Lino di Turi o il favoliere delle Puglie

Sono uscito di casa sua saltellando su un piede solo, ripetendomi “O che bello! O che bello!”. Colpo di calore? Macchè! Tutto è dipeso da una violenta scossa emotiva procuratami dall’incontro ravvicinato con questo signore che sembra Giove tonitruante più per gli scoppi d’idee che per quelli di voce. Se non conoscete Lino non sapete che cosa vi perdete. Si presenta come un amabile signore posato e compìto, che m’ha fatto subito accomodare, m’ha messo a mio agio ed ha cominciato a presentarsi: attore, regista, sceneggiatore, poeta, scrittore, animatore d’iniziative culturali. “Ma questo è un uomo o un caleidoscopio?” Sì perché mi bombarda d’informazioni che s’avvicendano in una fantasmagoria di colori, di parole e mi pare perfino di avvertire sapori e profumi, tant’è la forza della sua carica espressiva.

“Sei un uomo o un caleidoscopio? Mi ispiro all’immortale Fedro”

Lino, maestro di comunicazione, accende il computer e mi mostra una sua prima opera: “Tutto fatto in casa. Nel 1985 ho fondato lo studio di fono – produzione Studio A.LA. L’ho messo su qui, in casa, uno studio di registrazione con un mixer e una stanza insonorizzata”. “Per realizzare cosa?” “Per produrre favole e recuperare le tradizioni popolari pugliesi che ancora oggi porto avanti. E’ proprio questa la mia unica ambizione: Il favoliere della Puglie”.

“E che c’entra Di Vittorio? Lo sai vero che certi reazionari anticomunisti definirono così il grande sindacalista per screditarne la capacità affabulatoria?”. “Ma no! lo racconto favole davvero. Soprattutto pugliesi sicché, dopo tante ricerche effettuate sul territorio, questa raccolta è diventata Il tavoliere delle Puglie”. “Ah, cogli spunto dal Tavoliere”. “Tu lo sai vero che il Tavoliere è la più vasta pianura italiana dopo la valle del Po?”

“Accidenti. Non lo facevo così grande”. “Tanto grande ma soprattutto così bella questa terra che Federico Il disse: Se Dio avesse conosciuto questa piana di Puglia si sarebbe fermato a vivere qui”. “Allora, se citi i pezzi grossi, a quale autore di favole vorresti t’appaiassi?”. ” A Fedro. Sai perché? Lui come Esopo seicento anni prima di lui, s’ispirava agli animali. Per lui virtuosi erano gli agnelli, i cani, gli uccelli e i topi. Considerava disonesti gatti, lupi, leoni e rospi”. “Quindi ti proponi uno scopo educativo con le tue favole allegoriche?”

“Eh sì perché m’ispiro a un insegnamento pratico”. “Fammi un esempio per piacere”. “Ma sì. Nella vita di tutti i giorni c’è sempre qualche furbacchione che vuole ingannare furbescamente qualcuno più fragile, facendolo passare da stolto. Poi però alla fine la verità trionfa”. “Ti piace giocare con le emozioni?”. “Di sicuro! Soprattutto in un’opera, ‘li bene e il male’ che ho scritto a quattro mani verso la fine degli anni Ottanta con il mio grande amico Lino Angiuli e con l’editore Pino Cappelli, abbiamo raccolto narrazioni popolari su preti lussuriosi, monaci avidi, su donne sfrenate e mariti scemi”.

“O che bello! Dai, raccontamene una”.

“Va bene, appizza bene le orecchie che mo’ ti racconto ‘Ti raccomando a quello’”.

