizionali per gli altri figli. A questi infatti hanno imposto i nomi di Goffredo, Stella e Rosa”. Quindi la mia ipotesi di un accorciamento di nomi aulici e solenni lascia il posto a una predilezione verso nomi stravaganti, eccentrici ed estrosi. “Pieni di fantasia questi nonni” concludo fra me e me.

“Dunque” – ripiglia il Signor Giorgio – “mio padre nasce a Cesenatico il 22 febbraio 1911”. Ma non c’è niente da fare: sento il Signor Giorgio ma guardo il Signor Odo che mostra seguire benissimo la conversazione e vi partecipa con lo sguardo, con piccoli gesti delle sue mani diafane. Mentre i suoi genitori, me li figuro, festeggiavano la sua nascita, gli italiani erano alle prese con la celebrazione del primo cinquantennio del Regno. Non solo: quello stesso anno scoppia anche la guerra di Libia. Anche Nagib Mahfuz, di cui proprio in questi giorni sto leggendo “Il vicolo del mortaio” nasce nello stesso anno del Signor Odo. Mahfuz l’egiziano che sa raccontare in modo impareggiabile la vita quotidiana nei vicoli del Cairo mi fulmina con un suo aforisma: “Potete giudicare quanto è intelligente un uomo dalle sue risposte. Potete giudicare quanto è saggio dalle sue domande”. E’ proprio Mahfuz che vorrei avere accanto oggi per godere appieno di questa immensa ricchezza di vita e d’esperienza racchiusa in questo Grande Anziano. Per fortuna c’è il Signor Giorgio che con molto garbo mi conduce alla scoperta di suo padre.

ODO PARLA POCO, MA IL SUO SGUARDO È ATTENTO E VIGILE. A PRESTARGLI LE PAROLE è IL FIGLIO GIORGIO

“Sa quali scuole ha fatto mio padre? Ha cominciato il liceo classico ma si è poi diplomato alle magistrali. Subito dopo venne chiamato a fare il militare, partì per il CAR a Bologna dove stette trenta giorni nel Genio per poi essere mandato a Pesaro a frequentare la Scuola Allievi Ufficiali di artiglieria. Lì conobbe Maria, sua futura sposa e mia madre. Ma ormai siamo nel ’33: Hitler sale al potere in Germania e mio padre viene mandato in Abissinia, dove fra breve divamperà la guerra coloniale più grande della storia.

“D’altra parte, il regime voleva vendicare l’onta di Adua dove il 1° marzo del 1896 Menelik II inflisse all’Italia un’amara disfatta: qui morirono più soldati che in tutte le precedenti guerre del Risorgimento messe insieme. Nel 1925 un patto italo-britannico (che nelle intenzioni doveva rimanere segreto) riconosceva all’Italia la legittimità dell’interesse nella regione eritrea. Alta squillò poi la retorica fascista che, in occasione del “decennale della rivoluzione”, inneggiando al “mito del Duce” e all’idea della “Nuova Italia”, esplicitava che “l’Italia mussoliniana ha ritrovato in Africa le vie maestre del suo divenire”.

Così partì nel 1932 il Ministro delle Colonie De Bono per preparare uno studio per la campagna militare contro l’Etiopia. Fra mille incertezze e altrettante polemiche interne si arrivò nel 1934 a decidere un considerevole aumento delle forze militari da impiegare (il triplo di quelle previste inizialmente) e soprattutto ad agire con molta prudenza per sbaragliare le forze etiopiche da basi fortemente munite. Nell’autunno del 1935 si avviarono le operazioni: guerra massiccia con l’obiettivo di una conquista totale, mentre la propaganda solleticava l’ingordigia delle masse.

