Francesca Tassinari, l’eleganza in volo sulle sponde dell’Arno
Guido Piovene, nel suo Viaggio in Italia, di Firenze ebbe a dire: “Tutta la Toscana, e Firenze in maniera speciale, è la parte dell’Italia dove la pietra ha più valore. Firenze è una città di pietra. L’architettura ha la magia di uno strumento ottico di precisione”.
Tutta questa bellezza colpì Stendhal che espresse così il suo turbamento (che oggi ha dato il nome proprio alla sua “sindrome”): “Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere.”
Ora, a dirla tutta, noi che s’era giovani negli anni sessanta (dell’altro secolo) a Firenze, anche se ci si aggirava in quel museo a cielo aperto, non eravamo proprio travolti da tutta quella magnificenza. O perlomeno non sempre. Capitava che passeggiando dentro alla “cerchia antica” di dantesca memoria, si venisse colti da suggestioni forse più prosaiche: un panino tartufato da Procacci, un caffè da Doney, un gelato da Vivoli, mentre si faceva lo struscio davanti alle vetrine di Gucci, di Buccellati, di Ferragamo. Se Piovene ci rammenta che “la storia fiorentina è la storia tipica di una città nella quale l’intelligenza predomina” noi ecco, forse, costituivamo l’eccezione.
La ditta di famiglia Neuber Tassinari: uno dei cuori dell’eleganza fiorentina
D’altra parte, noi “farfalloni amorosi” s’era capaci di struggersi davanti alle vetrine di Neuber Tassinari: e v’assicuro che ce n’era ben donde; magari James Dean o Marlon Brando evocavano l’esemplare maschile di riferimento dell’epoca, un po’ sdrucito e malmostoso, ma i tessuti inglesi, raffinati ed eleganti, erano più che stupendi e ci piacevano, eccome se ci piacevano. Il negozio Neuber Tassinari era irresistibile. “La nostra storia – mi racconta Francesca – l’ultima di questa stirpe di nobili commercianti fiorentini, nobili per cultura, immaginazione, forza d’animo, mica per blasone, sia chiaro! – comincia col nonno che commerciava in abbigliamento maschile, elegante e raffinato, di alta qualità italiana”. “Che capi vendeva?” “Cose classiche italiane. Sai, all’epoca, intendo alla fine della guerra, il mondo era semplice: si divideva in due grandi classi, gli abbienti e i poveri. Gli abbienti andavano dal sarto, perfino le camicie si facevano fare. Alla fine degli anni quaranta, primi anni cinquanta, cominciarono a diffondersi quegli abiti non più realizzati su misura ma venduti finiti in taglie standard, pronti per essere indossati. Il famoso pret a porter nasce nel 1948 negli USA. C’è l’esigenza di fornire abiti dai costi accessibili ma anche un pò innovativi” “Un qualcosa di mezzo fra gli abiti rigorosamente su misura d’alta moda e gli abiti di serie, fatti praticamente dalle macchine”. “Le confezioni industriali, appunto. Sì, il pret a porter è una formula intermedia fra questi due grandi ‘mondi’ chiamiamoli così”.
Il mondo degli anni 50 era diviso in due: i ricchi (che andavano dal sarto) e i poveri
“Ma dal sarto negli anni cinquanta e sessanta c’era l’abitudine di andare anche se non si era ricchi”. “Si, a farsi rivoltare il cappotto o a disfare il vestito del matrimonio del padre per adattarlo al figlio che diventava grande”. “Hai ragione. Nel mio condominio abitava un sarto, Donnamaria si chiamava, veniva da Avellino. Fu proprio lui ad adattarmi un abito del babbo, un doppio petto blu “occhio di pernice”, per farmi il ‘vestito della festa’, monopetto, senza spacchi e coi pantaloni col risvolto. Ma dimmi, chi furono in Europa i protagonisti del pret a porter?”. “Non te lo immagini? Non è difficile” “Vuoi dire i francesi?” “Per forza. E chi sennò? Il primo salone del pronto da indossare si tiene a Parigi nel 1957. Pierre Cardin espose le sue creazioni ai Grandi magazzini Printemps di Parigi. Poi Yves Saint Laurent, allievo di Dior, nel 1966 inaugurò Rive gauche, la prima boutique pret a porter femminile”. “Eppure Firenze non è stata anch’essa una capitale della moda?”. “Come no! Già nel 1952 a Palazzo Pitti si tenne la prima di una lunga serie di sfilate e di manifestazioni, in auge ancora oggi peraltro”.