Lino di Turi

Lino di Turi

Lino racconta una sua storia dal titolo: “Ti raccomando a quello”

E Lino s’avvia: “Stava una povera crista che teneva il marito malato ma non teneva manco gli occhi per piangere tanto era povera scalognata disgraziata, manco i cani”. E qui mi piglia subito la prima fascinazione: il linguaggio che utilizza. Lino lo chiama ‘linguaggio post rurale’, ovvero si serve di voci dialettali, tipiche del territorio. Come un sapiente cuoco lo infarcisce di neologismi che nascono anch’essi dal dialetto locale. “Sei il Camilleri del Tavoliere? Il D’Arrigo delle Puglie?” “Ma va là. Con Lino Angiuli e con Raffaele Nigro ho sviluppato un sodalizio che m’ha reso possibile sviluppare questa ricerca” “Dai però, come va a finire ‘Ti raccomando a quello’?” “La povera crista come t’ho detto era così scalognata che nella stessa notte infame perde il marito e pure il figlio. Subito si concretizza un problema: ci vuole la cassa da morto. Anzi, data la situazione, morti il marito e il figlio le casse da morto che servono son addirittura due! Mannaggia, e come fare senza i soldi? Per fortuna il maestro d’ascia le propone la soluzione ‘compatta’ che consiste ne far stare insieme padre e figlio nella stessa cassa. Questa ‘composizione’ prevedeva che il figlio venisse inserito fra le gambe del padre. Sicché quando la povera donna piange e si dispera per la duplice perdita, raccomanda al marito ‘quello che tiene proprio lì, in mezzo alle gambe’ sollevando fra tutti i presenti alla funzione in chiesa dapprima sorpresa, poi sconcerto ed infine scandalo e riprovazione. Allora le amiche della poveretta si danno di gomito e cercano di rimediare alla mala parata. Fra tutte si premurano di chiarire e così profferiscono in coro: ‘E’ il morticello quello che il marito tiene tra le gambe’. La gente rimase come interdetta per un momento, poi però a qualcuno scappò da ridere, ad un altro pure e ben presto la navata fu come invasa da uno scroscio incontenibile” “Me lo immagino. Quasi venne giù la chiesa dalle risate!” “E’ certo che sì. Ecco perché si dice Non c’è morto che non si ride e non c’è zita che non si piange”.

Ecco un’altra opera di Lino: “Teatrino in musica”. E poi la conversazione si sposta su strada Vallisa a Bari e l’arco del “piscio”

“O che bello! Questo libriccino che m’hai appena dato m’ispira un sacco. Perché non me ne parli?”

“Teatrino in musica. Vedi da una parte ci sono i versi che raccontano la storia, dall’altra gli spartiti con la musica per accompagnare le parole e tante figure in parte già colorate e in parte invece ancora da colorare. E’ un progetto a cui ho dato vita ancora con Raffale Nigro e con Lino Angiuli il poeta. Questo progetto si chiama Vallisa” “Che vuol dire Vallisa?” “Vallisa era un antichissimo tempio che risale al Mille. La chiesa, ormai sconsacrata, ospita tante iniziative culturali” “Uhm, Vallisa. E’ un nome ben strano per un tempio, non pare anche a te?” “Certo. Vedi, furono dei mercanti amalfitani, i Ravellesi che vollero far erigere questo tempio. Loro lo vollero dedicare a San Pietro ma subito i paesani dettero all’edificio il nome di ‘Chiesa dei Ravellesi’. Col tempo il termine si trasformò in ‘Chiesa dei lavellisti’ finché non assunse il nome attuale: la

‘Vallisa”‘ “Dov’è che sorge questo tempio?” “Nella Bari Vecchia in Strada Vallisa, una stretta viuzza che si conclude davanti al cosiddetto ‘arco del piscio”‘ “Per caso s’allude al degrado in cui versa questa zona della città vecchia?” “Ecco, per l’appunto” “Che scopo aveva il progetto?” “Volevamo realizzare una collana di libri: ‘Teatriamo in musica”‘ “Ma dai! Che bella creatività. A chi pensavi di destinare l’opera?” “Ai ragazzi. La loro fantasia è sempre straordinaria e ha sempre bisogno di trovare nuovi stimoli. E col maestro di musica Antonio Parisi abbiamo cercato di inventare e re-inventare segni, parole, suoni, occasioni mentali, combinandoli nella fantasia, preferibilmente in termini teatrali” “Qualche esempio?” “Te ne faccio due: L’uccello e il cane e La storia della formichina”.