DAL LICEO CLASSICO ALLA GUERRA DI ABISSINIA. È L’EPOCA DEI GRANDI DITTATORI

“Ma le cose non si misero affatto bene: se fino alla fine del 1940 l’Italia poteva minacciare gli inglesi addirittura in Kenya, l’anno successivo le sorti s’invertirono e l’Africa Orientale Italiana cadde interamente nelle mani degli inglesi. Il Duca Amedeo d’Aosta, il Duca di ferro, viceré d’Etiopia, è ricordato come l’eroe dell’Amba Alagi, dove si asserragliò dal 17 aprile al 17 maggio 1941 con poco più di settemila uomini. Gli italiani furono sopraffatti dagli inglesi, non solo quasi sei volte superiori in numero di soldati ma anche assai meglio riforniti di mezzi e munizioni e cibo, mentre i nostri pativano la fame, il freddo ed avevano scarsissime munizioni.  A questo proposito mio padre mi raccontò un fatto: i soldati italiani avevano radunato un po’ di munizioni quando un aereo inglese centrò con una bomba la catasta. Anche mio padre fu investito dal calore terribile dello scoppio senza per fortuna riportare danni più gravi. Comunque, quando la resa fu inevitabile, i militari di Sua Maestà Britannica, non solo in omaggio del Duca Amedeo appartenente alla migliore nobiltà europea, ma anche in segno di ammirazione per la fermezza mostrata dalle truppe italiane, resero gli onori delle armi ai superstiti, facendo conservare agli ufficiali la pistola  d’ordinanza.

“Mio padre” – mi racconta suo figlio Giorgio– “parlava spesso della grande umanità di questo duca e della sua assai scarsa formalità. Per esempio, quando i suoi soldati lo salutavano ossequiandolo con il titolo “Altezza”, lui davvero altissimo era solito rispondere: “uno e novantotto”. Imprigionato dagli inglesi il duca fu internato in un campo di concentramento in Kenya dove si ammalò e dopo neanche un anno morì per malaria e tubercolosi. Nel frattempo Odo fu imbarcato su una nave e trasferito come prigioniero di guerra a Yol, nell’Himchal Pradesh, uno stato dell’India settentrionale, fra il Kashmir, il Tibet ed il Punjab, sull’Himalaya occidentale. In sanscrito Himchal significa Terra di Neve. Gli inglesi avevano sparsi per il mondo campi di prigionia lontanissimi dai teatri operativi per azzerare velleità di fuga dei prigionieri. In India li facevano affluire attraverso il Mar Rosso, in sosta ad Aden nello Yemen e poi a Bombay. Lì dividevano i sottufficiali e i soldati dagli ufficiali (Yol sta per Young Officers Line) che concentravano nel nord, appunto ai piedi delle montagne più alte del mondo.

“Ci fu un prigioniero – Saltamartini – che riuscì a raccontare la vita del campo con un eccezionale reportage fotografico, realizzato con una minuscola macchinetta costruita da lui stesso con materiale di recupero: una scatola metallica per custodire sigarette, dello stagno ricavato da un tubetto di dentifricio e una candela avuta in prestito dal Cappellano militare con promessa solenne di restituzione immediata al rientro in Italia.

Tornato a casa ho cercato ulteriori informazioni su questo incredibile episodio a cavallo fra l’artigianato e la magia dell’arte. Ho scoperto così che il Saltamartini ricavò il cannello metallico per le saldature da una scatola di salsicce di soia e riuscì a dotare la piccola macchina fotografica di una piccola lente da 4 millimetri, di un elastico per lo scatto e di un frammento di celluloide trasparente rossa. Con questo apparecchietto scattò ben duemila fotografie che venivano nascoste all’interno di sigarette svuotate dal tabacco e nei tubetti di dentifricio; di queste, cinquecento andarono perse mentre le altre, conservate con cura per cinquant’anni, sono state raccolte in un libro: “10.000 prigionieri in Himalaya – tesori, orsi, idee, fughe” pubblicato da Humana editore di Ancona.