A Parigi nasce il pret a porter: Dior, Cardin e Saint Laurent
“E quindi se Parigi imperversava con Dior, Cardin e Saint Laurent noi italiani con chi si rispondeva?” “Biki, le sorelle Fontana, Schubert, Emilio Pucci, Jole Veneziani ma anche Krizia e Ottavio Missoni, tanto per fare qualche nome”. “Ma gli inglesi in tutto questo?”. “Gli inglesi erano produttori di stoffe, di tessuti in tweed, ma soprattutto proponevano l’impareggiabile ‘gentleman style’ quel modo formale ma non imbalsamato, con colori vintage, un po’ retrò ma intramontabili, che ben si sposavano con tessuti consistenti, solidi, fatti per durare. E poi c’erano i dandy, col Principe di Galles in testa, capace di dettare un preciso canone d’eleganza raffinata ed esclusiva”
“E tuo padre quando subentrò al suo, che fece?” “Mio padre, cresciuto nel negozio di Via Calimala, la via del tessuto fin dall’antichità, comprò dalla signora Hellen Neuber un grande e bellissimo negozio con quattro luci su via Strozzi e due su via Vecchietti”. “Me le ricordo: che vetrine spettacolari, davvero meravigliose”. “Pensa, non avevamo nemmeno il vetrinista”. “In questo nuovo negozio mio padre si dedicò alla vendita di abbigliamento rigorosamente britannico come Aquascutum, Burberry ma con un’offerta allargata anche alle cravatte di Hermes. Chi veniva a fare acquisti in centro, nel salotto buono, cercava eleganza senza sfarzo, bellezza raffinata fatta di cashmere impalpabili, di lane pregiate dai colori morbidi. Alla morte di mio padre, mia madre prende lo scettro del comando. Donna energica e volitiva aveva assunto il motto di un grande maestro di moda dei primi del Novecento, Paul Poiret”. “Ah si? E che diceva questo maestro?”. “Voglio essere ubbidito anche quando ho torto”. “Urca” “E’ così. Mia madre acquistò altri due negozi, uno in Via Calzaioli destinato a cravatte, camicie ed altri accessori maschili, mentre nell’altro, sito in Via Tornabuoni, anche questo solo femminile, proponeva Mila Schoen, i foulard di Hermes e di Yves Saint Laurent”.
La gioventù di Francesca: tra il convitto in Svizzera per imparare il francese e il college in Inghilterra
“A questo punto ‘scendi in campo’ anche tu?” “Sì, io e mia sorella, più grande di quattro anni, venimmo coinvolte come impiegate nei negozi. A me spettò, appena terminate le scuole medie, occuparmi della parte amministrativa, mentre a mia sorella fu riservato l’ambito degli ordini di una clientela selezionata”. “Scusa ma non andavate a scuola?” “E come no? Io andavo dalle suore, un convitto così severo e con regole così restrittive che quando facevamo il bagno, lo dovevamo fare indossando la camicia da notte, lunga s’intende”. “Uhm, all’insegna della più grande pudicizia”. “Beh, la mia generazione, che poi è anche la tua, era educata nel rispetto del pudore e alla conservazione del mito della castità come uno stile di vita”. “E’ sì. Non è un caso che poi divampi la rivoluzione sessuale da lì a pochi anni”. “Quando tutto è troppo compresso poi, per forza, il tappo salta. Comunque io e mia sorella non bazzicavamo solo le suore; avevamo d’intorno anche tutto uno stuolo di tate straniere che si prendevano cura di noi, visto che nostra madre era costantemente impegnata nella conduzione dell’impresa”. “Ecco anche da dove viene la tua passione per le lingue straniere”. “Davvero. Nella vacanze estive, quelle belle lunghe e in quelle più