Lino di Turi

Gli animali come protagonisti: storia della formichina e del cane bastonato

“Dai, raccontami la ‘Storia della formichina”‘ “Volentieri: c’era una volta una formichina religiosissima che in chiesa un giorno trova una monetina da due soldi. Li investe comprando un nastro colorato e con quello si mette alla finestra per cercar marito. I pretendenti non mancano: prima il ciuccio che passa la vede e la chiede in sposa ma lei lo rifiuta perché raglia, e poi respinge il cane perché abbaia, e il gatto perché miagola, ma il sorcio sì, quello se lo sposa tutta contenta.

Nella vita felice nulla dura: la formichina deve uscire per commissioni e lascia sul fuoco la pentola del sugo raccomandando al marito di rimestare ogni tanto l’intingolo. Ad un tratto al topino, impegnato nel compito affidato, cadde il berretto nel sugo e per recuperarlo il sorcetto perse il berretto, l’amore e la vita. La formichina non perse la speranza: pare che alcuni giorni dopo sia stata vista di nuovo con in testa un nastrino colorato affacciata alla finestra di casa sua”

“O che bello! La vita talvolta cerca di spezzarti ma dipende da te non lasciarti rompere in due! E ora mi racconti anche ‘L’uccello e il cane’?” “Questa è una favola la cui morale è un po’ diversa: nella vita i torti che si subiscono si possono sormontare se …. ” “Se? Dai non tenermi in sospeso”” Se si agisce con sagacia, intraprendenza e un po’ di malizia” “In pratica come si fa?” “Questa favola racconta di un uccellino che libero e bello girovagava tutto contento svolazzando liberamente per i cieli. S’imbatte in un cane che, a sua volta, s’avvia cantando cantando . E come canta un cane? Canta come un cane, no? E come s’avvia un cane? Canando, canando, no? Il cane è magro, rognoso, sempre cacciato da tutti proprio per il suo aspetto miserevole. L’uccellino a guisa di Robin Hood, l’aiuta a rifarsi dalle ingiustizie subite. Prima gli procura da mangiare distraendo un bambinetto che spesso tirava sassi al cane, costringendolo ad abbandonare la minestra che portava in un sacchetto con sé. Poi grazie all’olio di una botte fatta rovesciare grazie ai suoi svolazzi dal carro di un contadino spesso crudele col povero cane, gli cura la rogna ed infine assicura al suo amico cane oltre la pancia piena e il pelo tornato lustro e pinte anche la serenità e l’allegria” “E come fa?” “Quell’antipatico padrone che tante volte l’aveva bastonato ora è lui a darsi il bastone in testa per cercare di colpire l’uccellino che lo beccava sul capo” “Eh beh, la morale qui è chi fa del male guadagna un carro di sale, chi fa del bene guadagna un carro di fieno”.

