Il diacono pugliese che convertì la Fiat

Domenico Lorusso

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La Storia

Domenico Lorusso è una persona davvero molto imponente che m’accoglie in cima alle scale di casa sua, nel centro di Andria. Prima ci siamo salutati dalla strada: m’aspettava affacciato al terrazzino. A fare la guardia sulla porta una nipote e in casa con lui, oltre alla moglie, una figlia altissima e una nidiata di nipoti, tutte femmine e tutte alte. Domenico ha la barba bianca come i capelli e molto chiari gli occhi. Tutti i suoi hanno invece caratteri più marcatamente tipici della zona: neri gli occhi, neri i capelli.

Domenico è un diacono da ormai più di trent’anni. La madre lo avrebbe voluto sacerdote. Mi faccio spiegare che cos’è e che cosa fa un diacono. Fra le tante cose che non sapevo, i diaconi hanno funzioni presbiterali: possono battezzare, sposare e dare il viatico per l’ultimo saluto ma non possono dir messa. “D’altra parte la nostra missione – mi dice- “essendo sposati ci permette d’essere più addentro alle problematiche familiari di quanto non lo siano i sacerdoti”.

Il 13 giugno del 1969 è stato assunto in Fiat (a Torino) da cui, due anni dopo, è riuscito a farsi trasferire a Bari. Il suo ruolo in fabbrica è stato quello di “Capo uomo operatore”. Non stento a credere che in quegli anni piuttosto calduccini, vantare un fisico come il suo poteva essere una vera “mano santa”. D’altra parte la fine anni 60 – primi anni ’70 in fabbrica, fare l’evangelizzatore non doveva essere uno scherzo. Come minimo significava andare abbastanza controcorrente. Domenico è un uomo di alti principi: l’impegno spirituale non è mai stato messo in discussione come pure l’impegno di capo, il cui ruolo ha gestito con un taglio piuttosto moderno. Al posto del controllo, della “catena corta,” in lui ha sempre prevalso l’impegno per promuovere l’emancipazione e la formazione delle risorse.

Eppure in quegli anni lo stile direttivo era assolutamente prevalente: l’operaio era tenuto sotto stretta sorveglianza: non ci si poteva, (né, forse, si voleva), fidare (fidarsi) di lui. Per questo motivo non era assolutamente permesso l’allontanamento dal posto di lavoro. Ma Domenico, pur portando rispetto alla gerarchia non era disposto a venire a patti con la propria coscienza. Per cui al suo capo reparto diceva con insistenza: “Io t’assicuro produzione e qualità, ma tu lasciami girare per la fabbrica a fare proseliti.

Vedrai che i miei uomini raggiungeranno le quantità prefissate. Lascia che io compia la mia missione”. Poiché ci è riuscito ciò sta a significare che l’incitazione evangelica non era stata tradita: “Haec facere oportet, alia non omittere.” La sua opera d’evangelizzazione continuava anche durante i lunghi trasferimenti in pullman dove si rivolgeva non solo ai “fiattisti” (ovvero agli operai della Fiat) ma anche a tutti gli addetti alla produzione del comprensorio che incontrava sui mezzi di trasporto. Consapevole della necessità di dare un po’ di sollievo anche al corpo, si dà da fare per creare centri d’aggregazione e gioco in cui gli operai potessero distrarsi. Domenico s’impegna a mettere su un dopolavoro non politicizzato, ch’offrisse divertimenti semplici (il biliardino) e cibi a prezzi contenuti (un vero e proprio spaccio) aperto a tutti gli operai purché pendolari, “ma forze politiche avverse me lo hanno boicottato fino al punto che m’hanno fatto chiudere”.

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Probabilmente questa è una ferita ancora aperta in Domenico che oggi, a distanza di tanti anni mi fa passare anche l’immagine di politicanti manipolatori delle forze operaie: “Agivano con scaltrezza … con poco rispetto …” Ma questa amarezza scompare presto: gli basta allungare una mano verso la moglie che gli ha dato cinque figli (di cui una ancora all’università) per ricordare che se è un diacono lo deve anche al suo consenso. Se lei si fosse opposta infatti Domenico non avrebbe potuto diventare un evangelizzatore.

La vita che hanno vissuto ha comportato per loro molta fatica per far quadrare il bilancio (tanto più che la moglie, per l’invalidità, usufruisce d’una pensione inferiore a 300 euro). Ma l’impegno, la costanza, la dedizione e il lavoro ha permesso a questa coppia di far si che tutti e cinque i figli compissero fino in fondo i propri studi.

Il signor Domenico continua ad aiutare i figli di tanto in tanto. Addirittura ha ottenuto dalle monache con cui collabora come volontario all’ospedale, qualche capo d’abbigliamento utile (le scarpe) per permettere ad una nipote d’indossare delle calzature sportive (seppur di un numero più piccolo) per giocare a pallavolo, scarpe che la madre non avrebbe potuto permettersi di comprare.

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Domenico prosegue nella sua missione evangelizzatrice anche visitando gli ammalati in ospedale e portando loro conforto. “E’ in ospedale” – mi dice Domenico – “ che si percepisce la vera vita. Là dove la malattia appiattisce le differenze sociali e il dolore ci accomuna.” Mi narra una storia toccante nella quale si capisce il suo operato pieno di umiltà, rispetto e amore, ma anche energia e grinta. Una coppia è straziata dal dolore: la donna ha partorito un bambino morto. Sua madre cerca di consolarla mentre l’uomo (il padre solo in potenza) giace riverso sulla minuscola bara bianca che ospita il corpicino. Domenico mi disegna con pochi tratti la scena: sullo sfondo le due donne dolenti e straziate, abbracciate in un divanetto. In primo piano la bara e il padre mancato, completamente devastato e assolutamente isolato nel suo dramma.

Di fronte a questo quadro Domenico non pressa perché si preghi insieme e ci si consoli a vicenda, cercando conforto nella fede, reiterando il rispetto di un rito che ci salva. Vede che questa scena soffre di una grave asimmetria: questa dislocazione fisica delle persone, questa distanza fra marito e moglie è innaturale. Non l’accetta, non collude con lo strazio che avverte. Non asseconda con parole compassionevoli la tragedia in corso. Anzi, fa un’ osservazione devastante, apparentemente crudele: “Ma se non siete in pace fra di voi, che pregate a fare?”

Adesso mi è più chiaro il senso della missione di un evangelizzatore: certo la pazienza, l’umiltà, la compassione, il rispetto e la dolcezza. Ma ci deve essere spazio per l’energia, per la determinazione, per sollecitare l’impegno, la presa in carico. Bettelheim diceva che nell’educare i figli l’amore non basta. Così nel portare la pace, non basta la condiscendenza. La cura è impegno e rischio.

stannah

Da sempre realizziamo montascale per consentire libertà di movimento ai nostri clienti. Dall’ascolto dei loro racconti nasce il progetto Stannah Racconta, una raccolta di storie di uomini e donne straordinariamente ordinari.

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