corte d’inverno, venivamo mandate entrambe in Svizzera ad imparare bene il francese” “Quindi a quell’epoca avevi già bell’e deciso già che cosa avresti voluto fare da grande?” “Certamente. L’interprete simultanea. Per questo vado ad Ascot per perfezionare l’inglese: tre anni in un college che al sabato e alla domenica si svuotava lasciando me ed altre cinque ragazze straniere sole e confinate in questi posti rarefatti”.”Non propriamente ‘tutta vita and rock & roll’”. “Ma te lo immagini. Però facevamo tanto sport. Proprio durante un allenamento mi spacco il naso”. “Mio Dio. Ma che sport facevi? Pugilato?”. “Non dire scemenze. Tuffi. Oltre la piscina , gli atleti devono prendere tanta dimestichezza con i salti e lo fanno sui tappeti elastici. Ebbene, una volta sono atterrata male e nel rimbalzo sono finita con la faccia contro le sbarre di ferro che tenevano la struttura in tensione”
Il lavoro in negozio e infine l’alluvione del 1966 che ha distrutto tutto
“Quando finalmente torni a Firenze, che fai?”. “Mia madre mi rimise immediatamente in negozio”. “Quindi potevi sfoggiare la tua padronanza delle lingue con i turisti stranieri?”. “Poteva capitare, soprattutto sotto le festività. Il mio compito precipuo restava l’ambito amministrativo”. “E ti piaceva?”. “Di certo di più che stare a compiacere le signore che si rimiravano per ore negli specchi per vedere se la gonna o il cappotto cadevano bene”. “D’altra parte , diceva Thompson, a Parigi impari l’arguzia, a Londra impari ad eliminare i tuoi avversari sociali, a Firenze impari il portamento”. “Visto che sei in vena di citazioni, ti recito Dino Campana: “Entro dei ponti tuoi multicolori/l’Arno presago quietamente arena/ e in riflessi tranquilli frange appena/ Archi severi tra sfiorir di fiori”.”Bella. Ma tanto quieto l’Arno non fu il 4 novembre 1966”. “Eh già. Pensa che con gli amici ero andata a ballare in un locale che c’era dalle parti del Ponte Vecchio. Eravamo un po’ su di giri, non alticci, allegrotti diciamo. Per smaltire un po’ di pesantezza di testa andammo sul Lungarno Corsini e ci mettemmo a sedere sulla spalletta coi piedi verso il fiume. Ma lo sai che quasi riuscivamo a sfiorare l’acqua?”. “Mamma mia. Ma quanto era già alta! Che pericolo avete corso!”. “Comunque non ci successe nulla. Io abitavo verso il Piazzale Michelangelo, in alto quindi, dove l’Arno non arrivò”. “Chissà che disastro nei vostri negozi”. “Io alle due di notte provai a svegliare mia madre per avvertirla che ci sarebbe stata un’alluvione pazzesca, ma chi avrebbe mai potuto credere a un fatto così incredibile. In fondo ce n’era stata una nel Trecento, altre due nel Cinquecento e un’altra nell’Ottocento. Ma come quella di giovedì 3 e venerdì 4 novembre 1966, mai nessuna. Alla mattina ci affacciammo dalla balaustra del Piazzale Michelangelo e la città era sommersa, completamente. Sembrava un lago”. “Fu la rovina per molti imprenditori fiorentini”. “Per la Ditta Neuber Tassinari fu una vera e propria tragedia. Mia madre, c’era in quei giorni la settimana inglese, aveva per l’occasione, proprio nei giorni precedenti, riempito fino all’inverosimile i magazzini, ovviamente sotterranei, di pregiatissima merce, stoffe e tessuti di qualità impareggiabile. Nulla si salvò. Nessuna assicurazione coprì i danni. Per quattro anni mia madre resistette eroicamente, finché non s’arrese ed ammainò la bandiera”.
