Lasciate ogni molletta, vite, dado o resistenza o voi ch’entrate!

Entro nel Nautilus

Parcheggio la moto in via Pannonia, proprio davanti a un bel palazzo. Chiedo indicazioni alla portiera: fa la faccia un po’ sorpresa, poi sembra riaversi e mi indica una porta “laggiù, in fondo al cortile.” Qui tocca a me smarrirmi: che ci fa qui la porta di un sommergibile con tanto di oblò e munita di un ampio volante come maniglia d’apertura? Mi riceverà il capitano Nemo? Boh! M’immergo: scendo tre o quattro scalini. Sono accolto in una caverna delle meraviglie: i soffitti sono lassù in cima, altissimi! da un gancio pende, ben più in alto della mia testa, una bicicletta. Attorno alle colonne di questo spazio, vasto come un tempio e lungo tutte le sue pareti, s’arrampicano scaffalature metalliche zeppe di materiale bene ordinato, dalla facile accessibilità e con etichette che spiegano di che si tratta. Per gente che se ne intende, mi vien da dire, perché io qui letteralmente annaspo e mi perdo. M’appoggio a dei grandi tavoli da lavoro che sembrano galleggiare in questo vasto mare.

I tre signori che presidiano questi spazi saranno dei palombari? – fo tra me e me. “Buongiorno, bene arrivato. Io sono Emanuele, lei è Roberta e lui è Filippo.” “Buongiorno a voi. Che combinate qui? Che cos’è questo posto? Un centro recupero di oggetti metallici, meccanici ed elettronici?” “Questa, caro lei, è la sede dello ‘Smonting’” Non so che dire. Sembrano proprio convinti i miei ospiti. “Qui s’impara ad entrare dentro l’anima delle cose.” – Ah ecco! Macché palombari. Ora ho capito. Questi qui devono essere una specie di sacerdoti animisti. Mi sa che davvero siamo in un tempio. D’altronde, è noto, la prima impressione è quella giusta, no? Difficile mi sbagli! Ora tutto si spiega: vedi la bicicletta appesa al soffitto? Gli animisti, anche quando parcheggiano, fanno pensieri elevati. Comunque, i miei ospiti non mi danno l’impressione d’essere dei fanatici integralisti, sicché mi rilasso. Loro mi sorridono, assai ospitali e per nulla pericolosi. “Bello – fo assolutamente rassicurato – in pratica, che fate?” “Insegniamo a smontare le cose, in maniera giocosa e collaborativa.” “Nulla si crea. Nulla si distrugge. Tutto si trasforma.” Mi lascio andare alla citazione con un po’ di supponente condiscendenza. Mi guardano appena e con benevolenza mi spiegano lo scopo di questa loro straordinaria organizzazione.

Qui si smonta per capire, conoscere, migliorarsi

“Prima di tutto vorremmo che lei si rendesse conto che questa è davvero una significativa esperienza formativa: svitando, sbullonando, scomponendo un oggetto comune come potrebbe essere un phon malandato, un vecchio televisore, qualche pc non più alla moda, tanto per fare qualche esempio di oggetto concreto ma non ci limitiamo solo a questi, si sollecita osservazione e autocontrollo in chi maneggia il cacciavite, grande o piccino che sia.” “La persona o il cacciavite?” Intercetto uno sguardo un po’ perplesso: mi sa che ho esagerato. Allora indosso la faccia pensosa e intelligente: “Scusate, in che senso formativa? Ve lo chiedo perché io, ogni volta che m’azzardavo a smontare un giocattolo che i miei mi regalavano, me ne dicevano di tutti i colori e m’assicuravano che non me ne avrebbero comprati mai più nessuno, visto le condizioni in cui li riducevo. Così ho imparato a tenere le mani lontane da cacciaviti e aggeggi consimili. Oh sì, questo l’ho imparato proprio bene.” “Guardi che smontare non significa rompere. Qui si insegna a maneggiare gli attrezzi nel modo giusto, cauti, lavorando insieme ad altri e con la supervisione di un coach”

“E che si vince?” Ora gli sguardi, pur restando benevoli, sembrano farsi un po’ più penetranti, quasi da estrattore, avete presente? “No, lei è fuori strada. Qui non c’è alcuna forma di competizione. Diciamocelo, anche lei sarebbe in grado di smontare un oggetto, non crede?” “Beh, credo di sì, purché poi non debba rimontarlo” “Questo è un altro aspetto che vedremo poi. Capisce bene che smontando insieme agli altri senza alcuna barriera che ci divida in termine di età, di abilità o di ruolo, tutti alla pari, si stringono relazioni interpersonali, ci si osserva, si impara uno dall’altro.”