PRIGIONIERO DI GUERRA IN INDIA: “MANGIAVAMO DI TUTTO, ANCHE BRODAGLIA ZEPPA DI MOSCHE”. COME HAI FATTO PAPA’ A RESISTERE? “ERAVAMO GIOVANI, E NON AVEVAMO NESSUNA VOGLIA DI MORIRE”

“In quel campo di concentramento c’era anche Nino Nutrizio, il giornalista che poi diresse per quasi trent’anni La Notte. Nutrizio era corrispondente di guerra imbarcato su un incrociatore che fu affondato nella battaglia di Capo Matapan. Mentre tutti i marinai a bordo annegarono, Nutrizio nuotò per ore finché non fu recuperato dagli inglesi e poi internato ad Yol. Una volta lì si dette un gran daffare nell’organizzare attività sportive e ricreative. Poi venne l’8 settembre del 1943 e, pur rimanendo prigionieri di guerra, i militari imprigionati ebbero un certo miglioramento nelle loro condizioni di vita. Addirittura qualcuno amante delle montagne ottenne brevi permessi per scalare le vette lì intorno. Di certo non capitarono più situazioni terribili ed umilianti: mio padre mi raccontò che un giorno, mandato a prendere il rancio in cucina, trovò un pentolone in terra con dentro della brodaglia. Sopra però c’era un vero e proprio letto di mosche. Odo tolse il grosso di quello schifo con una schiumarola, ma come può ben immaginare, nel piatto di ognuno ne rimase un considerevole quantitativo. Mio padre per esempio solo nella sua gamella ne contò trenta! D’altra parte non era raro che per campare molti prigionieri s’azzardassero a mangiare letteralmente di tutto, anche roba che faceva poi stare malissimo.”

“Per fortuna tutto finisce. Così anche la prigionia di tutta quella gente terminò e mio padre l’8 dicembre 1946 rientrò a Pesaro, ancora in divisa: era stato sbarcato a Napoli e poi condotto a Roma dove gli avevano dato una licenza di convalescenza di due mesi. Tante volte gli ho chiesto come aveva fatto a sopravvivere in quelle condizioni: “Eh caro mio, eravamo giovani e non avevamo nessuna intenzione di morire” ricordo mi rispose.

FINISCE LA GUERRA, ODO RIENTRA A RAVENNA. NASCONO PAOLA E GIORGIO. “MIO PADRE È UN UOMO BUONO,

“Tornato alla vita civile s’impiegò al Tesoro a Ravenna trasferendovi la famiglia da Pesaro. Dal Tesoro andò poi alla Giustizia svolgendo il ruolo di cancelliere prima al Tribunale di Faenza e poi a quello di Ravenna dove andò in pensione nel 1973 (a 62 anni). Mio padre ha avuto due figli. Paola nel 49 e me nel 1952. È sempre stato un uomo buono: m’ha messo le mani addosso soltanto una volta che avevo gravemente mancato di rispetto a mia madre. Ma per il resto, non m’ha mai sfiorato neanche con un dito. Le dirò di più: ha manifestato sempre anche una grandissima apertura mentale verso le mie scelte. Vede, ad un certo punto pensavo di seguire le sue orme, di fare l’ufficiale. Così volli andare all’Accademia Militare di Modena. Ben presto però mi resi conto che quella vita non era adatta a me; sicché rinunciai e per quanto mio padre un po’ ne fosse dispiaciuto, m’è stato accanto, pieno di comprensione e d’amore. Ho comunque seguito lo stesso le sue orme, anch’io infatti sono stato cancelliere per 26 anni.

“Che cosa altro posso dirle? Fino a 99 anni ha guidato la macchina, poi, per prudenza ha smesso. Non per problemi di vista, sa? Ci vedeva allora e ancora oggi ci vede benissimo senza occhiali. Ecco, magari non ci sente proprio bene. Un altro grande dolore che ha avuto è stata la morte della moglie amatissima: la perde quando ha 73 anni. È così affranto che noi figli ci preoccupammo moltissimo. Solo per amor nostro decise di non lasciarsi morire. Ed ora lo vede? eccolo lì: mangia come un passerotto, una minestrina gli basta”.

stannah

Da sempre realizziamo montascale per consentire libertà di movimento ai nostri clienti. Dall’ascolto dei loro racconti nasce il progetto Stannah Racconta, una raccolta di storie di uomini e donne straordinariamente ordinari.

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