Giovanni Buono:

“Un carro armato d’amore”

Giovanni nasce a Calolziocorte (BG) il 24 settembre 1978, sotto il segno della bilancia, un segno che, dicono gli esperti, è proprio tipico di chi è capace di mettere in dubbio le convenzioni sociali e di chi sa, alla bisogna, proporre alternative.

Pare, sono sempre gli esperti a parlare, che i nati sotto il segno della Bilancia abbiano una forte tendenza alla disobbedienza, quando si rendono conto che le regole precostituite non sono quelle che rendono davvero giustizia agli individui.

E questo aspetto verrà fuori, oh se verrà fuori, nella chiacchierata con Giovanni. D’altra parte, di uomini della Bilancia un po’ me ne intendo. Come mai? Grazie a mio padre, mani di ferro, cuor d’oro e dirittura morale d’acciaio temperato.

Calolziocorte: crocevia tra Lecco Bergamo e Brescia. Qui nasce Giovanni

Intanto diamo un’occhiata al contesto da dove Giovanni proviene. Nasce e vive a Calolziocorte, e già il nome è uno scioglilingua: provate a dirlo di seguito tre o quattro volte, sulla falsariga “tigre contro tigre”. Il paese suona Calols in dialetto bergamasco, mentre Calolz in dialetto lecchese, vi assicuro per me lingue ostrogote entrambe, ed è situato nella Val San Martino. Il paese poi dal 1992 è stato annesso alla provincia di Lecco.

La vocazione imprenditoriale del paese risale addirittura alla preistoria: i primi abitanti vivevano su palafitte ma già dal IX al V secolo a.C. vi si installò un insediamento celtico soppiantato successivamente dai Longobardi ed infine dai Romani nell’età imperiale. Dal III secolo d.C. il ponte di Olginate scavalcava l’Adda e la strada pedemontana collegava fra loro Brescia, Bergamo e Como, facendo di Calolzio una località più che propensa allo sviluppo perché anello di congiunzione fra la Lombardia occidentale e quella orientale. Quando siamo ormai nella seconda metà dell’Ottocento, fu costruita la linea ferroviaria Lecco – Bergamo – Brescia, una delle più antiche del Regno d’Italia. Questa infrastruttura fondamentale, promosse fin da subito e poi in modo più massiccio fra gli anni ’20 e ’40 del secolo scorso nell’amena Calolziocorte, lo sviluppo di numerosi insediamenti industriali. Oggi il comprensorio è celebre per la produzione artigianale di attrezzi agricoli e la lavorazione del metallo.

Comunque, tanto amena mi sa che questa località proprio non sia: d’inverno, da novembre a marzo, ci fa un freddo da rincitrullire: le temperature sono costantemente sotto lo zero. Addirittura, il 6 febbraio 2012 si registrò un rabbrividente – 12 gradi

Giovanni Buono

La famiglia Buono: le origini messinesi e il grande palazzo di famiglia

I Calolziesi parlano bergamasco, ma Giovanni è perlomeno bilingue e io l’intendo benissimo. “Ma non è un cognome bergamasco, Buono” gli fo. “Per nulla. Mio nonno e 2 figli nei primissimi anni ’50 arrivano su dalla provincia di Messina. Una volta sistemato chiama tutta la sua famiglia: 14 figli. La prolificità a questa famiglia non fa difetto, tant’è che, mediamente ciascuno dei figli del nonno di Giovanni, mette al mondo quattro figli. Ci vuole la calcolatrice per contarli tutti: sono così’ tanti che la famiglia Buono tira su un condominio. Mi piace immaginare il palazzo di famiglia con tutte le porte aperte e un andirivieni continuo di donne, uomini, bambini che entrano ed escono dagli appartamenti per parlare con la zia, con la nonna, magari si sarà presentata anche qualche amico, qualche conoscenza, fidanzati, ospiti in visita. Un tourbillon di cui mi pare di sentire le voci, gli squilli di qualche risata, e certamente ci saranno stati pianti e momenti mesti. A questi, però, avrebbero portato soccorso ora l’uno, ora l’altro membro di famiglia. Che andirivieni per le scale perché “ho comprato le melanzane al mercato, ne vuoi qualcuna Carmela?” “Sì che così faccio la pasta alla Norma”. “Giuseppe, è arrivato il vino da Tortorici, andiamo in cantina che c’è da infiascarlo” “Antonio, già che scendi, dì a Matilde di tornare immediatamente su che deve fare i compiti”. E le tavole imbandite: centinaia di posate, e piatti che venivano svuotati, forse, con una velocità maggiore di quella con cui venivano riempiti. No, anche se sembra un palazzo, il nonno di Giovanni ha tirato su un paese.