Comincio a capire: “Ma allora voi siete dei formatori.” “Bravo, questo infatti è il nostro mestiere. Ci occupiamo di come le persone imparano. Noi sosteniamo che ‘facendo cose’ s’apprende meglio” “Siete dei cultori dell’attivismo pedagogico?” “Lo sa perfettamente che il bambino, ma anche l’adulto, se è coinvolto da protagonista nel processo di apprendimento, impara e capisce meglio”. “Ma certo: meno teoria e più pratica. L’ho sempre detto. Ho fatto il liceo classico. Fra le materie di studio c’era la fisica. Ho sempre creduto, chissà come mai, che un chilo di ferro pesasse di più di un chilo di cotone. Non mi hanno portato mai in qualche laboratorio a fare esperimenti. Eppure, nel mio liceo c’era la ‘stanza delle esperienze’, il gabinetto di fisica. Però era considerato come il salotto buono ai miei tempi: chiuso a chiave, inaccessibile a chi abitava la casa perché riservato solo agli ospiti. Un salotto, per così dire, di rappresentanza. Nessuno m’ha fatto vedere il processo dell’acqua che bolle. A casa perché era pericoloso avvicinarsi ai fornelli e a scuola perché non avevamo a disposizione un laboratorio. Il professore parlava e disquisiva di cose che non riuscivo a vedere, a toccare.” “Proprio per questo noi ci serviamo dell’esperienza diretta: in questo modo i bambini, ma non è solo una questione di età, chiamiamoli dunque gli allievi, facendo le cose con le mani, impiegando i sensi, si fissano meglio nella mente le idee e i concetti, ne assimilano le implicazioni, imparano a fare collegamenti e correlazioni, sperimentano: interiorizzano la comprensione e, in una parola sola, imparano ad imparare”

Gli automatismi non funzionano

“La cosa più importante, tuttavia, è che con l’approccio Smonting noi assicuriamo la giusta combinazione fra fare e pensare così gli allievi acquisiscono consapevolezza di ciò che stanno facendo.” “È giusto. Qui non si parla di addestramento ma di formazione. Facendo direttamente, con le proprie mani, le persone osservano, ragionano e lavorando insieme si confrontano per cui qui allo Smonting – mi par di capire – pensiero e azione si coniugano perfettamente e fra l’altro valorizzando la dimensione sociale. Sentite un pò, non avete mai pensato di creare dei veri e propri interventi di formazione rivolti alle Aziende?”

“Ovvio che sì. Noi pensiamo che questo approccio orienti davvero le persone alla creatività e alla fantasia: pensi infatti a oggetti assemblati con pezzi provenienti da tanti altri fatti magari con materiali disomogenei. Questo come primo punto. L’altro, non meno importante è che ‘provando e riprovando’ sbagli innumerevoli volte; quindi, analizzando il processo, impari davvero. Questo aspetto ci sembra particolarmente importante perché smentisce il detto ‘chi non fa non falla’ promuovendo piuttosto quest’altro: ‘imparo perché sbaglio’.”

“Già, smontando un oggetto se ne percepiscono le qualità, si intuisce la logica con cui è costruito, ci si allena a vedere ed immaginare altri usi per i pezzi che vengono recuperati, il tutto in una dimensione di flessibilità che è la parola d’ordine: smontando le cose ne capisci il senso ed il valore.

