La mano guidata dal cuore

Esco con gli occhi abbagliati dalla luce dallo studio del mio ospite, Coco Cano, un pittore uruguayano. Non sapevo niente di lui: ho scoperto che è stato perfino Assessore alla Cultura e Comunicazione del suo Comune per undici anni: “Abbiamo rivoluzionato la città. Abbiamo recuperato il centro storico e costruito scuole”. Non solo: ha portato qui una mostra di Picasso ed ha anche coordinato la Civica Galleria d’Arte Contemporanea di Carmagnola. “Agli inizi, sa – mi fa – i miei concittadini erano perplessi al punto che nel 1996 fecero un’interpellanza comunale per una cosa che come Assessore, ho avuto l’ardire di fare” “Oddio. E che cos’era?” “Avevo disegnato un peperone così stilizzato da risultare indigesto ai palati forse più tradizionalisti. Ora però i carmagnolesi l’hanno promosso a simbolo della città” “Il peperone?” “Già, proprio il peperone che è un prodotto cruciale per l’economia locale: è un simbolo della gastronomia tradizionale piemontese”

Quando esco da questa visita mi sento tanto scombussolato che mi perdo in questa Carmagnola dei primi di febbraio, opaca e piovigginosa. Ma dove ho parcheggiato? Magari potessi rientrare in una delle tele che ho appena ammirato, in uno di quei riquadri pieni di colore, dove tutto lì sembra avere un senso, un orientamento. Lì ci sono perfino le frecce che indicano chiaramente un verso fra quelle onde di colore, così chi vi naviga dentro di sicuro non si perde, mi dico. Non può esserci incertezza nella direzione da prendere quando i colori appaiono così impetuosi. Eppure, chi li ha dipinti si presenta pacato, disponibile, rilassato, accogliente.

Da Montevideo a Carmagnola: il lungo viaggio di un artista eclettico

Ecco, dev’essere questo contrasto fra la persona e le sue opere che ha su di me un effetto straniante. Al volto del mio ospite fanno corona i capelli, anche questi, morbidi e ondulati proprio come le forme armoniose dipinte nelle sue tele, tutte però inserite in precisi, definiti riquadri. Come fa una persona così mite ad esprimere tanta irruenza nella sua pittura? Mi sembra una cosa sorprendente. E ancora ignoro la quantità di sorprese che il mio ospite ha in serbo per me. “Sono nato a Montevideo. A quella latitudine, in Africa c’è Cape Town e in Australia, Melbourne” “Insomma, praticamente a un passo dal Polo Sud”. Questa è sicuramente una prima sorpresa: dalle sponde del suo Uruguay, dove s’infrangono le onde dell’Atlantico, Coco Cano è venuto a vivere qui, dove si respira la campagna, ci si perde fra le sinuosità delle vicinissime Langhe.

“L’arte deve essere buona, giusta, sana; serve a far star bene. Nella pittura esprimo il mondo che ho visto, i viaggi che ho fatto, le tante esperienze che ho vissuto”.

Proprio queste sono state le prime cose che mi dice l’artista, anche se di sé dice che non si definisce tale: “che lo dicano gli altri che io sono un ‘artista”, appena mi fa accomodare nel suo grande studio rettangolare dove ci sono tantissime sue opere realizzate su una molteplicità di supporti diversi. Credo non ce ne sia uno che non abbia provato: carta, tela, stoffa, legno, ceramica, vetro. Non è sorprendente anche questa ecletticità? Ah, dimenticavo: scolpisce anche.