E in questo formicolio di energie disparate, vivaci, determinate, il nonno coi suoi figli edifica anche l’impresa di famiglia che produce vernici e smalti. Il nostro paese vanta una grande tradizione nella produzione delle vernici: i romani hanno importato dai Greci la tecnica di base che poi si è evoluta nei secoli. Per esempio, l’epoca rinascimentale a Firenze aveva la caratteristica di verniciare le facciate solitamente di colore giallo a causa delle uova che venivano utilizzate come leganti. E poi gli smalti che, a differenza delle vernici, sono lavabili. Col tempo i Buono si sono concentrati a tinteggiare gli interni delle abitazioni; successivamente hanno ampliato il loro campo d’azione anche agli esterni delle costruzioni. Ed è così diventato praticamente un’evoluzione naturale non limitarsi a produrre e ad applicare tinture, i Buono si sono trovati impegnati nella più complessa opera di manutenzione e ristrutturazione degli edifici.

Giovanni Buono

Giovanni Buono

Scuola, lavoro, calcio, amici: la vita di Giovanni prima dell’orribile incidente

Mentre l’Azienda di famiglia cresce e si sviluppa, Giovanni bambino ha la scuola proprio davanti a casa e mi sa tanto che l’appello mattutino doveva essere abbastanza noioso: una mezza dozzina di Buono sedevano di certo nei banchi. Poi la maestra fa: “Buono, alla lavagna”. Si fa presto a dire Buono, ma chi è esattamente quel Buono lì che la maestra vuole interrogare? M’immagino i tanti siparietti che si saranno succeduti in classe. Giovanni è estremamente attivo e dinamico. Un “fuoco lavorato” dall’energia inesauribile. Gioca a calcio nel Lecco come attaccante che è certamente il ruolo che più s’attaglia alle sue caratteristiche di personalità e di temperamento. L’attaccante deve unire alla naturale aggressività, tecnica e astuzia per cogliere al balzo ogni situazione e volgerla a suo favore. Prerequisito è essere sempre nel mezzo, nel cuore del gioco. Questa sua scatenata energia non si placa nemmeno quando, finita la scuola dell’obbligo s’iscrive al corso di studi da geometra. Forse Giovanni non è stato proprio uno studente modello, di certo non esattamente un secchione: pieno di vita com’è, s’appassiona meno alla scuola di quanto invece non esploda in lui la voglia di vivere, di fare esperienze, di correre e saltare dappertutto in cerca di nuovi stimoli e per placare la sua energia ce ne vuole. Mi racconta che qualche volta gli capitava di trovarsi con gli amici in un qualunque dopo cena al bar per una birretta: non di rado saltava su con una proposta di questo tenore: “Dai su, monta in macchina. Andiamo a ballare a Rimini”.

Se la vita di tutti i giorni correva frenetica, chissà che cosa non capitava quando cadevano le feste: quelle classiche, Natale, Capodanno, Pasqua. Allora sì che la baraonda diventava gigantesca. Di certo saranno arrivati anche dei parenti, sicuramente le preparazioni dei cibi si saranno intrecciate fra le tantissime donne di casa, ciascuna esperta cuoca ma sempre in competizione con la cugina, la zia, la suocera. L’atmosfera sarà stata di sicuro elettrizzante e probabilmente tutto il palazzo risplendeva nelle notti fra Natale e Capodanno mentre botti, auguri urlati e inviti reciproci si rincorrevano per quelle scale. “Dai, è Natale, facciamo festa!” Il Natale nella tradizione delle famiglie italiane è una festa che è capace di far sognare grandi e piccini, è un periodo nel quale la voglia di famiglia, di godere dei piaceri degli affetti più profondi si mescola con il desiderio dei più giovani di divertimenti ancora più accentuati grazie al tempo dilatato in cui questi si potevano distribuire.