La fuga da Firenze (e dalla madre): Francesca si candida come hostess in Alitalia
“E’ triste dirlo e lo dico con umiltà: però deve essere stata per te una spinta ad uscire da sotto un manto costrittivo piuttosto stretto” “Ti basti sapere che sulle colonne della Nazione, una volta il lavoro si cercava sulle inserzioni che le ditte mettevano sui giornali, lessi che la nostra Compagnia aeronautica di bandiera, l’Alitalia, cercava hostess. In un battibaleno ho preso letteralmente il volo. Andai a Roma, feci il colloquio e nemmeno tornai a casa”.”Vista e presa!” “Bah. Ora, mica per vantarmi, ma con l’inglese e il francese in punta di labbra, una personalità abituata a confrontarsi in contesti abbastanza competitivi, pensa solo al collegio ma anche la vita in casa…” ; …e, scusa se m’intrometto, non ultima una certa, come dire avvenenza …” “Sia come sia, come hai detto te, vista e presa, subito arruolata. Mia madre ci rimase di sale quando le telefonai; provò infatti a dirmi ‘Dove credi d’andare, senza di me?’ le mille cartoline che le ho spedito da allora, le hanno risposto, penso”. “Che rotte facevi?” “Tutte le rotte intercontinentali all’epoca servite da Alitalia” “Un bel Roma – Catania, mai? “Ma stai scherzando? Via, via, le Americhe, l’Africa, per non parlare dell’Europa che era diventata per me il giardino di casa”. “La professione della hostess è ancora molto attraente: m’immagino quanto lo sia stata qualche anno fa”. “Per me, che amo tantissimo viaggiare, è stato il mestiere più bello del mondo. Pensa: voli a Rio de Janeiro, sbarchi e cominci una vacanza, piccina, cortissima ma intanto stai sparapanzata a Capocabana mentre le tue conoscenze, dedite a lavori più tradizionali, si devono accontentare della metro, del tram o, nei casi più eccitanti, del treno viaggiando magari da Arconate o da Lacchiarella o da Robecchetto verso Milano in ore antelucane per poi farvi ritorno a giorno quasi finito”. “Penso anche che lo stipendio possa essere stato un altro aspetto interessante della professione” “Si, si. Eravamo ben pagate. Ma ti garantisco che quei soldi, eran tanti, sì, ma ci costavano tantissimo. Era proprio un guadagno strameritato. L’hostess per definizione deve essere sempre splendida, ben truccata, fresca di parrucchiere, elegante e profumata ma il cliente, lo sai bene, è sempre molto esigente e non sempre si comporta come un bijoux. E bisogna sempre avere la capacità di fare buon viso a cattivo gioco” “Mi fai venire in mente come veniva inculcata nel personale di ricevimento e di servizio ai piani, l’attenzione all’accoglienza negli alberghi di lusso. Quand’ero molto giovane ho lavorato in Ciga Hotels e lì ricevere quei clienti che potevano permettersi di pagare il soggiorno in quegli alberghi esclusivi, comportava sfoggiare comportamenti inappuntabili quasi …” “ s’, lo so cosa vuoi dire, quasi da maggiordomo inglese. Quindi, sono d’accordo, tutta la cultura Neuber Tassinari, impregnata di quella compostezza un po’ snob anglosassone, è vero, mi ha fatto parecchio comodo in quei frangenti” .
Il lavoro in prima classe sulla compagnia di bandiera, e i viaggi intorno al mondo
“Chissà quanti aneddoti ti verranno in mente”. “Guarda, ti deludo subito perché quando sei davvero impegnato in un lavoro come quello della hostess, il cliente lo vedi, certo, ci mancherebbe, ma non lo distingui” “Che intendi dire?” “Che non fai una riverenza più profonda a quella persona solo perché t’hanno detto che è sua altezza reale; per tutti tu hai l’attenzione esclusiva che un cliente che viaggia in prima classe, si aspetta di ricevere” “Vuoi dirmi che se sul tuo aereo fosse salito, che ne so, Marlon Brando, non ti sarebbe palpitato un po’ il cuore?” “Sì, può darsi. Anche se ti devo dire che erano le belle signore eleganti che mi colpivano di più. Tante volte mi son trovata a studiarne le pose, il trucco, la pettinatura: era una specie d’Accademia di Belle Maniere”. “E poi tu avrai avuto la coda di spasimanti”. “Sai come si dice a Firenze, no? Se tu fossi alto quanto tu sei grullo, potresti bere dalle grondaie. Comunque sappi che di persone celebri ne ho incontrate così tante che potrei riempire una guida telefonica. Quello che voglio dirti è che la compostezza, la cura, la dedizione e l’empatia sono indispensabili per svolgere il ruolo della hostess e tanto più lo sono stati quando viaggiare in aereo e per di più, in prima classe, era una opportunità riservata a facoltosi uomini d’affari o a personaggi dello spettacolo o della cultura in genere.” “Ho capito. Un’altra qualità che fai emergere è la riservatezza ed il rispetto della privacy. Ma neanche un piccolo, innocuo, insignificante pettegolezzo?” “Grazie, preferirei di no”.
