Lella Fonticoli: l’empatia e la luminosità del grigio

Emanuela Fonticoli, per tutti gli amici Lella, è una signora che non litiga col tempo che passa: lo guarda, commiserandolo. “Ogni età ha la sua bellezza” mi fa. “Qualche volta si nasconde bene” la rintuzzo. “Già: a te converrebbe far crescere di più le sopracciglia per nascondere la calvizie” “Ah, questa? Pare che sia frutto della spremitura delle meningi” “Beh, quindi tu sei l’eccezione della regola?” Definitiva. Così mi cheta. Conversare con lei è spesso un esercizio d’arguzia in cui non è raro soccombere.

Non solo paura: il lockdown come occasione per reinventarsi e aprirsi al mondo

Il tutto nella piacevolezza di uno sguardo che accoglie e provoca, mai disposto a compiacere. “Piuttosto …” “Piuttosto cosa?” “Piuttosto spiegami cos’è questa tua Zona Grigia. Lanci una nuova moda di colorazione delle chiome?” Siccome ha afferrato il telefono, temo per la mia incolumità. In realtà se ne serve, per farmi vedere in dettaglio la bellezza della sua iniziativa. “All’inizio del lockdown ho pensato a come se la sarebbero cavata quelle migliaia di persone, semplicemente impiegate in attività routinarie, abituate a scambiare la loro prestazione contro uno stipendio, lavorando in strutture familiari, agili e snelle” “Nel momento in cui non si può uscire più di casa, questi piccoli esercizi, ti sei chiesta, come faranno a tirare avanti?” “Sì, ma non ho pensato solo a loro. E gli autonomi? Gente di teatro, ristoratori, musicisti, agenti di viaggio, creativi impegnati nel curare eventi, tutti professionisti che vivono per fornire servizi ad utenti che il servizio in genere lo consumano insieme, che avrebbero fatto ora che gli assembramenti sono vietati?”

Aiutare gli altri per il semplice piacere di farlo

“Ho visto che molti hanno imparato ad utilizzare il web” “Il cappuccino come glielo servo signore? Lo preferisce su Tik tok o su Instagram?” “No, va bè, si sono organizzati con l’asporto” “Certo, come no? Mi dà il suo indirizzo signore che le porto un po’ di sabbia delle Maldive?” “Va bene, capisco, ma tante professioni hanno saputo reinventarsi” “E chi questa capacità non l’ha avuta?” “Magari sarà andato in cerca del credito” “Ancora: ma pensa a tutte le persone che non hanno mai avuto bisogno di affacciarsi a questi mondi, dai quali addirittura sono spaventati, o che non hanno il coraggio, la capacità di chiedere sostegni e supporto?” “Uhm, mi rendo conto. E quindi?”

La riscoperta della comunità: nasce il gruppo Facebook “La zona grigia”

“Quindi ho pensato di realizzare un contenitore di offerte di lavoro, scovate da noi” “Hai messo su un’agenzia di collocamento?” “Niente affatto. Siamo andati a cercare quelle opportunità che comparivano in rete e abbiamo fatto loro da cassa di risonanza, da moltiplicatore della comunicazione” “Che altro?” “Abbiamo cercato anche di mettere in contatto domanda e offerta nel mondo dell’arte, dello spettacolo per tenere viva l’attenzione verso attività ricreative per i fruitori penalizzati nelle proprie legittime aspettative di un po’ di svago e promuovere l’offerta di specialisti costretti, loro malgrado, a disertare gli abituali palcoscenici.”

