Germano Pacelli, il passato non si può e non si deve cancellare

Una sera quasi al crepuscolo Giacomo, sorseggiando un’Ichnusa mi fa: “Vuoi conoscere una persona eccezionale?” “Da’ retta, ti conosco di già da un sacco” “Ma no, sto parlando di Germano Pacelli” “Chi? Un parente di Pio XII?” “Macché grullo, Germano è un ex partigiano” “Delle tue parti?” “Sì, è proprio di Maresca” “Per Bacco! Proprio a ridosso della Linea Gustav” “Ma no! Che dici? La Linea Gustav andava dal Gargliano a Pescara.” “Hai ragione: volevo dire la Linea Gotica” “Ecco: proprio quella” “Se non sbaglio andava giù per su da Massa Carrara a Pesaro” “Eh sì. Trecento chilometri di fortificazioni dove Kesserling operava la sua ritirata combattuta, macchiandosi dei peggiori crimini” “Eh come si può a dimenticare l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema?” “Un crimine efferato. Non certo l’unico. Nell’estate del ’44 i nazisti massacrarono migliaia di persone: nell’aretino a Civitella in Val di Chiana, nel pisano a Guardistallo, nel pistoiese a Padule di Fucecchio, nel massese a San Terenzo Monti, a Fivizzano, a Bardine e a Vinca” “Ma a Sant’Anna fu un atto assolutamente gratuito: non c’erano stati attacchi partigiani da vendicare. Non solo, gli stessi tedeschi avevano identificato la cittadina come “zona bianca”, adatta cioè ad accogliere sfollati” “Fu un vero e proprio atto terroristico seguito poi dalle stragi di Pioppeti, del fiume Frigido, di Bergiola ed infine nell’autunno a Marzabotto raggiunsero l’apice dell’efferatezza. Senti, se mi vieni a trovare a Maresca ti faccio incontrare Germano che li ha combattuti i tedeschi e che non vuole assolutamente che la gente dimentichi. Lui mi dice sempre” Chi dimentica il passato, come fa a immaginare il futuro?”

Germano Pacelli

Germano Pacelli

Germano Pacelli

Pittore, scultore e partigiano

Sabato scorso Giacomo m’invita a Maresca a pranzo a casa sua “Così poi ti porto da Germano che espone i suoi quadri in una galleria di Campo Tizzoro” “Ah, Germano è un pittore?” “Un pittore e uno scultore. Vieni dai che te lo fo conoscere!”

Dietro una scrivania, in una grande sala affollata dei suoi quadri, siede un signore anziano ma per nulla vecchio. “Piacere, Germano” e senza por tempo in mezzo comincia a ricordare: “Lei deve sapere che nei primi anni Trenta ero un Balilla. Sono nato nel novembre del 1924” “Come mio padre. Anche lui oggi avrebbe 95 anni” “Noi Balilla a Maresca ci fecero tutti Moschettieri. A ciascuno fu dato un piccolo moschetto. Ma a me no” “Perché?” “Perché mio padre non prese mai la tessera del fascio. E io da ragazzo sentivo forte certe differenze e non capivo perché, ma mi sentivo umiliato” “Andava a scuola immagino” “Certo. E di buona lena. Non abbiamo mai perso un giorno di scuola, neanche d’inverno, e la neve a quell’epoca veniva giù davvero, ci si affondava fino alle cosce, con i pantaloncini corti come usava a quei tempi per i ragazzi” “Mamma che freddo” “Se lo immagina? Pensi che da mezzogiorno alle due c’era la pausa pranzo, che poi per noi ragazzi di qui il pranzo consisteva in pane e marmellata portato da casa. Il peggio era che non ci lasciavano stare dentro la scuola; anche d’inverno dovevamo restare fuori dall’edificio, a volte con quindici gradi sottozero e la tramontana che tirava. Una volta mi ricordo andammo a trovare l’insegnante di matematica che, sorpresa ma contenta della visita ci fece entrare in casa sua.  La ringraziammo e alla sua domanda di che cosa avessimo bisogno le rispondemmo la verità: là fuori fa un freddo cane!”