Finita un’epoca, ne comincia un’altra: ufficio stampa in Shell e in IBM
“Quando hai smesso di volare?” “Mi interessavano nuove esperienze. Ho dismesso l’elegante tailleur disegnato da Mila Schoen, ho finito di soggiornare in alberghi lussuosi nelle località più esclusive, ed ho intrapreso un’attività negli uffici stampa prima della Shell e poi dell’IBM”. ”Insomma, sei stata al centro di mondi che si stavano trasformando in profondità”. “Che vuoi dire? ” ”Per esempio, guarda il mondo della moda: Neuber Tassinari è stato spazzato via dall’alluvione come tante altre imprese in quell’anno terribile ma non dimentichiamo che è stato di sicuro un riferimento per tutti i signori abbienti e per tutti coloro i quali ci tenevano a dimostrare buon gusto e classe nell’abbigliarsi”. “Sì, è vero. La competizione stava cominciando a identificare i fornitori, connotandone bene i caratteri: c’erano coloro che facevano l’occhiolino ai “contestatori eleganti” proponendo loro soluzioni d’abbigliamento “finto trascurate” con i montgomery, le giacche destrutturate in vago stile militare, scarpe massicce e robuste. Questa categoria di persone assomigliava, alla lontana, ai contestatori che portavano i capelli lunghi, la barba e si vestivano in modo più aggressivo: eskimo, jeans e scarpe da tennis. E poi c’erano le proposte come la nostra: dedicata a professionisti capaci d’apprezzare un bel tessuto, ben tagliato, certamente elegante ma non appariscente”. ”Appunto. Mantenere uno ‘stile temperato’ senza gli eccessi del dandysmo e dell’ostentazione, ma anche senza rinunciare ad una certa cura nel presentarsi in pubblico era qualcosa che andava contro corrente, contro la maggioranza O sdrucitissimi o infiocchettati. Neuber Tassinari era stato capace di sparigliare il gioco”.
Tante soddisfazioni, ma oggi tutto trascolora davanti alle nipotine
“Uhm, e sia. E il mio secondo momento rivoluzionario, quale sarebbe stato?” “Quando hai cominciato ad interpretare il ruolo della hostess in Alitalia. Forse oggi il fascino di quella professione s’è un po’ appassito, ma negli anni sessanta, difficile pensare, per una bella ragazza, un palcoscenico più gratificante. E’ vero, stava finendo il boom. Ma c’era ancora l’eco delle Olimpiadi a Roma; in quello stesso periodo fu inaugurato l’aeroporto Leonardo da Vinci a Fiumicino; Alitalia inserisce nella flotta i suoi primi jet; ed infine da lì a poco arriveranno i Jumbo. Da quel momento in poi volare entra nel costume abituale di molti più utenti di prima. Ma fino ad allora, l’hai detto tu, pochi privilegiati usufruivano di questa opportunità” Quello che so è che me ne sono andata prima dell’introduzione del Jumbo nella flotta. Di sicuro rivoluzionario fu l’introduzione del dress code di Mila Schon che sostituì Tita Rossi nell’abbigliare il personale di volo. Adesso indossavamo una gonna un po’ più corta, ben sopra il ginocchio” “Seppur per poco tempo rispetto alle precedenti esperienze che mi hai raccontato, sei entrata in contatto con un altro mondo in trasformazione radicale: quello della tecnologia dei computer. Fu proprio l’IBM in quegli anni a presentare i primi personal computer. Oggi se guardiamo le fotografie di quegli scatolotti, probabilmente sorrideremmo. All’epoca però fu una rivoluzione enorme passare dai processori e dagli elaboratori che avevano bisogno di stanze interamente a loro dedicate, ad oggetti di design che potevano stare comodamente su una scrivania”.
“Codeste rivoluzioni che citi, che le abbia sfiorate appena o che le abbia vissute appieno, sono state momenti importanti, per la mia vita. Una cosa che posso dire di me è che non mi riconosco di certo in quel detto fiorentino ‘Guelfo non son, né Ghibellin m’appello; chi mi dà da mangiar, tengo per quello’, perché ho fatto delle scelte importanti, significative e non certo di maggior comodità” “Qual è allora in conclusione la tua esperienza di vita che t’è piaciuta di più?” “Tutte, ma oggi, di fronte al musino delle mie nipotine, tutte trascolorano”