“E questo è l’altro aspetto rilevante: il Covid ci ha obbligato all’isolamento. La DAD ci ha mostrato in tutta la sua crudezza quanto sia importante la dimensione sociale dell’educazione”

“C’è anche un altro fattore importante che a noi sembra chiaro: educando al riuso a scapito dello scarto, promuovendo l’orientamento al riciclo e al recupero, vogliamo contrastare l’approccio consumistico. Per offrire ai partecipanti l’opportunità di tessere relazioni, di usufruire di stimoli che amplino le proprie facoltà personali, le abilità pratiche, le competenze intellettuali, lo scambio intergenerazionale di sapere, gettando uno sguardo diverso su quello che viene ritenuto “rifiuto”, cogliendone l’impatto sull’ambiente, gestendone lo smantellamento in gruppo, si persegue il recupero consapevole di materie prime o il riutilizzo creativo di ciò che si è disassemblato. Se recuperi, contribuisci a migliorare l’ambiente. Cosa fa quando in casa sua qualcosa non funziona più?” “Chi? Io? Ah, lo butto” “Nemmeno prova a ripararlo?” “Figurati!” “Però immagino s’indigni a vedere montagne e montagne di rifiuti che trasformano tanto spesso le nostre città in orrende discariche” “Beh …” Che dire: m’hanno chetato.

Questi bravi signori hanno applicato le stesse tecniche dello ‘Smonting’ nei miei confronti: togli una certezza lì, svita un’idea preconcetta là, allenta quel dado con un po’ di svitol, ecco che piglia forma un’altra persona. Qualche giorno dopo incontro il babbo di Emanuele, uno dei palombari – sacerdoti dello Smonting Club. Un’altra persona che sa dove mettere le mani.

Un incontro singolare nella caverna di Alì Babà

“Anche lei signor Ettore, è un adepto della congrega ‘Smonto, separo e accantono’?” “No io faccio presepi” “Quelle statuine come fanno a Napoli per Natale?” “Tipo.” “E dove li realizza, qui?” “No. Nel mio laboratorio. Comincio a prepararli a settembre. Prima li facevo per i miei figli, adesso per i nipoti. Preparo sempre un presepe diverso con una statuina nuova ogni anno.” “Qual è la particolarità di queste statuine?” “Le statuine che realizzo io si muovono.” “E come?” “Le faccio muovere coi motorini dei micro onde a 220 volt, che fanno 6 giri al minuto” “Ecco perché allora bazzica la caverna del ‘vieni qui che ti smonto’? In questa caverna delle meraviglie, in questo santuario dell’elettronica eterna, di sicuro trova di che alimentare un esercito di pastori, Magi e greggi penso, no?”

Il signor Ettore è un signore che non dimostra davvero la sua età: ottantasei anni portati da prestante granatiere che non si irrita per qualche sciocca battuta. Ne ha viste e sentite di ben altre. Mi racconta che proprio di recente ha deciso di andarsene in pensione. “Che cos’è che l’ha spinta?” “Mah! C’erano dei bulgari che m’avevano preso di mira” “L’avevano preso per un turco, un tradizionale nemico del loro paese?” “Non ce l’avevano con me personalmente, bensì con i negozi che gestivo” “Non capisco, mi spieghi meglio per piacere” “Questi bulgari avevano cominciato ad assaltare con una certa regolarità i miei 19 negozi di vendita oro, preziosi e gioielli situati perlopiù nei centri commerciali.”

“Come fa a sapere, scusi, che i ladri eran proprio bulgari? Faceva loro un esame linguistico?” “Bulgari ma soprattutto stupidi. Durante il primo assalto che compirono contro uno dei miei negozi, uno di questi gentiluomini perse il telefonino con tutti i suoi dati, sicché non fu difficile ricostruirne l’identità e la provenienza. Le telecamere di sorveglianza poi documentavano le loro imprese: erano sempre i soliti in azione.” “E non era possibile intervenire?” “La vigilanza aveva ordini precisi e perentori per non rischiare di aggravare il pericolo di ogni situazione.”