“E’ vero. Sai mi viene in mente che riguardo a questo aspetto ho scritto una favola su due mercanti, vecchi amici che discutono fra loro: uno sosteneva che chi fa del bene riceve del bene, l’altro invece che chi fa del bene riceve del male. Andò a finire che s’appiedarono … “”Scusa?” “Si appiedò vuol dire litigò” “Ah ecco” “tanto fino a che non furono scocchiati, ah sì, scusa: separati da un diavolo che (sotto mentite spoglie), fingendo di voler comporre la vertenza, dette ragione al mercante più cinico, cioè a quello che sosteneva che a far del bene si riceve solo del male. Tant’è che i due amici litigarono ancora e si separarono malamente” “E poi che successe?” “Una notte il mercante “buono”, ovvero quello che sosteneva che a far del bene s’ottiene del bene, tornava a casa attraverso una foresta buia. S’imbattè in tre diavoli che si scambiavano notizie delle tante malefatte compiute da ciascuno loro nella giornata. Uno di questi si vantava di come avesse rifiutato al re una pianta miracolosa che pure nasceva proprio nel giardino reale e il cui infuso avrebbe guarito la regina dolorosamente malata. Il diavolo si diffuse in dettagli utili a rendere riconoscibile la pianta al mercante segretamente in ascolto. Costui l’indomani entrò nel giardino reale, colse la pianta, preparò l’infuso e lo portò al re perché lo desse alla regina. Questa appena ebbe bevuta la pozione guarì all’istante. Il re ricompensò generosamente il mercante “buono” che lo raccontò all’amico a supporto della sua tesi. Il suo amico puzzava d’invidia sicché quella stessa note si nascose nel bosco per cercare di sorprendere i diavoli a convegno. Per far ciò inchianò, (salì) su un albero bicorne (un carrubo) e quando scorse i tre diavoli morre (insieme) che si raccontavano i loro distrigliamenti (imbrogli), si mise ad ascoltarli sperando che non s’avvedessero di lui. Ma invece lo scorsero, lo tirarono giù dal carrubo e lo acchiocchiarono (percossero) duramente e, oltre a ciò lo resero pure scarico dei tornesi (gli rubarono tutti i soldi che aveva con sé)”.

Il progetto per i bambini delle elementari “Caos e Cosmos”

“La morale mi sembra chiara, no? lo sono intrigato dal linguaggio che usi” “Mi fa piacere. In ‘Caos e Cosmos’, una sorta di questionario laboratorio, intendo promuovere l’attenzione dei bambini a non inquinare. In questo libro ho proposto le mie storie fantastiche, le mie poesie, i miei dialoghi da affidare alla drammatizzazione degli alunni con un itinerario (giustamente secondo la presentazione della Dottoressa Luisa Santelli Beccegato) assai congeniale alle modalità e capacità di apprendimento dei bambini della scuola elementare” “Mia suocera, eccezionale maestra elementare, avrebbe dialogato con piacere con te. Ribadisco: sono le immagini che evochi e il modo con cui lo esprimi che m’affascina. Per esempio: che cos’è il sole? E’ l’insegna che alla terra fa propaganda. E la natura? Tutto ciò che va in cottura. E il resto è tutto in più o va a finire nel ragù. E’ bella qui la morale che proponi: quella della misura” “Grazie. Dopo un intermezzo col mago (eh la magia che cura e risolve) il mondo da sporco, brutto e ingiusto diventa lindo, equo e bello. Il che permette ai bambini di rifare i compiti rispettando il criterio della “misura” che fa sì che ogni spreco scompaia. E la natura torna ad essere quello che dovrebbe: tutto quello che ci circonda e che possiamo usare ma che dobbiamo curare”

“O che bello. Mi piacciono molto anche queste tue ricette favolistiche realizzate come un cartone animato” “Guarda questo: ‘con quello che stava si facevano da mangiare’; ci mettevano su ‘una croce d’olio”‘ “Qui hai messo anche ‘il bardo’ che racconta e che, per la verità, ti somiglia parecchio” “Guarda che avevo già pensato a fare dei gadget, dei pupazzetti del bardo. L’art director era già pronto; pronta era anche la scaletta di programmazione ma sul più bello il grafico cominciò a dare i numeri e il progetto abortì” “Senti, ma tutta questa fantasia da dove ha preso le mosse?” “Da bambino, da dove sempre tutto comincia. Il mio maestro di scuola fu un signore che si chiamava Vito Marcello De Bellis, lungo il nome, immensa la sua capacità. Teatrante, scrittore, sceneggiatore, non solo maestro elementare, maestro di vita. Mi fece debuttare in uno spettacolo della parrocchia e ha segnato per sempre la mia vita di uomo” “Sei tu dunque salito sul carro di Tespi?” “Eccome! Il maestro D’ Attoma mi diplomò tespiano nel 1960” “Vai a Hollywood?” “Ma smettila. Ho vinto i miei premi, ho avuto i miei riconoscimenti. Al Piccolo di Bari sono stato attore stabile” “Ti sei cimentato solo nel teatro?” “Poliedrico e di multiforme ingegno qual sono, ovviamente no. Ho creato un gruppo di attori baresi e insieme ad un personaggio di questi diventato poi carissimo amico, Chris Chiapperini, ho fondato il gruppo Campi Elisi e ho fatto pure un film con Michele Placido ed alcuni video per la RAI Regionale” “Lavori seri nessuno?” “Ti stai prendendo troppe libertà, non credi? Ho insegnato dizione e recitazione e ho continuato a lavorare con compagnie pugliesi e con Raffaele Nigro. Ma sai che sono stato preso anche dall’Accademia d’arte drammatica di Roma?” “Grande! E com’è andata?”

