Maestria d’una maestra

Un punto sulla via Francigena

Qui, a Senna Lodigiana, un piccolo paese che sorge dove la provincia di Lodi è attraversata dalla via Francigena, fra duemila abitanti scarsi che la popolano, vive la signora Enrica, assai amata dai tre figli, rispettivamente svolgenti la professione di architetto, ingegnere, giornalista.

Le sono tutti molto vicini anche se proprio fisicamente a contatto con lei vive solo il figlio architetto che abita la casa accanto. Questo permette ai figli dell’architetto di avvicendarsi nell’andare a salutare la nonna, tornando da scuola o dai loro impegni. Proprio di una di queste capatine sono stato testimone ai primi di marzo, quando ho incontrato per la prima volta la signora.

“Ciao nonna” affacciata sull’uscio una bella ragazza saluta la mia ospite con premurosa cura, venendo accolta con altrettanta serenità in uno scambio semplice, schietto, di limpida, consueta intimità. Questa dolce complementarità salta gli occhi dal sorriso aperto, dagli sguardi carezzevoli, dalla premura mostrata di non volere invadere in nessun modo lo spazio dell’altra, pronte entrambe a darsi quella vicinanza che è un piacere offrire, che è felicità ricevere.

Poco dopo s’affaccia anche una signora che vive al piano di sopra dell’appartamento dove sta la signora Enrica. Se la nipote m’era apparsa impegnata in una piacevole incombenza, per nulla avvertita come ‘dovere parentale’, altrettanto spontanea m’è parso l’affacciarsi della vicina, un po’ dama di compagnia, un po’ collaboratrice, sempre davvero molto vicina nel più vero senso della parola ad un angelo custode.

Angeli custodi in carne ed ossa

Al mio arrivo, appena suonato il campanello, attraversando l’ampio cortile e il giardino annesso, due paia d’occhi m’avevano inquadrato: quelli dell’angelo custode di cui ho appena detto, e quelli non meno attenti e altrettanto benevoli del marito della dama di compagnia, impegnato in qualche opera di giardinaggio, altro pretesto per una vigilanza solerte e affettuosa. “Guarda che sei arrivato in un terreno coltivato” mi son detto, accedendo alla proprietà della signora Enrica, la mia ospite di oggi.

L’ho trovata dove suole sedere per la maggior parte del tempo, assisa in poltrona, spalle alla porta con davanti una sedia su cui sono appoggiati alcuni libri, fra cui campeggia ‘L’infanzia di Gesù’ del papa emerito Joseph Ratzinger, nelle cui parole la sensibilità religiosa della signora Enrica trova consolazione.

Davanti a lei, leggermente di sguincio, è appeso un grande schermo televisivo proprio sopra il caminetto e sulle mensole sottostanti fanno mostra di sé tanti giocattoli destinati ai piccolini dei suoi nipoti diventati a loro volta genitori.

In un angolo della mensola più alto, in una posizione in cui la signora Enrica possa sempre intercettarne lo sguardo appena alza gli occhi, campeggia una foto del marito, bel maresciallo della finanza, atletico, in tuta da sci, che la guarda sorridente e pieno d’amore.

Che cosa scompare se stendi la mano? Il pugno

Intercettando il mio sguardo la signora Enrica mi fa: “La più bella cosa della mia vita? Il matrimonio. Siamo stati sei anni fidanzati e per ben cinquantaquattro anni sposati”. In queste parole sento tutto il dolore della perdita che affiora e capisco quanto questa sia ancora forte. Pur nella severa compostezza che mostra sento lo strazio che quasi fa rattrappire la mia ospite.

È solo un momento: le mani della signora Enrica si serrano a pugno come per voler resistere all’estremo, come per far restare con sé il più a lungo possibile ciò che ha amato con tanta intensità. La signora è ben consapevole di quanto purtroppo la resistenza sia vana: non basta e non serve che protestiamo, che supplichiamo. Presto o tardi impariamo, con infinito dolore, che l’altro se n’è andato, nostro malgrado. Noi siamo ancora qui e possiamo continuare a vivere perché ancora contiamo per gli altri a noi vicini che ci testimoniano il loro affetto, che ci circondano di premure.

Rinasciamo a vita nuova quando accettiamo l’ineluttabile e impariamo a rappacificarci con questo destino che nemmeno gli dèi possono mutare. Allora lasciamo andare ciò che non possiamo più trattenere. Qui il pugno si apre, la mano si stende per stringere nuovi legami che testimoniano la nostra nuova nascita. Chi abbiamo così tanto amato resterà per sempre in noi, farà per sempre parte di noi, esisterà in noi. Ci ha regalato anche la sua forza per attrarre, attorno a noi, chi conta davvero. Siamo quello che siamo proprio per i legami che ci hanno alimentato e che non saranno mai recisi avendo formato la nostra nuova identità.