I primi passi nel lavoro

“Prima di occuparsi di oro, gioielli e preziosi e di bulgari fin troppo propensi a sgraffignarglieli, che ha fatto? Dai, mi racconti” “Sono nato a San Giovanni in Persiceto.” “Ah, la patria di Liana Orfei, l’attrice di cinema e televisione, notissima nell’ambiente circense” “Sì, va bé. Mio papà era uno chef …” “Ecco vede? Un’artista dei fornelli” “Comunque riusciva a farci stare bene. Non che fossimo ricchi, ma, dati i tempi, rispetto a tanti altri, godevamo di un certo benessere” “Avverto una certa esitazione. Dev’essere successo qualcosa di terribile.” “Eh sì. C’era la guerra. Così, con tutta la famiglia per scampare ai bombardamenti, ci rifugiammo a Misano mare, in provincia di Rimini.” “E lì vi è capitato qualcosa di brutto?” “Per fortuna è andato tutto a finire bene, ma lo spavento fu tremendo!” “Che successe?” “A un certo punto i tedeschi portarono via mio padre ma un caccia inglese mitragliò il camion a bordo del quale lo stavano trasportando chissà dove assieme ad altri prigionieri. Il camion si ribaltò e mio babbo fu svelto a scappare. Riuscì dapprima a nascondersi e poi a tornare a casa. Pensi che per fare un chilometro ci impiegò sei ore” “Come dire: mezz’ora per percorrere tutta la lunghezza di una stanza.”

“Ricomposta la famiglia, finisce la guerra e lei che fa?” “Sono andato a scuola come tutti i ragazzi della mia età. Al secondo anno di ragioneria mi son fermato, non ho mai amato studiare, preferivo lavorare. Così mi sono impiegato presso un ingrosso di maglieria e andavo a vendere la merce nei negozi. Nel 1950 avevo 14 anni: con una bicicletta dotata di un portapacchi davanti e di uno dietro andavo a fare le consegne presso i negozi in un territorio che piano piano s’avviava alla ripresa.” “Se ne vedono tantissimi anche oggi di giovanotti che fanno codesto mestiere.” “Per fortuna questi mezzi oggi hanno la pedalata assistita e sono anche parecchio agili, non hanno proprio nulla a che vedere con quei ‘cancelli’ che io mi trovavo a spingere, tutti di ferro, pesanti un accidente e che mi facevano sudare come una fontana.” “Meno male che operava su Bologna, città senza dislivelli.” “Oddio, le colline a Bologna ci sono, eccome, ma fuori dal centro, abituale mia zona d’attività. E comunque spingere con la forza delle sole gambe biciclette pesanti come camioncini, le assicuro non è una passeggiata di salute.”

“Io avevo una gran voglia di lavorare per affermarmi e diventare autonomo. Ebbi, all’epoca, un grande maestro.” “Chi? Fausto Coppi?” “Un contrabbandiere di sigarette triestino che poi fondò la Perla.” “Ma non fu una famosa sarta, la signora Masotti, a fondare quella società?” “Senta io c’ero. Non discuto che a livello di storia documentata si parli di ‘forbici d’oro’, il soprannome che poi fu dato alla signora Masotti per celebrarne la grandissima abilità. Quel che so è che a me il mestiere me l’ha insegnato questo figuro, bello e dannato che per gli articoli che trattava, destinati ad esaltare la bellezza femminile, faceva stragi di cuori.”

Il dialetto romagnolo

“Aveva il tipo immagino un grande ascendente su di lei.” “Hai voglia! Fatto si è che mi disse di cambiare mestiere e lasciare perdere le consegna a destra e manca per la città.” “Che cosa le consigliò di fare?” “Mettermi nel settore dell’abbigliamento. L’Italia ripartiva e c’era spazio per gente intraprendente. Sicché m’impiegai presso Aldo Negri che era specializzato nella produzione di abbigliamento per bambini e per neonati. Pensi che mi dette la rappresentanza per tutta l’Emilia-Romagna della sua produzione. Io conoscevo a menadito la zona fra Parma e Bologna sicché, come la ciliegina sulla torta, me la lasciai da ultimo per godere solo alla fine il massimo del piacere. M’avventuro così per la prima volta in Romagna, territorio che ignoravo del tutto sia da un punto di vista geografico, sia da un punto di vista linguistico.” “Un’altra lingua rispetto all’emiliano.” “Sorbole! Proprio. Quanti ‘Valà Patacca ciò’ mi son beccato. Perché i romagnoli hanno uno spiritaccio arguto e ti tagliano i panni addosso. Pigliano in giro e si fanno beffe di te. Mica per cattiveria, ma proprio per quello spirito mordace che hanno.” “Va bè, ma al di là del dialetto dove ho presente quella strana accentuazione che fa sì che tronchino quasi tutte le vocali finali, com’è andata?”