La scuola: a piedi, in mezzo alla neve, coi calzoncini corti

Ecco, questo è Germano: schietto, diretto, senza fronzoli e arzigogoli. Capisco in fretta che mi divertirò moltissimo ad ascoltarlo. Chissà quante cose imparerò” “A che scuola andava?” “Vede, quasi tutti noi ragazzi si lavorava alla SMI …” “La Società Metallurgica Italiana degli Orlando?” “Sì. Proprio quella. Qui a Campo Tizzoro da più di trent’anni aveva aperto uno stabilimento per la produzione di munizioni per pistole, fucili, moschetti e artiglieria leggera per l’esercito e la marina italiana” “Pensi che negli anni Settanta io ho fatto il militare proprio da queste parti. Ero distaccato come autista all’Ufficio di Sorveglianza Tecnica presso le Officine Meccaniche Galileo. Ogni quindici giorni venivo a Campo Tizzoro ad accompagnare il Comandante della Stazione e i suoi collaboratori perché provassero quegli ordigni che venivano prodotti qui” “Comunque noi ragazzi non solo si lavorava in fabbrica, frequentavamo anche la scuola di apprendistato che l’organizzazione dello stabilimento aveva allestito lì dentro” “Quindi sarete entrati in contatto con gente che era antifascista. Ho letto che anche negli anni di maggior consenso al fascismo, serpeggiava fra gli operai una certa resistenza, certamente manifestata con grande circospezione ma comunque capace di esprimere lo sforzo per opporsi al regime” “E’ così. Per quanto in clandestinità e correndo gravissimi rischi, nelle fabbriche s’erano organizzate delle cellule di tipo carbonaro. Gesti, sguardi, poche parole e soprattutto parecchi ciclostilati per mantenere viva la speranza e preparare la lotta. Noi studenti eravamo le staffette ideali. Infatti, nascondevamo questi fogli fra i quaderni e così riuscivamo a farli circolare fuori dalla fabbrica” “Ma non c’erano le guardie a controllarvi?” “Gli operai venivano quasi sempre frugati ma noi studenti no”.

Germano Pacelli

La resistenza al regime fascista comincia dentro le fabbriche

“Quando comincia ad operare coi partigiani?” “La guerra scoppia che io avevo sedici anni. Più che a fare il partigiano continuo a camminare perché non c’era praticamente nulla da mangiare.  Per trovare qualcosa mi spingevo spesso fino a Ospitale. Lì si trovava dai contadini formaggio, burro, uova, ricotta” “Ospitale quale?” “Quello in provincia di Modena” “Saranno più di quaranta km da Maresca!” “Di sicuro. Ma sa, eravamo dei bravi sciatori” Ecco confermata la prima impressione che m’ero fatta di Germano. Mia nonna avrebbe detto: “Vantazione? Non sa nemmeno cos’è”, ovvero, come milanese imbruttito oggi direi che Germano “non se la tira minimamente”. Germano ha questa dote straordinaria di argomentare sempre in modo pacato, sommesso, privo di ogni retorica e senza alcun accenno trionfalistico intorno ad argomenti che mano mano che il racconto si dipanerà, diventeranno sempre più drammatici.

“Vo sotto le armi a 19 anni: nell’agosto del 1943 mi arruolano nella Guardia di Frontiera e sono di stanza ad Aidussina, fra Postumia e Gorizia.  Praticamente non faccio a tempo ad arrivare che il mondo precipita” “Me l’immagino: Badoglio con il suo ambiguo proclama dell’8 settembre: ‘… Ogni atto di ostilità contro le forze anglo – americane deve cessare …. reagiremo ad eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza’ ” “Macché ambiguità! Per i tedeschi il messaggio è chiaro: noi italiani siamo diventati i nemici da combattere. Così non si fanno il minimo scrupolo a farci tutti prigionieri e a mandarci in un campo di concentramento in Jugoslavia. Ma scappo con qualcun altro” “E non vi hanno rincorso?” “Si, di certo, ci siamo perfino imbattuti in reparti tedeschi ma io ho sempre avuto fortuna. Non m’hanno ripreso” “Come avete fatto a sopravvivere?” ” Ho bevuto dalle pozzanghere delle strade”