Io ho tanti anni quanti me ne sento: non uno di più

L’impressione che ho è fortissima, l’emozione la percepisco in tutta la sua intensità. Un dialogo silenzioso, muto ma denso di significato. Oggi attorno alla signora Enrica ci sono i figli, i nipoti: questa è la sua ricchezza presente; tutta questa rete di persone le donano l’energia indispensabile a vivere. Oggi la signora ha 86 anni (vero?) tuttavia non li dimostra. “Caro mio, l’età vera non è quella che si mostra fuori, semmai è quella che ci si sente dentro. L’anagrafe? Semplice burocrazia. L’altezza e l’intensità della fiamma interna dicono di noi la nostra vera età.” “Come se ci fosse un’età oggettiva e, diciamo, un’altra soggettiva?”

“Non è forse così davvero? Se ti senti quasi centenario inevitabilmente assumerai la postura, l’aspetto, e l’incedere che la testa immagina abbia un centenario, no?” “Eh sì, più mi lego alla semplice anagrafe, più rischio d’avvertire la connotazione negativa che tutti attribuiamo a un’età senile.”

Maestra

Da dove nasce tutta questa saggezza? “Sono stata maestra per una vita: 30 anni d’insegnamento ho fatto e poi sono restata ancora a scuola come volontaria per dare sostegno ai bambini bisognevoli”. In un improvviso quanto repentino balzo all’indietro, vedo la signora Enrica salire e scendere da corriere, inerpicarsi e smontare da treni accelerati, fumosi e straripanti d’umanità, percorrere poi a piedi acciottolati e stradine per raggiungere le scuole più periferiche della provincia. È questo il destino che spetta ai neo-insegnanti, avventurosi fertilizzatori di giovani menti sparse su territori dispersi e poi raccolti in avamposti scabri, scomodi ma brulicanti di vita.

Me la immagino la signora maestra mentre in treno pensa ai volti dei suoi bambini: sento il piacere che le dà avere addosso tutte quelle paia d’occhi mentre magari si serve della geografia per insegnare loro a guardarsi attorno e a vedere più a fondo, non limitandosi ad appoggiare lo sguardo qua e là. “Oggi impariamo i fiumi della Lombardia. Da dove nascono? Come si formano? Dove scorrono?” Tutti gli scolari ma forse ancor di più quelli che vivono realtà rurali, hanno bisogno della concretezza che la campagna attorno a loro insegna quotidianamente. Consistenza, realtà tangibile, immediatezza concreta non astratte nozioni. “Paolo, dimmi, secondo te qual è il letto più lungo senza materasso? Bravo. Ecco, proprio così. È il fiume. Vedi? è come un letto dove la gente riposa e fabbrica i sogni più belli. La nostra terra è ricca di fiumi. Proviamo a scoprirli?”

Poche nozioni, molti esempi, molta soda concretezza. C’è bisogno di passione per alimentare negli allievi la voglia della scoperta: “Bambini: che cos’è che quando fa freddo si prende per il collo? Che cosa dici Maria? Ci siamo quasi. Sì, sì brava. È proprio un indumento. Già, è quella bella sciarpa che la mamma ti avvolge attorno al collo la mattina, quando esci nella nebbia”.

Chiudo gli occhi e mi pare di vedere la signora Enrica che adesso trascina la borsa coi compiti corretti e che dovrà distribuire alla classe impaziente di sentire il voto perché i bambini quello sanno essere il suggello formale del loro percorso scolastico. A casa i genitori li hanno abituati a riferire ‘quanto hanno preso’ nell’interrogazione, nel compito in classe. Come pure così i compagni si confronteranno, sfidandosi e sbeffeggiandosi: ‘Io ho preso sette, e tu quattro …cicca cicca! Io sono più bravo! Tu sei una schiappa”

La brava maestra Enrica ha profuso ogni impegno perché i suoi allievi imparassero a non identificarsi col voto ricevuto. Sarà stata certamente capace di stimolare in loro la voglia di capire che cosa hanno appreso. Che cosa dovranno apprendere ancora. Come potranno migliorare. Perché l’apprendimento non è una sfida, è una costante, lenta, progressiva scoperta. Una continua aggiunta alla competenza già acquisita. Come nei campi le stagioni che si susseguono fanno fiorire e poi appassire e di nuovo rinascere le piante, così coltivare le menti “ci fa perdere quella cosa che se è brutta si vuol lasciare. Bravi bambini! L’abitudine, il fare sempre le stesse cose, il ripetere sempre gli stessi gesti, stancamente, senza rinnovarsi mai. Provate, provate ancora. Non accontentatevi. Potete scoprire una cosa che prima non avevate visto ma già c’era.”