“È andata che fo tutta la zona da Pesaro a Bologna senza battere chiodo!” “Com’è stato possibile?” “Ho pagato lo scotto dell’inesperienza, della gioventù. Mi ricordo lo sconforto che mi prese a Faenza quando, non glielo nascondo, avvilito, amareggiato mi sentivo così scoraggiato che scoppiai a piangere con un panino in mano. Mi dissi però che ce l’avrei dovuta fare. Un amico dell’Antoniano mi venne in aiuto” “L’Antoniano? Quello dello Zecchino d’oro? Sapeva anche cantare?” “La smetta! L’Antoniano è un’istituzione benefica fantastica messa in piedi da frati minori, i francescani che nei primi anni ’50 misero su una mensa per i poveri ed altre iniziative assistenziali. Poi s’occuparono anche di attività relative alla produzione televisiva e discografica. Fra queste appunto lo Zecchino d’Oro che lei ricordava” “Ma lei che c’azzecca coi francescani?” “All’Antoniano facevo il vice addetto stampa. L’allora responsabile di questo servizio era padre Gabrielli: persona così in gamba che riuscì a farsi regalare un banco di regia del valore di 600.000 dollari. Questo frate riusciva ad intercettare donatori che facevano a gara per dare soldi all’Antoniano. Non so se lo sapeva: tutti i giorni i frati mettevano a tavola 330 persone e riuscivano ad assicurare un alloggio per i poveri.”

L’evoluzione della carriera professionale

“Fu proprio padre Gabrielli che s’interessò a trovarmi un lavoro.” “In pratica le fece incontrare qualcuno? “Sì. Il Conte Marescotti, proprietario di una ditta produttrice di saponi e candele fin dal 1867. In quell’azienda cercavano un ispettore.” “Insomma, comincia a diversificare?” “In termini di esperienza, di certo: passo dalla biancheria intima, all’abbigliamento e da questo alla chimica organica. Ma continuo a seguire l’ambito commerciale. Nostre clienti erano le più grandi società italiane: per esempio a Prato per cardare la lana servivano i nostri prodotti, così a Torino la Fiat ci scelse per il reparto carrozzerie. Il grande salto lo feci nel 1956, quando diventai direttore dello stabilimento.” “Ad appena vent’anni?” “Mi davo da fare. Non nel modo in cui si dava da fare il beneamato conte. Pensi che quest’uomo, fino ai 60 anni quando si sposò, passava da un’avventura di letto all’altro. Lui era bello, pieno di soldi. Era generoso e allo stesso tempo bizzoso. Si incaponiva per delle sciocchezze. Chissà, forse questa sua stranezza gli veniva dall’essere un nobile: il casato dei Marescotti era celeberrimo a Bologna fin dal medioevo. Può darsi che il conte non fosse un genio dell’imprenditori ma in famiglia c’era suo fratello che faceva per due!”

“Mi pare sia un classico delle famiglie imprenditoriali italiane dove nella fratria uno si distingue per certe capacità ed un altro invece mette in mostra tutt’altro tipo d’inclinazioni.” “Di sicuro il conte era un uomo dagli ampi orizzonti, dall’immaginazione senza confini. Spaziava infatti tra cielo e mare. Sapeva pilotare l’aereo, aveva un quadriposto e alla marina di Ravenna teneva un motoscafo da crociera.” “Quindi in azienda lo si vedeva poco, immagino” “Immagina bene. Veniva soprattutto a fare il pieno di risorse economiche.” “Cioè bussava a cassa?” “Appunto. Il conte ha fatto la bella vita fino ai 60 anni quando si sposa con una trentenne, anch’essa nobile ma ora decaduta.” “Ma perché mai un uomo che ha condotto una vita così brillante e sfrenata, all’improvviso ‘mette la testa a partito’?” “Voleva un figlio: il conte ha imperversato come un grand viveur e ora gli piglia la fregola di lanciare un pezzo di sé nel futuro. Vuole un erede per la sua dinastia.”