Germano Pacelli

Germano Pacelli

Germano Pacelli

Germano Pacelli

Germano Pacelli

L’8 settembre e Germano scappa dal campo di concentramento

Mentre mi parla delle sue peripezie Germano mantiene la stessa espressione del volto, conserva il medesimo tono di voce, non drammatizza mai. “Ad un certo punto saliamo su un treno ma poco prima di Bologna tutti i miei compagni, soldati fuggitivi come me, decidono di abbandonare il treno perché sono sicuri che alla stazione dove bisogna per forza fermarsi, ci sarebbero stati i tedeschi ad aspettarci. Ma con me c’era un amico di Empoli. Poveraccio, era esausto. Non ce la faceva nemmeno a reggersi in piedi. Sicché rimango con lui. Mi va bene anche stavolta. Anzi, a Borgo Panigale m’imbatto in un macellaio di Maresca e col suo camion torno a casa” “E lì i problemi non son certo finiti” “Eh no. Se non si voleva finire nelle milizie di Salò o si va in montagna o si va a lavorare nella TODT per costruire strade, ponti e soprattutto opere difensive, schiavi dei nazisti. E a questo punto che la mia collaborazione coi partigiani si fa più serrata. Ho il compito di procurare dei medicinali per curare i combattenti. Siamo in tre, io Romualdo e Venanzio. In tre ci dividevamo una pistola. Dopo essersi procurati i medicinali, tornando disarmiamo una guardia della SMI. Sicché ora, oltre alla pistola, potevamo vantare anche il possesso di un fucile”

Adesso Germano, approfondendo il racconto delle sue azioni guerresche, evoca una ridda di suoi coetanei dai nomi straordinari. Ecco che nel racconto con lui appare Valdo (detto Panciolini), fa capolino Meo e poi arriva Lovero. In un’altra azione compare Truciolone (detto Oscar) con l’Uccello (ovvero Guido) e con Emore. Sono nomi epici, degni di guerrieri poderosi. Ancora: Venanzio, Milziade, Battista, Romulado, Fosco, Ovidio, Vaschino, Nocenzio che personaggi saranno mai stati? Me li figuro alti chilometri, dalle spalle poderose, con mani enormi. Questa è di sicuro gente fuori dal comune: avranno tutti facce gagliarde, aperte al sorriso ma capaci di inchiodarti con uno sguardo. Eppure, Germano, che è uno di questi, ha un aspetto mite, un fisico minuto, uno sguardo dolce e pacato. La forza, la gente di questa tempra, l’ha dentro.

Non bastasse la forza evocatrice dei nomi dei suoi compagni ecco che lo scenario in cui questi partigiani operano, scatena ulteriormente la fascinazione in me che l’ascolto rapito: questi uomini combattono fra il Cornaccio e il Cippo dei Tre Termini; s’aggirano fra il lago Scaffaiolo, e Valdigorghi; s’avventurano fra il Passo della Calanca e il Passo della Croce Arcana; preparano agguati alla Scaffa, corrono all’Orsigna, scalano il Poggio dei Malandrini detto anche Pedata del diavolo, lottano fra il Monte Fegatese e la Valle della Stufa. Posti selvaggi che ancora oggi continuano a chiamarsi così. Ma se oggi si può magari sorridere a pronunciare il nome di uno di questi posti, sono sicuro che quasi ottanta anni fa l’emozione e il sentimento era di ben altro spessore: terrore, paura, ansia da temperare con il coraggio, la volontà, l’ardimento.

“La verità è negli occhi di chi guarda. Rischiare la vita e perderla per un ideale”

“Aveva un nome la vostra formazione?” “Sì, costituimmo la Primo Filoni. Questo partigiano morì alla curva dell’Oppio attaccando con una bomba a mano un milite fascista che passava in moto. Aveva già sganciato la sicurezza quando si accorse che a bordo della moto c’era anche una donna. Esitò a lanciarla e così la bomba gli scoppiò vicino. Morente si rotolò giù per il burrone dove morì. Altri però dicono che nell’avventarsi all’attacco, gli venne meno l’appoggio della gamba e scivolando perse la presa sull’ordigno che esplose uccidendolo” Qual è la verità? Mi chiedo. Per me la verità è negli occhi di chi guarda. Rischiare la vita e perderla per un ideale. Combattere per cacciare il nemico oppressore. Questa è la verità. Questa è la storia da ricordare e di cui mantenere perenne davanti agli occhi l’esempio. Il resto è cronaca. Passa, sparisce, è irrilevante.