La notte di Natale del 2000

Il 25 dicembre del 2000, Giovanni presta servizio come carabiniere ausiliario presso il battaglione La Marmora in Campania. Viaggia su un Range Rover Defender, una vettura potente e capace di affrontare gli itinerari più impervi. Forse sonnecchia, stanco del servizio in cui è stato impegnato durante tutto il giorno. Magari sogna la licenza che sta per arrivare dato il periodo festivo. All’improvviso la strada sparisce sotto le ruote dell’autoveicolo, le persone all’interno dell’auto sono sbattute in qua e là, il Range Rover precipita in una scarpata di cui non si scorge il fondo. Giovanni sopravvive all’urto terribile, ai mille ribaltoni del mezzo ridotto ad insieme di rottami. Giovanni è sopravvissuto, ma versa in condizioni gravissime. E’ in pericolo di vita. Viene trasportato d’urgenza al Cardarelli, il più grande ospedale del Mezzogiorno, dove trascorre due mesi in rianimazione, sospeso fra la vita e la morte. Ha riportato una lesione midollare che l’ha totalmente immobilizzato, si tratta di una paralisi totale. Può muovere solo gli occhi. Intanto suo padre, avvertito dell’incidente si precipita a Napoli: per lo strazio viene colpito da infarto, ed è subito ricoverato nello stesso ospedale del figlio. “Stava al piano di sopra al mio” mi racconta Giovanni che ha una tempra eccezionale e sopravvive.

Giovanni è vivo, per modo di dire. Allettato, intubato, perdutamente immobile, assistito da due piantoni che l’Arma gli ha messo immediatamente a fianco. Giovanni era in servizio, merita attenzione, rispetto, cure nel lungo calvario che sta attraversando. Dopo i primi mesi viene trasferito nella nuova rianimazione dell’ospedale di Lecco dove sopporta altri dieci mesi di immobilità totale, attaccato alle macchine. La disperazione s’affaccia spesso e talvolta induce Giovanni a chiedere a chi gli presta le cure, di indulgere in una somministrazione più accentuata del solito dei farmaci, così da trovare pace. Lasciarsi andare e poi sparire, finalmente perdersi e dimenticare dolore e disperazione: queste emozioni s’affacciano alla coscienza di Giovanni, ma vengono contrastate dalla sua immensa vitalità e probabilmente stemperate da quell’enorme paese che è tutta la sua famiglia, in cui ciascun membro fa di tutto per incoraggiare e sostenere quella parte di sé, orrendamente ferita.

Zefferina e Fabiano

Giovanni Buono

Giovanni Buono

Giovanni Buono

Il calvario, gli ospedali, il percorso di riabilitazione: Giovanni combatte

Dopo altri 15 mesi Giovanni respira naturalmente: ha vinto una prima, fondamentale battaglia. Non dipende più dalle macchine. Allora a questo punto si possono impostare programmi per provare a recuperare ulteriore mobilità. È questa una lotta durissima, costellata di alti e bassi, d’euforia e d’angoscia, di impegno spaventoso e di voglia di mollare tutto, abbandonandosi. La fisioterapia provoca anche tanto dolore, pretende tanto impegno per ottenere qualche modesto risultato. E questi stentano, inizialmente ad arrivare, provocando in chi è impegnato in questo processo una lacerazione fra la consapevolezza dello sforzo profuso, e l’esiguità dei risultati ottenuti. È una battaglia in cui il cuore e la mente sono sollecitati più ancora del corpo che viene manipolato, tormentato, mosso dall’esterno. Cuore e mente debbono essere alimentate solo dal soggetto che non può perdere mai di vista l’obiettivo.

Qui Giovanni mostra di che stoffa è fatto, pur parlando ancora soltanto con gli occhi, s’impegna al punto da essere trasferito a Passirana in un centro d’eccellenza che vanta risultati straordinari con tutte le persone accolte fra le proprie mura. Qui vi trascorre altri sette mesi ed in questo periodo ricomincia ad acquisire un po’ di sensibilità. Tutta l’equipe medica, sollevando Giovanni per traslarlo da una sedia a rotelle ad un’auto, saluta con un grande applauso quel suono di cui Dante dette satirica immagine, attribuendo al diavolo Barbariccia la capacità di suonare come fanno le bande militari la tromba, la risonanza in oggetto proveniente da ben altra appendice del corpo.