Una stanza online dove trovare offerte di lavoro selezionate (e una voce amica)

“Bello. Quante persone hai raccolto attorno a te?” “Quasi duecento” “Complimenti” “L’invito a chi aderisce al gruppo privato ‘La Zona Grigia’ è di prendere parte attiva facendo proposte, suggerendo iniziative, insomma partecipando” Come tanti che si sono messi in moto in questo periodo, mi piace pensare di poter fare qualcosa per la società, senza cercare alcun tornaconto” “Vorresti catalizzare energia positiva perché ritieni che tutti noi siamo fin troppo immersi nel mare della negatività?” “Ma certo. Mi piace reagire, non subire”
“Insomma, sembra quasi che tu inviti le persone alla resilienza?” “Basta con questa terminologia astrusa!” “Astrusa? Non è che invece, magari, non so, senza offesa, beninteso … non sai che cos’è?” “Ah sicché sarei io che non ne conosco il significato, eh?” “Ma no, non volevo dire questo, intendevo esprimere il concetto della capacità di resistere alle sofferenze che la vita ci ha inflitto, utilizzarle anzi come apprendimento e andare avanti” “Si va bene, lo sai vero che il termine resilienza non è stato inventato dagli psicologi bensì dai fisici?” “Come no?” “La resilienza è la capacità di un materiale di resistere agli urti senza spezzarsi” “Va bene, ma che vuol dire, anche gli uomini vengono messi sotto pressione, il caso della pandemia è giusto un esempio fra i tanti possibili” “Ma secondo te gli uomini sono delle ‘cose’? Le cose non vivono di emozioni, di passioni, di sentimenti. Non si esaltano né si deprimono. Vivono in una dimensione d’incertezza continua e di questa instabilità, nutrendosi, progrediscono” “Scusami ma non capisco” “Va bene: adesso te lo dico nel modo che anche tu ci riesca. Però un pochino impegnati, me lo prometti?” “Sì mamma” “Ecco vedi? La mamma è l’espressione più alta dell’accudimento, dell’accoglienza, del sostegno. Lei ricorda bene quando era piccola e si sentiva a disagio nel mondo dei grandi che magari la trascuravano. Ha fatto tesoro di questa fragilità, ha saputo conservarla dentro di sé perché questo le permette di capire la fragilità del suo bambino e di starci insieme senza giudicarla” “Mi sembra di capire quindi che ‘La zona grigia’ è il luogo dove le persone come te, dotate di sensibilità e di attenzione alle persone …” “Si chiama empatia” “Sì, certo, si mettono a disposizione con umiltà per darsi sostegno vicendevole” “Credo proprio in questo nostro agire sociale. La pandemia paradossalmente ci ha permesso di toccare con mano quanto sia difficile farcela da soli, senza l’aiuto degli altri”

Giovani, artisti, musicisti, lavoratori precari, agenti di viaggio: aiutiamo soprattutto i meno tutelati

“Qual è – per così dire – il tuo target?” “Le persone in difficoltà a causa della pandemia che oggi trovano difficile, quasi impossibile riuscire a trovare opportunità di lavoro. E poi, forse dovrei dire soprattutto, i giovani” “Capisco, come madre …” “Sì, ma non solo, anche come – nel mio piccolo – imprenditrice, sento che bisogna aiutare questi ragazzi ad intercettare opportunità che sul web si possono rintracciare” “Ma tutto questo che c’azzecca con il tuo mestiere?” “Pigliandola alla lontana, promuovere nel prossimo la possibilità di intendere la lingua degli altri, in fondo è favorire l’incontro fra culture, generi e aspettative diverse”. “Come sei arrivata a questo convincimento così profondo che poi, nel tempo, è per te diventato una professione?”

Il passato di Lella Fonticoli: gli studi, il trasloco da Padova a Milano, la passione per le lingue