“Molte erano le bande partigiane che operavano qui nell’Appennino, vero?” “Sì, s’era in parecchi. C’era la formazione di Pracchia comandata da Molotov che poi si unì alla formazione toscana Gino Bozzi, ferito a morte dai fascisti alla fine del 1943. Il nuovo comandante di brigata fu Nando, un fiorentino di San Frediano” “Sapevo che in questa zona, nelle zone montuose fra Modena e Reggio, fiorì la Repubblica Partigiana di Montefiorino che purtroppo ebbe una vita effimera” “Eh sì! Dal 17 giugno al 1° agosto 1944: nonostante la repubblica ebbe una vita breve, riuscì ad avviare un’esperienza di autogoverno democratico” “In pratica in che cosa si concretizzò questa iniziativa?” “Prima di tutto a riorganizzare secondo l’amministrazione civile il territorio libero. In altri termini: eleggere i sindaci, costituire un ospedale, rifornire la popolazione di viveri” “Ma si provvide anche a punire i fascisti che s’erano macchiati di turpitudini?” “Perbacco: ci furono anche arresti, processi ed esecuzioni di presunti collaborazionisti. Poi però dopo soli 45 giorni dalla costituzione della Repubblica ci fu un nuovo massiccio attacco nazifascista: i reparti partigiani dovettero disperdersi per non venire annientati” “Feroce vero fu la repressione nazifascista?” “Sì, fu terribile: Montefiorino, Gombola, Piandelagotti, Toano, Villaminozzo vennero bruciati, mentre la popolazione, memore della strage di Monchio, si mise in salvo con la fuga” “Ma la lotta non cessò?” “Macché: continuammo a condurre azioni di disturbo contro le retrovie tedesche e di sabotaggio nel territorio occupato, in attesa della vittoria e della libertà”

Germano Pacelli

Germano Pacelli

Il plotone di tedeschi e gli occhi del soldato che paiono quelli di un bimbo. “Figuriamoci se quello voleva sparare”

“Ricorda qualche episodio specifico di questa lotta continua?” “Sa, io ero un gran camminatore ed un ottimo conoscitore della zona. Queste doti erano utili ai compagni perché serviva uno che non solo non avesse paura a muoversi da solo ma che, avventurandosi per questi bricchi, ritrovasse sempre la strada. Serviva tutto: soprattutto i medicinali erano indispensabili per curare i nostri feriti. Mica li potevamo portare all’ospedale! Le medicine però ce l’avevano solo i fascisti. In tanti erano costretti a servire quella gente. C’era anche chi collaborava ma non lo faceva certo per intima convinzione.  La cattiveria non era così diffusa. Non tutti erano cattivi. C’erano anche persone di cuore. Sicché, grazie alla mia esperienza con la TODT avevo individuato un infermiere e soprattutto un tenente medico che pur collaborando coi nazisti, mi davano volentieri quanto chiedevo. Un giorno con i medicinali che avevo ottenuto stavo tornando alla base: dietro una curva m’imbatto in un gruppo di soldati tedeschi tutti stesi a terra con le armi spianate. Ero circondato. Dentro mi sentì morire ma non esitai per nulla: salutai tutti con educazione e proseguì per la mia strada” “Pazzesco. Ma com’è stato possibile?” “Scorsi un soldato, quello al mitragliatore. Questi mi sorrise apertamente, con degli occhi che sembravano quelli di un bimbo alla scuola materna, figuriamoci se quello voleva sparare. Per me gli occhi dicono più della lingua. Fu un attimo: gli sorrisi anch’io e, come le ho detto, diedi il buongiorno a tutti e passando nel mezzo ai tedeschi pronti a combattere, seguitai per la mia strada” “Non riesco a capacitarmi di come abbia potuto mantenere tutto questo sangue freddo. Avrebbero potuto come minimo arrestarla e poi chissà?” “Si vede che c’ho avuto davvero un angelo custode e per di più con l’ombrello. E poi sì, ha ragione, se m’avessero preso io sapevo tante cose, nomi, posti, struttura dell’organizzazione partigiana della zona. Avrei messo in pericolo tutta la brigata. Avrei tradito? Io so ciò che ho fatto, non me la sento di dire ciò che avrei fatto. È vero, bisogna, quando si fa certe azioni, prima pensare alle conseguenze che queste azioni possono portare.  Oggi, con la maturità dei miei novantacinque anni lo so bene che non erano cose da fare: prima si pensa poi, se è il caso si fa. Ma a quell’epoca avevo vent’anni …” “Avere vent’anni nel 1944 non è certo la stessa cosa che averli in un’altra epoca. Penso al privilegio che la mia generazione ha avuto rispetto alla sua e questo grazie a voi”