Il senso dell’educazione

Eccola, la vedo, tutta impegnata a trasmettere il piacere d’apprendere, la vera missione dell’educatore. La signora Enrica sa che il voto non è che l’eco di ciò che ha insegnato ai suoi bambini. “Il voto non deve servire a pensare ad un sistema basato su premi e punizioni: voti alti, sei bravo, e quindi meriti ampi riconoscimenti; voti bassi sei uno scansafatiche meritevole solo di castighi. I voti non sono etichette, semmai stimoli per crescere. Il voto non stigmatizza una persona ma il suo comportamento in quella specifica contingenza. Sicché, siccome i risultati cambiano in funzione dell’attenzione, dell’impegno e della voglia che si profonde, così i risultati possono variare. Allora bambini, ragioniamo: se per far cuocere un uovo alla coque occorrono tre minuti, quanti minuti ci vorranno per farne cuocere contemporaneamente tre?”

Per il temperamento che ancora mostra sono certo che avrà insegnato loro, anche attraverso metafore e sollecitazioni curiose, ad imparare la vita che cresce loro attorno: “Ha i denti; eppure, non morde né mangia. Che cos’è? Eh, sì Luciano. È proprio quello che tutte le mattine dovresti ricordarti di passarti tre o quattro volte sui capelli, ti pare?”

Per gli insegnanti come la signora Maestra Enrica la scuola diventa davvero una palestra in cui far esercitare i bambini attraverso esempi, approcci giocosi, stimolanti fantasia e creatività: “Riflette ma non ragiona che cos’è? Quale animale ha la coda attaccata alla testa?”

E poi: il compito del Maestro è quello di riuscire a far andare tutta la sua classe all’unisono. “Mi chiede perché? Bisogna imparare da piccoli quei comportamenti che, divenuti adulti, sapranno essere più utili alla comunità a cui apparteniamo.” “Qual è il rischio che altrimenti si corre?” “Pensi a un gruppo di persone: che succede secondo lei, se qualcuno parla da solo?”

La signora Enrica, da vera Maestra, si è impegnata a far capire il prima possibile il rispetto di questa fondamentale regola di libertà. “Proprio in questi anni in cui si è più teneri si comincia ad essere educati. Se si perde l’occasione è un vero peccato: recuperare si può, ma chissà quanto tempo ci si mette”.

“Una volta diventata di ruolo ho finalmente smesso di peregrinare per tutta la provincia. Ma non ho mai smesso di impegnarmi per far capire ai miei bambini che se avessero voluto m’avrebbero trovata disponibile ad ascoltarli: vede, ho imparato che c’è sempre tempo per l’empatia.”

“Ai bambini capita di litigare, di arrabbiarsi fino ad azzuffarsi fra di loro. Lì sa che cos’è che conta?” “Sostenere chi ha ragione?” “Secondo me no.” “No?” “Vede: come in un’orchestra, un musicista che suoni una nota giusta ma in un momento sbagliato, commette un errore; così avere ragione quando non è il momento suona disarmonico, proprio come un errore.”

Equilibrio e forza di gravità

Il temperamento della signora Enrica m’induce a pensarla assai critica nei confronti di quegli alunni che avevano imparato la lezione a memoria senza però essere riusciti a scalarne dall’interno il senso. Fermi sulla crosta, vi scivolavano sopra allegri e felici, fra guizzi e repentine svolte.

La forza della pazienza, della calma, della ponderazione. Mia nonna me lo diceva sempre: hai fretta? Vai piano. C’è qualcosa nella signora Enrica che mi fa riaffiorare alla mente antiche avvertenze. Di fronte alle cose difficili, si va piano, si va circospetti, perché la prudenza è più vigorosa ed efficace dell’avventatezza spavalda.

“Non abbiate gli occhi confitti sul vostro ombelico: alzate lo sguardo ad abbracciare il mondo. Non serve dettagliare le motivazioni che ci hanno indotto all’errore. Chi le ascolta penserà solo che vogliamo giustificarci, chiedere comprensione e farci accettare. Non abbiamo bisogno di vittimizzarci. Abbiamo bisogno di imparare dall’errore per crescere e diventare sempre più efficaci. L’assoluzione va chiesta al prete, non alla maestra né agli altri compagni di viaggio.”

Oggi alla signora Enrica capita di perdere l’equilibrio, rischia di cadere. Le è già successo. Ma la forza di gravità non può battere l’equilibrio di una mente e di un cuore così grande come quello di una Maestra.