L’infanzia, le origini catalane e un padre pianista jazz

“Non mi piacciono le cose brutte”, continua. “Mio padre era un pianista di jazz, anche un mio fratello è un musicista, suona il contrabbasso. Anch’io suono”. Mi parla di jazz e di Mozart e a me viene subito in mente Waldo De Los Rios che ha aggiunto percussioni e suoni sincopati in alcuni suoi concerti. “Reinterpretando Mozart lo ha reso popolare anche fra chi mai l’avrebbe ascoltato” ricordo mi diceva Pino Cangialosi, il mio amico direttore d’orchestra. Coco Cano esalta la bellezza del mestiere del direttore d’orchestra: “Da piccolo mi hanno insegnato ad ascoltare, a cercare i diversi suoni, poi alla mia epoca è comparsa la stereofonia che regala un rilievo acustico in cui si riesce a percepire da quali punti specifici provenga il suono”. Ecco che il mio ospite m’incanta descrivendo la potenza della musica: “L’arte di sovrapporre più linee melodiche, il contrappunto, è un eccezionale nutrimento dell’anima”. Mi racconta che la musica lo aiuta a fare un quadro: con l’immaginazione lo vedo mentre, impegnato in un’opera creativa, gode del sottofondo della musica che lo ispira, lo aiuta, lo sorregge nello sforzo d’immaginazione per dare corpo, forma, colore, parole, anima a quello che sente costituirsi dentro di sé. “In passato di sicuro l’arte è stata capace d’infondere stupore che forse oggi non si sa più trasmettere, perlomeno con la stessa intensità”

E’ bello ascoltarlo: parla un italiano perfetto con qualche vaghissimo sentore di quella musicalità tipica di chi parla spagnolo. “Com’è l’Uruguay?” gli chiedo. “Incastonato fra il Brasile e l’Argentina. Scoperto dai portoghesi che contesero questa terra agli spagnoli, i fondatori di Montevideo, la capitale più a sud di tutte le Americhe. Gli indigeni s’opposero con così tanta fierezza ai primi tentativi di colonizzazione che poi furono completamente sterminati dalla rabbiosa reazione spagnola. Così, a differenza del Brasile e dell’Argentina, in Uruguay non restò alcun ceppo indigeno. Nella prima metà dell’Ottocento, l’Uruguay si conquistò l’indipendenza, sostenuto in ciò dagli inglesi che avevano un interesse strategico nel controllare tutte le rotte dal Sud America all’Europa” “Anche l’Uruguay divenne in breve terra d’emigrazione europea, vero?” “Nella seconda metà dell’Ottocento quasi il 70% della popolazione era immigrata dalla Francia, dall’Italia, dalla Spagna e perfino dall’Europa dell’est”

La formazione artistica all’Accademia delle belle arti di Montevideo

“Questo ha condizionato la vostra cultura, immagino” “Per forza: tutta questa cultura europea aveva delineato i nostri processi scolastici di formazione: studiavamo il latino, il greco. Questa fino a 50 anni fa era la nostra cultura su cui si sono poi innervati altri contributi autoctoni come la musica proveniente dalle campagne che accompagnava il Carnevale nero tipico locale, intrecciandolo col Carnevale bianco proveniente dalla tradizione europea, di Cadice” “E la pittura?” “Ho frequentato l’Accademia delle belle arti prima che venisse chiusa dai militari. Lì ci insegnano l’arte davvero: il loro obiettivo era insegnarci a guardare e ad essere sensibili. Ci insegnano a capire che la prima cosa deve essere il piacere di guardare”. “Qual è lo stile a cui si ispira?” “Io cerco di raccontare. Oggi ho uno stile riconoscibile ma la questione dello stile non è mai stata una mia ossessione. Conosce Joaquin Torre Garcia? Anche lui nasce a Montevideo da genitori catalani. Va a studiare a Barcellona e poi a Parigi. Qui lavora negli anni ’20 con Kandinskij e con Mondrian sviluppando nella sua ricerca pittorica una filosofia di vita: per lui l’individuo è subordinato alla totalità. Divide il paesaggio sulla base della sezione aurea che da sempre ha suscitato nell’uomo la ricerca di un rapporto tra universo e natura, tra il tutto e la parte. Opera così infinite suddivisioni alla ricerca della sintesi, dove bellezza e armonia si compenetrino. Quindi schematizza lo spazio strutturandolo in tanti quadrati. Ecco allora la magia dell’intreccio fra gli elementi base: la terra con la luna, fonte d’energia. Le stelle indicano il cammino; l’uomo e la donna l’amore”

“Ma Torre Garcia resta in Europa?” “No, dopo l’ultima guerra torna in Uruguay e qui apre un suo studio. Crea un gruppo di lavoro fatto da molti artisti, tutti influenzati da lui. Ha una lettura tutta sua del sud del mondo: rovescia in un suo famoso quadro la cartina del Sud America, opponendosi così alla visione tradizionalista che fa del Sud un’area depressa”