Il posto all’Accademia d’arte drammatica di Roma. Ma “chi nasc pummarol adda murì cunzerv”

“Te lo dico in pugliese ma poi ti faccio anche la traduzione: Chi nasc pummarol adda murì cunzerv -Chi nasce pomodoro muore conserva (cioè, chi nasce povero morirà povero). Capito? “Mia nonna avrebbe detto: senza lilleri non si lallera” “Roma costa, caro mio e senza borsa di studio per me sarebbe stato impossibile alimentare il mio sogno. Ma non mi sento affatto deprivato. Non lo vivo come una perdita. Ho continuato indefesso a fare esperienze, a ricercare e a raccogliere nel territorio casa per casa, memoria per memoria le tradizioni orali” “Queste esperienze ti sono servite per dare sfogo alla tua creatività dal teatro al cinema, dalla televisione alla scrittura sia in prosa, sia in poesia, no?” “Ma sì, io mi sento un ‘manipolatore’ nel senso che armeggio, metto insieme, strutturo fatti, dati, emozioni, sentimenti e pensieri. In ‘Pugliamare’ raccolgo fiabe popolari inventate chissà quando da chissà chi e io ‘liberamente’ le racconto di bel nuovo. Come in un gioco dove Vito Matera, impareggiabile illustratore le arricchisce con la sua grafica. Sono fiabe da leggere ad alta voce per farsi rapire dal suono che colpisce l’orecchio e che emoziona assai più di ciò che passa attraverso l’occhio” “Si però tu seduci anche attraverso le parole. Hai una sorta di umorismo surreale che mi colpisce” “Fai riferimento a ‘Non buttare la battuta’ immagino” “Sì, proprio a quella. Me ne parli, per piacere?” “Questa è un’esperienza di teatro laboratorio dove s’indaga qual è il senso della battuta che ha segnato la fortuna di certi interpreti e ha decretato la fine di altri … la battuta che non va buttata, ma va consumata, va salvata, va insomma sottratta alla generale distruzione dell’uomo dentro e fuori il teatro … La battuta rappresenta il senso di un ultimo, disperato atto di sopravvivenza”

Lino di Turi: nessun nome sul citofono, ma la scritta “O che bello”

“Ho visto che sono tante ‘azioni che hanno luogo nel Duemila più che rotto’. Quale mi vuoi raccontare?” “Quella dei Pulcini e dei Bruchi dove compaiono anche Galli, Galline, Oche, Parchi e divertimenti. Ci sono un centinaio di pulcini e un paio di Galli/papà e Galline/mammà in un pollaio circondato da cancellate d’oro (perché circondata da metallo pregiato la gallina fa più uova) che s’avviano verso un grandissimo parco giochi. Le maestre sono le Oche specializzate e appositamente istruite da corsi di alta formazione. Suonano il piano, cantano, inneggiano alla natura e in un tripudio di battimani e risolini i pulcini, al colmo della gioia, urlano Oche bello!”

Esco portando via con me libri, album, audiocassette, dischi ma soprattutto tanta allegria e gioia. Ma come fa il postino a consegnarli la posta alla famiglia Di Turi -Angiuli? Sul campanello, infatti, c’è scritto: O che bello.

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