La battaglia dell’Orsigna e il contrattacco tedesco

“Di certo s’è dovuto fare un’altra vita. Sa che una volta m’hanno mandato a dire due paroline al Capo della Guardia della SMI, un certo Signorini. Costui, squadrista, ex maresciallo dei Regi Carabinieri, faceva troppo l’aguzzino con gli operai. Bisognava lisciargli le penne e fargli capire che non era il caso di esagerare. Lo trovai, gli appoggiai la pistola sul petto, gli dissi quello che avevo da dirgli e me ne andai. Di notte però sbagliai strada e finii in mezzo, all’albagio, ad una colonna di soldati tedeschi. Ancora una volta ebbi fortuna: erano così stanchi che non mi prestarono attenzione. Se m’avessero fermato, con una pistola addosso …. “ “Ma non può essere stata solo fortuna: la sua grinta e la sua determinazione l’hanno aiutata a tirarsi fuori dai guai” “Cosa vuol che le dica? Ci sono altri episodi che mi fanno propendere verso la tesi della fortuna.  Dopo la battaglia dell’Orsigna, dove circondammo un reparto tedesco e gli infliggemmo un sacco di perdite, i tedeschi erano infuriati e tornarono in massa all’attacco. In quei giorni infatti annientarono la Repubblica di Monte Fiorino. Insomma, combattevamo a Santa Giulia ma i nazisti erano troppi e troppo meglio armati. Bisognava sganciarsi. A me affidarono il collegamento fra il comando e le diverse postazioni. M’avvio verso quella più in basso e comunico gli ordini. Mentre mi ritiro vengo scoperto: il primo tratto la fo disteso sulla strada, i tedeschi sparano a più non posso ma, essendo più in basso, i proiettili prendevano o il ciglio della strada o la parte più in alto. Nel mezzo io strisciavo letteralmente cercando quasi di entrare nel terreno. Se ci penso! Così vicino fischiavano le pallottole: mi portarono via tutti i caricatori che avevo sulla schiena, mi scorticarono quasi la pelle ma restai incolume. Dovevo proseguire per avvertire della ritirata la seconda squadra. Qui c’è un problema. Ho da attraversare un tratto completamente scoperto. Balzo su e corro: la terra ribolliva letteralmente per lo schianto dei proiettili tutt’intorno. Gli schrapnel mi scoppiano poco sopra la testa ma ce la fo. Esausto ma sano e salvo arrivo alla postazione della seconda squadra. In piena notte finalmente arriviamo in cima al monte Penna e riusciamo a riposare un poco. Sono a pezzi; ho un mal di testa micidiale. Gli accertamenti che feci tanti anni dopo evidenziarono che avevo riportato due lesioni al cervello per lo stress pazzesco patito in quelle circostanze”

Germano non si scompone neanche nel ricordo di questa avventura spaventosa. Altri l’avrebbero potuto farla diventare un romanzo a forti tinte. Germano non monta in cattedra; addirittura mi racconta due episodi che in quel contesto drammatico, mi lasciano basito, tanto sdrammatizzano la situazione. Cavallerescamente cedettero la camera matrimoniale dotata di letto con tanto di materasso ad una coppia di giovani sposi slavi mentre i partigiani s’arrangiarono nell’aia della fattoria sul Monte Penna presso la quale s’erano rifugiati. Neanche mezz’ora dopo gli sposini piombano in mezzo a loro: non ce l’avevano fatta a resistere all’assalto delle pulci. “Ma non mi rammarico di aver passato un’altra notte all’addiaccio” In un frutteto Germano quella stessa notte fa l’amore con la figlia del fattore.