“Avevo tredici anni” “Mio Dio. Non so se abbiamo tutto questo tempo” “Frequentavo la scuola media e fui rimandata in inglese” “Non sarai stata certo l’unica” “Per questo non fui né la prima né l’ultima vittima di quell’insegnante cattivissima e severissima” “Sono curioso: immagino non fosse un’insegnante madre lingua, vero? Hai idea da chi avesse imparato l’inglese? E chi glielo aveva insegnato, sai da che parte di mondo veniva?” “Non ne ho la più pallida idea. Di certo non era un’insegnante capace di agire su tutte e quattro le leve fondamentali dell’apprendimento di una lingua: ascoltare, parlare, leggere e scrivere” “Sembra logico, no? Più ascolti, meglio saprai parlare. Se invece passi il tuo tempo a leggere, questo influenzerà di sicuro la tua capacità di scrivere” “Bravo: i tuoi insegnanti te li ricordi ancora?” “Secondo me ci volevano tutti letterati, temo” “Eh sì. Ci facevano trascorrere tantissimo tempo chini sul libro di testo per apprendere soprattutto la grammatica. Brillante risultato: alla fine dell’anno scolastico quasi tutti noi eravamo pressoché incapaci di intendere chicchessia parlasse quella lingua le cui regole avevamo trascorso un sacco di tempo a studiare, e, non solo, eravamo anche scarsini assai nello spiccicar parola”

Ascoltare per apprendere

“Secondo te che cos’è più importante nell’apprendimento di una lingua: parlarla o scriverla?” “Ascolta, dipende dagli obiettivi. Se il tuo obiettivo è quello di parlare con scorrevolezza, occorre ascoltare brani, conversazioni che gradualmente crescono in termini di complessità e ricchezza” “Una cosa che da formatore m’ha sempre appassionato è l’apprendimento. Come fa la mente della gente ad apprendere? Ripetendo, ripetendo e ancora ripetendo. Se penso a tutto il mio percorso scolastico, il programma prevedeva lo svolgimento di tanta roba su cui però non si trascorreva abbastanza tempo. Tipo: non so, il, genitivo sassone, che cos’è e come funziona, spiegazione teorica, svolgimento degli esercizi e poi si correggevano e si andava avanti. Si ingombra la mente e basta, non si apprende davvero”

“Hai ragione. Ti ricordi l’attesa delle prime paroline delle nostre figlie? Dal balbettio iniziale che fanno i bambini …” “La lallazione …” “quanto tempo passa prima che imparino a definire bene le parole? Un paio d’anni? Un anno e mezzo? Qualcosina meno i più precoci, no? Il che significa che fino a quel punto i nostri bambini ci hanno ascoltato e basta e comunicavano con noi dimostrando d’aver capito attraverso tutti i gesti, gli sguardi, eccetera. Allora mi chiedo: com’è che quando si insegna una lingua straniera non si dà la stessa importanza alla dimensione dell’ascolto?” “Immagino però che all’esame quella cattivissima insegnante fu brava con te, vero?” “Mi dette addirittura nove. Ma il punto non è quello. Il punto è che io, in quell’estate di studio matto e selvaggio dell’inglese, m’innamorai perdutamente di quella lingua” “Fra l’altro, siamo alla fine degli anni sessanta, dopo Cristo naturalmente, è l’inglese va di gran moda” “Al di là di tutto, m’innamoro dell’idea di studiare lingue straniere” “E perché non hai fatto il liceo linguistico invece d’andare alle Magistrali?” “Mio padre lavorava in banca ed era soggetto a continui trasferimenti. A quell’epoca vivevamo a Padova, i licei linguistici erano rari e soprattutto la maggior parte di queste scuole erano private. Sembrò assai più saggio ai miei farmi fare appunto le Magistrali e poi, una volta diplomata, avrei preso la mia strada”.

Dalle magistrali alla scuola di interprete: l’esperienza (traumatica) del Piccolo Teatro segna il suo futuro

“E così è stato, no?” “Sì. Alla fine della quinta magistrale, con la mia famiglia viviamo a Milano e posso iscrivermi alla scuola interpreti” “Mantieni la passione per l’inglese?” “Assolutamente sì. Come prima lingua scelgo, ovviamente l’inglese, ed il russo come seconda” “Il russo? È una scelta ideologica?” “A parte la sterminata bellezza della letteratura russa, pur non avendo alcuna dimestichezza col russo, lo affronto adesso, per la prima volta, avendo uno zio che l’insegnava a Bologna” “Quindi studi le lingue: qual è lo scopo che ti proponi? Fare la traduttrice di splendidi romanzi? Di grandiosi tomi scientifici?” “Niente affatto: non volevo fare la traduttrice chiusa nella sua stanza. La mia passione era fare l’interprete”