“Nel frattempo la sua azienda fiorisce e lei con essa, vero?” “Si, ma fino a un certo punto. Succede che Mira Lanza, la nostra più grande concorrente, cerca di raggiungere la qualità del nostro acido stearico utilizzato per la produzione di candele e saponi. Sicché impianta un nuovo stabilimento di produzione dove riescono a ridurre i costi di produzione della metà. Noi restiamo superiori in termini di qualità, non c’è storia, ma la Mira Lanza ci massacra sul fronte dei prezzi e per quanto mi sforzi di far capire in azienda la necessità di muoversi, sono lenti a seguirmi. Finché mi stufo di questa stasi, lascio l’azienda e m’impiego con un’altra impresa sempre operante nel settore chimico. Produciamo, fra le altre cose, una crema speciale derivata dal grasso dei palmipedi, apprezzatissima da dermatologi e da pediatri.”

“Ma dall’accenno che ha fatto agli ori e preziosi mi par di capire che abbandonerà questa impresa. Perché? Sembrava interessante, no?” “A un certo punto l’imprenditore che organizzava anche una squadra piloti di moto da corsa, mi dà l’incarico di seguire questo team e di ascoltare i loro eventuali problemi dal momento che gli erano giunte voci di un certo disagio che serpeggiava nella squadra. Mi persuado che le lamentazioni dei piloti riguardano gli pneumatici e così decido di cambiare le Pirelli con le Metzler. Non l’avessi mai fatto! L’imprenditore si irrita ed io che non sopporto ipocrisie e catena corta e soprattutto l’incoerenza, saluto e me ne vo”

Oro, diamanti e gioielli

“Che cosa trova di interessante da fare?” “Entro in contatto con gente che ha la rappresentanza per l’Europa di lingotti d’oro, diamanti e gioielli. Dopo avermi conosciuto questi personaggi mi consegnano una valigetta ventiquattrore contenente mezzo chilo d’oro, un diamante da un carato e, in più, mi mettono in mano un assegno circolare da 500.000 lire.” “A che serviva l’assegno?” “Volevano affittare un ufficio in via d’Azeglio” “In che anni siamo?” “Nel 1969. Vengo a Milano e qui apro il supermercato dell’oro, assumo venditori e porto il fatturato dell’azienda in un anno da 50 milioni a un miliardo.” “E’ un risultato clamoroso.” “Sì e mi convinco che posso fare da solo. Nel 1970 mi metto in proprio e comincio aprendo un negozio in un centro commerciale a Cinisello e poi un altro a Lodi” “Quando ha smesso?” “Nel 2007” “Sessant’anni di lavoro, giusto? Spazio per qualche hobby, ne ha avuto?” “Sono stato affiliato al gruppo degli speleologi bolognesi, abbiamo scoperto grotte nuove e poi ho giocato a baseball” “E che ne pensa di questa combriccola di smontatori?”

Qui s’avvierebbe tutta un’altra storia: perché l’antro delle meraviglie è una proprietà del signor Ettore che ha riconvertito questa antica officina in uno spazio di creatività e di passione. Gli oggetti ormai superati da un punto di vista tecnologico oppure, come il più delle volte accade, ancora funzionanti ma non più rispondenti alle logiche consumistiche, qui riacquistano dignità per chi non ha bisogno di rincorrere la moda.

L’opportunità è in realtà data alle persone, non tanto alle cose. Uscire dalla logica del rifiuto – oggetto inutile, superato, obsoleto da abbandonare apre scenari incomparabili, orizzonti infiniti per ciascuno di noi che s’avvicina a questa pratica. Svitando, smontando, scollegando libero in me energia propositiva. Posso immaginare e provare a realizzare altre combinazioni, altri impieghi possibili a quel pezzo ora disarticolato.

Credo profondamente che lo ‘Smonting’ sia una vera e propria filosofia di vita: nell’infinitamente piccola, trascurabile vitarella c’è un grande insegnamento. La nostra libertà sta nello scorgere l’interconnessione di tutte le parti, l’una con l’altra. Un po’ come la storia del signor Ettore, viaggiatore come tanti di noi, tutti presi a smontare e rimontare vite e destini.