E via di nuovo, questa volta s’incamminano verso la Garfagnana con un viaggio duro e tanta fame. Il comandante partigiano della zona, il celebre Armando, dà loro un’intera pecora ma gli intima di sloggiare al più presto, altrimenti li avrebbe disarmati. Cosi la banda vaga poco al di là dell’Orrido di Botri. “Di notte io ci vedevo più degli altri e avevo il piede più sensibile alle asperità del terreno. Indossavo una camicia bianca perché gli altri la vedessero: in azione, quando erano in pochi, andavo davanti a tutti, ad una certa distanza dagli altri per far capire le difficoltà del percorso. Se invece ero in azione con tutta la brigata, rimanevo l’ultimo della fila perché se qualcuno rimaneva indietro mi vedesse più facilmente”.

“Ormai però siamo agli sgoccioli: c’è ancora il tempo per un’ultima battaglia. S’era tutti attorno al cuoco che stava preparando da mangiare; all’improvviso ci spararono addosso: Via di corsa in cima al crinale: s’aveva paura che fosse un grosso contingente che c’attaccava. Poi, ben nascosti, siccome non si sentiva più nulla, a pattuglie formate da cinque uomini, piano piano tornammo in giù, verso il campo che avevamo precipitosamente abbandonato. Io facevo parte della prima pattuglia. A un incrocio trovo in terra il fucile di Truciolone. Mi chino per raccattarlo e questo gesto m’ha salvato un’altra volta la vita. Le pallottole mi fischiano tutte sopra il capo. Purtroppo, non tutti s’ebbe la stessa fortuna. Italo fu colpito in modo così raccapricciante al volto che un compagno avrebbe voluto sparargli perché finisse prima di soffrire. Non ce la fece. Ma Italo non durò molto lo stesso”

Germano Pacelli

Germano Pacelli

Arrivarono gli americani, ma “rimanemmo un po’ delusi”

Di nuovo compare l’umanità di Germano: “I nostri feriti furono trasportati anche da qualche prigioniero tedesco che s’aveva con noi. Nemmeno questi erano cattivi. Si dava loro da mangiare quando era l’ora e nemmeno si badava se loro erano i primi o gli ultimi. Tutte le sofferenze c’affratellano. Quando ormai hai catturato un nemico e lo hai disarmato, se collabora, se non si ribella e accetta la sua nuova condizione, perché infierire ancora?”

“Ma gli Alleati?” “Finalmente arrivarono gli americani. Un po’ delusi ci rimanemmo: ci disarmarono in modo veramente offensivo. Ma bisogna andare avanti così all’inizio del 1945 mi arruolo come volontario nel nuovo esercito italiano. Mi mandano a Cesano per l’inquadramento: ma sotto che bandiera si sarebbe dovuto combattere? Con o senza lo stemma sabaudo? Facile immaginare come la pensassimo noi partigiani, altrettanto scontato pensare che i badogliani volevano mantenere ancora la monarchia. Si risolse così: s’andò a combattere senza bandiera proprio” “Foste voi a liberare Bologna?” “No davvero. Il nostro reggimento non fu fatto entrare in Bologna come liberatore, ci fecero girare intorno fino a Calderara di Reno e poi ci fecero proseguire per Brescia. Dove però continuarono certi dissapori con gli americani: troppo superbi! Sicché ci mandarono via da Brescia e ci spedirono a Bergamo” “E qui che succede?”

Germano si innamora

“Succede che si vedono le ragazze: a vent’anni quando si trovano due occhi che t’incontrano, ci s’innamora per tutta la vita” Gli eroi non perdono la tenerezza: “A Treviglio dov’ero di stanza una ragazza mi diede le prime regole del disegno. Fra noi era sorto un certo avvicinamento sentimentale. A 20 anni tutti gli amori sono per tutta la vita, poi ci mandano lontano e anche lì ne sorge un altro per tutta la vita. E credete, son tutti sinceri!”

“Le prime regole del disegno? È qui che comincia la sua passione per la pittura?” “Veramente c’ero proprio   portato: in quinta elementare le suore mi mandavano in un’altra stanza a disegnare santi invece di farmi seguire le lezioni, così, arrivato all’avviamento, non avevo le nozioni che avevano gli altri. In pagella avevo sempre il minimo della sufficienza. Durante i compiti io oltre il mio facevo anche quello di altri due o tre cui immancabilmente le suore davano voti altissimi. Mah! Coltiva l’umiltà, non montarti la testa. Chissà? Questo forse quelle benedette monache volevano imparassi”.