“Posso chiederti perché?” “Per il mio carattere, fare la traduttrice chiusa in una stanza sarebbe stato davvero troppo alienante” “Mentre fare l’interprete ti pareva più gratificante?” “Eh beh, da un certo punto di vista sì. Poi però ho fatto un’esperienza agghiacciante” “Dai, racconta” “Al Piccolo Teatro erano soliti presentare scrittori / autori stranieri che quindi avevano necessità di avere accanto degli interpreti. Una mia collega di studi ed io fummo le prescelte proprio perché eravamo le più brave. Non pensavo: credimi, è una fatica pazzesca ascoltare con la massima concentrazione quella persona che parla, discorre, esemplifica, tratta l’argomento per una decina di minuti mentre tu prendi qualche appunto giusto per bloccare l’idea e dopo un po’ traduci quello che ha detto cercando di essere la più fedele possibile. Bene, il pubblico che veniva ad assistere a queste performance era generalmente colto; fra questi poi ce n’erano alcuni veramente feroci che si divertivano a stroncare la carriera di un interprete men che preciso” “Chissà che stress!” “Pazzesco. Infatti, il futuro mio e della mia collega fu segnato da quell’esperienza dopo la quale entrambe decidemmo di seguire strade diverse, ma sempre nel campo delle lingue”

Gli anni dell’agenzia di traduzione: un’esperienza professionale di vita

“E’ allora che fondi la tua società di traduzioni? Com’era il motto? Dall’Azerbaijan allo Zanzibar: traduzioni accurate e perfette” “Smettila. Una società belga, con sede a Bruxelles, una grandissima agenzia di traduzioni con sedi in tutto il mondo, mi fa aprire la loro sede in Italia, qui a Milano. Lavoro con loro e per loro dieci anni” “Lasci per costituire la tua impresa?” “Sì. Ho costituito la mia prima società di traduzione con un partner inglese. Siamo collegati con un’altra grandissima compagnia di Bruxelles che alla fine, decide di comprarci” “Ma come? E il tuo sogno imprenditoriale?” “Eravamo diventati troppo grandi. A me piace lavorare con le lingue straniere. Ma quando la struttura di dipendenti cresce in modo così significativo, sei costretta a cambiare mestiere, ad occuparti di gestione, di controllo e sviluppo. Insomma io ed il mio socio inglese, lui laureato in filosofia ed io in lingue, non possedevamo quelle competenze gestionali necessarie a condurre un gruppo di oltre venti persone”

“E quindi, ve ne andaste?” “No, restammo in azienda. Ma il lavoro non m’appassionava più. Pensa: dovevo ricoprire il ruolo di direttore finanziario. Comunque succede che un’altra azienda, ancora più grossa di quella che ci aveva acquisito, ne piglia di questa a sua volta il controllo. Questo determina allora il mio definitivo abbandono: i miei interlocutori erano diventati i revisori contabili. Ma ci pensi? Me ne vado” “Per costituire un’altra azienda tutta tua, no?” “Certo, questa era l’intenzione. Per tre anni sono però bloccata dal patto di non concorrenza. Ricomincio nel 2002, collaborando con una agenzia di traduzioni e poi con un’altra nel 2005 fino a fondarne una io, l’attuale, nel 2010”

Oggi è tempo di capelli grigi e di Zona Grigia

“Agenzia di traduzioni con collaboratori e clienti sparsi in tutto il mondo e un’iniziativa per valorizzare chi, bloccato dalla pandemia, si guarda attorno smarrito, senza sapere dove andare, che fare. Che nesso c’è fra queste tue iniziative?” “Conoscere le lingue restringe l’area grigia dell’incapacità relazionale: pensare alle persone e alla capacità che hanno di stringere legami, rende il grigio luminoso e attraente”