Quell’attrazione per le origini: il mito dell’Europa

“Certo che a Nord la ricchezza, in tutti i sensi, è maggiore” “A noi l’Europa piace, noi latino-americani siamo a sud dell’Europa, ne siamo attratti. Il nostro Paese ha accolto tanti valdesi, tanti protestanti. Anch’io, come tutti i miei compatrioti, ho ricevuto una formazione cattolica ma impregnata di quel cattolicesimo dal sapore più “laico”, come mi sembra lo interpreti Papa Francesco oggi. Noi giovani uruguayani alla fine degli anni Sessanta, cogliamo l’elemento di aiuto al prossimo declinandolo soprattutto sotto l’aspetto del sostegno materiale, economico. Ho vissuto la mia gioventù in parrocchia dove però con i miei compagni non andavamo a giocare a carte. Noi abbiamo vissuto quell’epoca consapevoli di avere una funzione sociale, attenti ai bisogni dei più umili, dei diseredati, dei dannati della terra. Il mio quartiere, quello dove sono cresciuto era alto borghese. Le nostre famiglie benestanti confinavano però con un quartiere miserrimo. Per noi, poco più che adolescenti all’epoca, è venuto naturale sviluppare una profonda sensibilità verso la questione sociale. Lavoravamo per aiutare. In quegli anni divampava un forte scontro sociale. Così noi giovani cattolici, impregnati di questo profondo spirito sociale, aderiamo al movimento armato. Noi cattolici sposiamo questi ideali di militanza politica. Questo è per noi uno sbocco naturale, un passaggio semplice”

Gli anni del golpe militare in Uruguay, la presa di coscienza politica, il carcere

“Quindi s’impegna nella lotta politica?” “Noi studenti veniamo distribuiti nei quartieri; facciamo comunicazione sui muri: siamo completamente squattrinati: i muri sono le nostre tele più a buon mercato. La mia funzione è di riportare la bellezza nella protesta. Alcuni estremisti fra noi vogliono puntare solo alla politica, non alla bellezza. Ma io non sono d’accordo. I compagni più puri sembrano guardare il mondo ma in realtà non lo vedono più per quello che è. Siamo impegnati in una battaglia durissima. Patiamo una dura sconfitta. Il perché è sotto gli occhi di tutti: l’Uruguay è sì un paese piccolo ma strategicamente molto importante. Gli Stati Uniti non possono fare a meno di dominarli in un’epoca di guerra fredda. Il predominio Usa nel continente è benissimo raccontato da Costa Gravas, che nel 1973 denuncia l’appoggio dato dagli USA ai regimi autoritari del Sudamerica. Nel film “L’Amerikano” tratta il rapimento di Anthony Dan Mitrione, ex capo della polizia di Richmond divenuto per conto della C.I.A. “consigliere” U.S.A. di varie polizie sudamericane, il quale venne rapito e ucciso dai guerriglieri in Uruguay. Il film fu girato nel Cile di Allende, poco prima del colpo di stato di Pinochet, anch’esso organizzato dagli Usa”.

“Eh già. La dottrina Monroe” “Se lo immagina? Cuba, stato comunista, incuneato nel Golfo del Messico, dove Fidel Castro governava, doveva essere fronteggiata: sicché gli USA risposero praticamente occupando negli anni Settanta Cile, Argentina ed Uruguay. Noi oppositori abbiamo un progetto ben concepito, ma siamo male armati e subiamo una repressione molto forte. Basti pensare al Cile dove Allende l’11 settembre del 73 fu ammazzato o all’Argentina dove sotto la dittatura dei generali dal 1976 al 1983 si contarono più di 30.000 desparecidos. Anche in Uruguay la situazione è tremenda: vantiamo infatti un triste primato con la percentuale più alta di prigionieri politici in relazione alla popolazione complessiva.”

“Quando presero il potere i militari in Uruguay?” “il colpo di stato avvenne il 27 giugno del 1973. La dittatura chiuse il parlamento e attaccò i Tupamaros, praticamente sterminandoli. Dopo il colpo di stato Josè Pepe Mujica, il nostro futuro presidente, assieme ad altri nove dirigenti del movimento fu rinchiuso in un carcere militare per quasi dodici anni, la maggior parte dei quali trascorsi in completo isolamento in un braccio ricavato da un pozzo sotterraneo. Questa decina di combattenti furono considerati ostaggi che in caso di ulteriori azioni militari dei Tupamaros in libertà, sarebbero stati immediatamente fucilati. Chiuso in un pozzo, i militari, visto che non possono ucciderlo, provano a farlo impazzire, Mujica resiste: lui parla con le formiche”

Quest’immagine m’assale. Dodici anni, centomila ore. Rinserrato in un budello. Com’è possibile resistere?