“Fu un periodo di progressi lenti ma violenti” mi dice Giovanni. Che può significare un’affermazione così puntuta? Di fronte all’ineluttabilità dell’incidente, incredibile, inimmaginabile, devi, sei costretto a farci i conti. Il danno irreversibile c’è, sussiste e non si tratta purtroppo soltanto di un brutto sogno, è una cruda, disperata realtà. Di fronte a questa Giovanni ha provato a momenti alterni, una rabbia furiosa “Perché a me? Perché ora? Perché?”, una rabbia urlata. Consumata la rabbia, al suo fondo restava spazio per precipitare in momenti di depressione cupissima, espressa attraverso un rinserrarsi in sé stesso, escludendosi da tutto il mondo per qualsiasi interazione, in una sorta di estremo diniego, di rifiuto categorico di quel male irreparabile, per contrastare la consapevolezza che “non c’è più niente da fare. Questa condanna è senza remissione. Sono finito”.

Proseguendo la fisioterapia, profondendo in essa ogni sforzo ed ogni molecola del proprio essere, Giovanni ad un certo momento ha avuto l’enorme forza e la grandissima capacità di accettare ciò che non si poteva più cambiare, e da quel momento è rinato. A questa nuova consapevolezza: “indietro non si torna. Neppure gli dei possono cambiare il passato”, Giovanni s’è aggrappato con tutta la forza del suo carattere battagliero e mai domo, ora ha deciso che vuole ricominciare, su queste nuove basi, una nuova vita. Ora Giovanni rinasce. Ora Giovanni viene al mondo una seconda volta: La sua forma corporea, il suo aspetto non costituisce più un limite, bensì la base da cui partire, su cui rifondare la propria essenza. È nella sua mente che il suo corpo trova una nuova e diversa agilità; è nel suo cuore che le sue membra intorpidite vengono irrorate di un nuovo vigore. E come William Ernest Henley che appena dodicenne contrasse una grave forma di tubercolosi ossea, non s’è mai arreso. Henley continuò i suoi studi e non ha mai smesso di lottare, testimoniando con una poesia “Invictus” composta nel 1875, resa celebre da Morgan Freeman che la cita narrando la storia di Mandela: “Io sono il padrone del mio destino. Io sono il capitano della mia anima”, significando con ciò che niente, “a meno che io stesso glielo conceda, ha il potere di arrestarmi”. Accogliendo il nuovo regime di vincoli, Giovanni è andato esplorando ogni centimetro di opportunità che questo suo nuovo “sistema corpo” gli concedeva e ne ha fatto una risorsa.

L’amore, Catia, e i suoi tesori, i due gemelli. Giovanni torna a sorridere

E poi trova l’amore a cui all’inizio non crede, pur volendolo con tutta l’anima, temendo che il suo corpo martoriato non possa riuscire a conservare nel tempo l’attrattiva, a promuovere la passione, a cementare per sempre un legame profondo. Così all’inizio provoca, punge, manifesta ostilità a Catia che lo vuole con sé. Giovanni ha paura, stressa il loro rapporto per mettere alla prova la tenacia e la forza dell’amore. Catia sa vedere in profondità nel suo uomo, lei è certa che Giovanni rappresenti la sua base sicura. Quell’ancoraggio saldo la stimolano a profondere e a rinnovare parole e gesti d’amore sincero, caldo che alla fine convincono, l’apparentemente riottoso Giovanni, a sciogliersi in un abbraccio vitale.

È un’ulteriore nascita per Giovanni che da leader solitario, combattivo, agguerrito, determinato a travolgere qualunque tipo d’ostacolo: “la sedia a rotelle è il mio carro armato”, trova adesso una partner che crede in lui e nella sua capacità di costruire una famiglia, una squadra. D’altra parte, Giovanni possiede la spietatezza propulsiva dell’imprenditore leader nato, fa come minimo 350 chilometri al giorno, guidando l’auto da solo o assistito da un fratello alter ego, per offrire ai propri clienti consulenza e servizi integrati come un general contractor, coordinando una miriade di partner in un tourbillon di imprese autonome e coordinate fra loro come una galassia. Da non dimenticare che Giovanni era nato tecnico, uno specialista nell’ambito dell’edilizia, lo sguardo non certo ristretto bensì focalizzato sulle specificità costruttive. Ma alle rinascite di Giovanni credo ormai ci siamo abituati.

Nello sguardo di Giovanni oggi campeggiano i suoi gemellini, Alberto e Beatrice di cinque anni che lo aspettano al ritorno dal lavoro per essere strapazzati di coccole e inconsapevoli dell’inesauribile energia che con le loro manine sulla sua barba sanno infondere al loro papà inarrestabile, carro armato d’amore.