“Comunque, non è ancora finita: siamo già ad agosto del 1945: il Regio Esercito non vuole più i volontari ex partigiani fra le sue fila. Se voglio restare nell’esercito devo firmare per cinque anni” Ma Germano se ne va e se ne torna a casa. Non fa a tempo a sistemarsi che arriva la cartolina precetto: deve fare il CAR a Siena per poi essere spedito alla Cecchignola a Roma ed infine all’Autocentro di Lodi. Sotto le armi s’impegna nella propaganda politica ma nel novembre del 1946, non volendo firmare il prolungamento della ferma per altri cinque anni, lo congedano e torna a Maresca. Ma non c’è lavoro. C’è solo miseria e bisogna arrangiarsi. Nel 1947 parte per la Cecoslovacchia, portando con sé nel cuore l’amore della Neliana, amica di sempre, all’improvviso scoperta come quella che sarà la sua compagna per settantacinque anni.

Dopo la guerra, nel 1947 il viaggio (e il lavoro) in Cecoslovacchia

“Che cosa fa in Cecoslovacchia?” “Dapprima fo il tornitore in un’officina di riparazione delle macchine da miniera” “Un altro mondo, un’altra lingua? Come è riuscito ad ambientarsi?” Ed ecco che Germano esprime ancora una volta tutta la pienezza della sua umanità: “Quando ci si vuole capire non c’è differenza di lingua che tenga. La lingua, è vero, bisogna impararla così la vita diventa più facile. Poi però non si deve credere d’aver capito, si deve aver capito davvero per vivere a lungo con altri popoli perché l’umanità si vede sempre. Pensi che c’era un tedesco alla porta accanto alla mia. Lui e sua moglie m’avevano un po’ affigliolato. E poi nel tempo libero aiutavo i contadini padroni della casetta dove vivevo e talvolta mangiavo con loro” “E la promessa sposa?” “Nel 1949 le chiedo se vuole sposarmi: mi risponde di sì. Trovai due stanze: cucina, un tavolo, due sedie e due piatti, due bicchieri e posate d’alluminio; nella camera due letti. L’acqua corrente era nel corridoio, in comune con tutto il casamento mentre i gabinetti erano in giardino, tutti in fila separati alla bell’e meglio”

“Dove vi siete sposati?” “A Maresca, il 22 settembre del 1949. Senza nemmeno dirlo ai genitori e per di più con due testimoni presi a caso. Per me il matrimonio era un fatto privato. Si figuri che il prete a cui ci eravamo rivolti, ci avrebbe sposato in sagrestia” “Insomma, una cerimonia essenziale” “Macché cerimonia. Macché pranzo di nozze. Siccome era l’una le piglio due panini con la mortadella: le piaceva tanto. E poi via di corsa a Roma perché ci voleva il permesso per andare in Cecoslovacchia. Una volta in regola con i documenti l’ho portata a casa. La casa! Neliana non se l’immaginava così combinata! Ma le ci volle un pomeriggio solo perché la ribaltasse da capo ai piedi e trasformarla in un ambiente tutto nostro, lindo e pinto” “Presto arrivarono i figli, vero?” “Sì, nel 1951 nacque il primo figlio e due anni dopo decidiamo di tornare in Italia. Per me che venivo dalla Cecoslovacchia lavoro non c’era” “Sicché è dovuto partire un’altra volta?” “Per forza, emigro in Svizzera e nel 1960 torno in Italia. Ho 36 anni. Non mi guardi come son ridotto ora: son gobbo e devo camminare con due bastoni”

“Quand’è che si dedica all’arte?” “Ho sempre dipinto. Ufficialmente comincio ad esporre a metà degli anni Settanta. Mi sono imposto una disciplina: copiare dal rinascimento. Lì ci sono i miei maestri. I critici dicono che i miei quadri sono tristi: per me il quadro è un amico col quale non si può mentire. Dentro ci sei te. Chi ha vissuto i miei tempi ha di certo conosciuto la gioia e la bellezza. Ma di certo la sofferenza non gli è mai mancata. La pena di vederti morire accanto il compagno, il terrore che ti scoprano mentre stai operando un sabotaggio, che t’ammazzino mentre ti precipiti contro il nemico sono esperienze che segnano. Secondo me il passato non si può e non si deve cancellare”

Anche un altro grande letterato e partigiano, Primo Levi ci dice ammonendoci: “Chi dimentica il passato è costretto a riviverlo”

Germano Pacelli