La fine della dittatura: il referendum nel 1980 e il ritorno della democrazia nel 1984

Coco Cano continua: “Anch’io in quegli anni ho patito la galera e la tortura, cercando scampo nella clandestinità. Ma ciò nonostante ho vissuto quegli anni sapendo che fuori c’erano i nostri compagni che combattevano e non smettevano di lottare. Questo ha costituito un ben saldo ancoraggio alla speranza: c’era un progetto che alimentava il nostro sogno, e ciò ci aiutava a sopravvivere” “Eppure l’Uruguay ha una forte tradizione democratica” “Già ai primi del ‘900 nel mio Paese si sono ottenute straordinarie prove di democrazia ed apertura sociale: le 8 ore, il suffragio universale maschile e femminile, l’uguaglianza uomo – donna, sanità e scuola pubblica. Nel primo ventennio del secolo fu abolita la pena di morte ed introdotto il divorzio. Completa fu anche la divisione fra Stato e Chiesa” “Come se lo spiega?” “I militari che fanno il colpo di stato e prendono il potere sono comunque riluttanti ad azzerare totalmente la democrazia. Dal 1976 il regime incominciò un lento tramonto: un chiaro segno ne fu la sconfitta nel 1980 al referendum sulla modifica della costituzione: il 57,2% dei voti furono contrari. Questo dimostrava l’impopolarità del governo militare, accentuata dalle difficili condizioni economiche e nel 1984, dopo una protesta generale durata 24 ore, i militari annunciarono il ritorno del potere ai civili. Ovviamente il primo governo che si costituisce è vicino ai militari, però comunque riconosce tutti i diritti ai prigionieri politici che vengono liberati. Il governo di unità nazionale si propose la ricostruzione del Paese”

Breve ricordo dell’ex presidente Pepe Mujica: “Lui coltiva fiori, non la vendetta”

“E Pepe Mujica?” “Pepe è un ex tupamaro, che alle elezioni del 1994 fu eletto deputato e dichiarò di sentirsi come un fioraio in parlamento” “Ma non era pieno di rabbia? Non ardeva dalla voglia di vendicarsi dei suoi torturatori?” “Lei non lo conosce evidentemente” “Ho letto di lui che si era ridotto lo stipendio da parlamentare e da presidente, che viveva in modo austero. E’ stato definito il Presidente più povero del mondo. Addirittura, guidava un vecchio Maggiolino che aveva più di trent’anni” “Del suo appannaggio tratteneva solo 800 euro che comunque, diceva, erano assai di più di quei soldi che altri disgraziati prendevano. Comunque, Pepe non predica l’austerità, bensì la sobrietà. E’ nel vivere sobri che si è davvero liberi, senza dover rincorrere tutte le seduzioni che ti propina la società dei consumi. Pepe detesta lo spreco tipico della voglia d’accumulare, d’affastellare, di aggiungere oggetti, merci, cose le une sulle altre, in una corsa senza fine” “Lo ammiro davvero. Ma ancora non riesco a rendermi conto del perché non prese misure draconiane contro chi aveva inflitto tanto dolore, a lui e tantissimi altri compagni?” “Jose Pepe Mujica non si vendicò mai. Diceva di non avere tempo per il rancore, ha troppe cose da fare. Lui coltiva fiori, non la vendetta”.

La fuga in Argentina, e poi in Europa. Coco Cano sbarca a Barcellona

“Lei può tornare così ad occuparsi d’arte?” “Per la verità, ancora sotto la dittatura, il movimento mi trasferisce in Argentina da cui riesco a scappare e mi rifugio in Europa. Mio padre è catalano. Mia madre portoghese. Tanti di noi fuggiti dalla dittatura, vivono ora in Spagna. A Barcellona la cultura fiorisce e per gli artisti argentini ed uruguagi è un paradiso terrestre. Io a quell’epoca ho 24 anni. Mi accorgo ben presto che l’ambiente è malato. Gli esuli continuavano a dire che avrebbero dovuto tornare in patria a fare la rivoluzione, ma nel frattempo restavano lì e non facevano niente. Io voglio diventare migliore, così taglio col mondo dell’esilio. Vado a fare la vendemmia in Francia. Arrivo a Berlino nel 1976. Ho visto lì per la prima volta la neve e un soldato russo. Vado poi in Italia a trovare degli amici che erano stati miei ospiti in Argentina. Arrivo così a Torino. Mi viene offerto un lavoro come musicista. Musica popolare. Lì conobbi Giuliana. Ci sposiamo. A Torino studio fotografia e tecniche di stampa. Mia moglie insegna educazione fisica. Cerchiamo un alloggio e scopriamo che a noi e ai meridionali a Torino non si affitta. Per cui veniamo qui a Carmagnola dove Giuliana insegnava”

La fuga in Argentina, e poi in Europa. Coco Cano sbarca a Barcellona

“Così il Piemonte s’è rivelato per lei una terra ospitale” “Avrei potuto vivere a Parigi, in una grande città, ma allora mi sarei messo a guardare tutto, qui invece con meno distrazioni, mi concentro. Poi incontro Carlo Petrini, il fondatore dell’associazione slow food che non solo mi organizza la prima mostra nel 1982 nelle Langhe, mi introduce anche nel meraviglioso mondo del vino. Adesso faccio anche il Creative Manager per l’Azienda agricola Correggia per la quale disegno le etichette dei loro preziosi vini”

“Mi sembra che si sia perfettamente integrato in questa terra. Non le capita mai di tornare in Uruguay?” “Una volta trascorrevo 6 mesi in Italia e sei mesi in Uruguay. In occasione di un mio ritorno in patria, conosco un medico. Questo uomo straordinario dirige il vecchio ospedale dei poveri che era nato nell’800. L’edificio sorge nella zona del porto, zona malfamata. Questo medico che dirige l’ospedale è un neuro chirurgo all’avanguardia, un visionario. Mi chiede di contribuire a rendere gli ambienti più in linea con la sua idea di cura, di accudimento, di attenzione alla malattia. Per fortuna c’è una gara di generosità: il governo del Giappone ha finanziato un intero piano dell’ospedale. Sicché mi butto a pesce: progetto un corridoio tutto di vetro, decorandolo. Illuminato, la notte si vede. Poi affresco con tutti i miei colori i muri dei corridoi che la gente attraversa per andare in sala operatoria. Vorrei tanto che chi s’avvia a subire un’operazione possa entrare in sala con gli occhi pieni di vita, di entusiasmo, di forza. In questo ospedale le divise dei medici e degli infermieri erano mie creazioni. E poi coordino tutti gli utensili più svariati: dai vassoi, ai secchi della nettezza e naturalmente dipingo tanti murales. L’ospedale serve a curare mica solo i corpi, non crede?”

“L’arte deve parlare da cuore a cuore, senza bisogno di troppe spiegazioni: come un amore a prima vista”

“È questa allora la sua funzione? Grazie all’arte, lei si propone di dare una mano alla gente?” “Mi sento un po’ come uno sciamano, uno che dispone quasi di un potere magico. Ho il privilegio di trarre spunti all’immaginazione. I pezzi migliori li ho fatti sentendoli. La mia mano è andata per conto suo. La mia mano è stata guidata dal cuore. Una signora recentemente era venuta a trovarmi. Cercava un quadro. Quando ha visto un determinato pezzo, è scoppiata a piangere. Ecco quello che cerco. Se io riesco a trasmettere energia con il mio lavoro, allora questo ha più senso, perché un’opera deve parlare da cuore a cuore senza bisogno di troppe spiegazioni, deve essere una sensazione, come un amore a prima vista».

Coco Cano: l’uomo a cui la gente di Carmagnola, quando lo incontra con sua moglie, parla in piemontese, in italiano a sua moglie. Coco Cano: l’empatia fatta persona. Sono contento perché lo incontrerò ancora e così rinnoverò questa sensazione di “pace tumultuosa”, di “calma furibonda”, di cromatismi bellissimi che fanno pensare a spazi sconfinati come l’infinita distesa dell’oceano o l’incessante susseguirsi delle colline, posti in riquadri che non limitano, semmai dilatano gli spazi.