Silvestro e Marco Vacca, ristoratori in Milano
“Ogni nostra cognizione prencipia da sentimenti…”
Leonardo da Vinci m’ha suggerito il titolo per questo racconto. Già, proprio Leonardo di ser Piero da Vinci, ha letteralmente invaso il Ristorante “Il Carpaccio” di via Palazzi, angolo via Settala a Milano, presidiando ogni parete del locale con dozzine di suoi disegni, in una tiratura speciale, numerata, davvero preziosa della Treccani. “Certo volete dare l’impressione che qui da voi si vola alto, eh?” – fo ammiccante a Marco Vacca, il giovane proprietario che gestisce con suo padre Silvestro, la sorella Claudia e la madre Luisa questo ampio e bello spazio.
Marco con un aplomb da maitre abituato a governare clienti stravaganti e bizzosi, accoglie il mio sarcasmo. “Certamente saprai che è stato Leonardo a disegnare il primo tovagliolo che, prima della geniale intuizione dell’artista, brillava per la sua assenza dalle tavole delle famiglie importanti nel Rinascimento, vero?”
I maitre sanno accogliere le intemperanze dei clienti: le trattano con amabilità. Così Marco, perfetto nel suo ruolo, non approfitta del mio sbalordimento e, garbato, continua: “Proprio l’anno prima che Colombo scoprisse l’America, Leonardo era venuto qui a Milano dove c’era Ludovico il Moro che gli aveva commissionato opere difensive importanti. Il genio toscano, ospite del duca e della sua corte, era spesso ospite della famiglia dominante. Puoi immaginarti le abitudini di questa corte così ricca: i banchetti si susseguivano copiosi ma si vede che Leonardo, chissà? forse era un po’ schizzinoso, la sporcizia delle tovaglie dopo i pasti col duca e i suoi ospiti, lui proprio la detestava” “Si vede che il servizio di lavanderia non doveva funzionare un granché”
Come da ruolo Marco fa finta di nulla e, soave, prosegue: “Il punto è che i commensali erano abituati a servirsi della tovaglia comune per detergersi perfino il sudore, nettarsi mani e bocche sporche durante il pasto, insomma, farne un uso sguaiato e assolutamente improprio”. “Sicché sono ancora i toscani che rimettono a posto ogni cosa, eh?. Questa di Leonardo che organizza una lavanderia industriale proprio non la sapevo!” “Guarda che son fiorentino anch’io; sicché ti posso dire di farla finita di fare il grullo. Leonardo pensò di mettere a disposizione di ciascuno degli ospiti un’altra sorta di tovaglia, questa di dimensioni ben più contenute rispetto alla grande tovaglia posta sul tavolo. Tuttavia dello stesso tessuto e dello stesso colore così da risolvere quell’esigenza così squisitamente personale”
“Un gesto di riguardo e di attenzione, che mentre salvaguarda il bisogno individuale, rispetta quello collettivo” “Certamente. La soluzione del tovagliolo di Leonardo esprime il modo elegante la cura della relazione a tavola e, nel contempo, si rivela una soluzione pratica e funzionale, nata dalla osservazione diretta dei comportamenti e analizzata nella sua essenza più immediata, come sa fare soltanto un vero scienziato.
Ogni soluzione nuova ad un problema antico si radica nelle abitudini, viene acquisita dalla cultura se sa inserirsi senza troppe fratture, in un disegno di continuità, di facilità d’accesso e d’attuazione condivisa”
Dal Sulcis con amore
Chi parla con questa misura e ponderazione è Silvestro, il padre di Marco. Adesso lo chef s’è inserito nella conversazione. Marco me ne ha parlato un sacco nei giorni che hanno preceduto questa intervista, facendomi venire una gran voglia d’incontrare il maestro, l’artista, colui che ha dato l’avvio a questa famiglia di ristoratori provenienti …. “Già, da quale parte d’Italia vieni Silvestro?” “Tutta l’Italia profuma nel mio ristorante. Mia moglie Luisa è napoletana, i miei figli, Claudia e Marco sono nati a Firenze …” “Si, che Marco parlasse fiorentino non ho messo molto a capirlo. Ma tu? Non riesco ad inquadrarti”. Silvestro mostra un bel volto, con due baffi folti che sottolineano la piega sorridente e ironica della bocca, sormontata da due occhi abituati a soppesare la qualità, il peso, la consistenza della merce. “Vengo da Gonnesa. Sai dov’è?” “Domanda facile: da qualche parte in Sardegna” “Bravo. Quella ‘qualche parte’ è il Sulcis” “Ci son stato” – fo trionfante – “Terra di miniere. Là c’è Carbonia, c’è Iglesias” “E poco altro” – s’inserisce Silvestro- “Per di più le miniere che ai primi del ‘900 attirarono tanti lavoratori, già negli anni Trenta andarono in crisi e quando nacqui io nel 1952, la più parte della gente alternava il mestiere del minatore, sempre meno facile, a quello del pastore, il più antico dell’umanità” “Ma il turismo dilaga in quella terra meravigliosa …” “Quello del turismo e della ricchezza in seguito sopraggiunta, è un fenomeno molto più recente.
“Il Sulcis è incastonato fra mare e colli, questi quasi a ridosso della costa. La terra è avara, dura, poco accogliente e ancor meno generosa. Mio babbo lavorava in miniera sicché le prospettive per un giovane non erano granché” “Sicché decidesti di partire?” “Già. Milano è la meta che scelgo e qui arrivo a metà degli anni ‘60” “Che cosa avresti voluto fare?” “Mi piaceva l’idea del ristorante, per cui ci sono entrato come lavapiatti” “Ma non avresti preferito fare altro?” “Guarda, appena una manciata d’anni dopo, compiuti cioè i diciotto anni, un mio zio m’obbligò a fare domanda per il concorso nei carabinieri: avrei dovuto stare un anno a Velletri ed un altro anno a Firenze per guadagnare trentamila lire al mese quando, lavorando al ristorante come semplice lavapiatti, prendevo già settantamila lire di stipendio. E poi comunque, al di là dei soldi, per me ha sempre contato e conta tuttora trovare passione, amare ciò che si fa”
La formazione
“Me l’ha detto Marco: tu sognavi di diventare un cuoco. Ma come si diventa un cuoco vero?” “Per diventare cuochi bisogna compiere un percorso. E in natura, nella vita, nel lavoro nulla comincia dalla fine. Tutto s’avvia dal primo passo. In cucina la porta d’ingresso, quella per la quale siamo passati tutti ….” – fo io interrompendolo: “ti porta diritto all’acquaio, a rigovernare pentole, tegami, piatti e bicchieri” “Sbagliato!” “Come sarebbe?” “Prima di tutto bisogna lavorare in un ambiente pulito che deve risplendere. Tocca le piastrelle di questo muro: senti bene coi polpastrelli. Come ti pare?” “Perfettamente liscio, assolutamente asciutto, non c’è nessuna patina di grasso. Com’è possibile?” “Unto di gomito e fuochi a induzione. E poi cappe d’aspirazione come si deve” “Hai ragione. Lo sai che a vent’anni sono andato a lavorare in un ristorante in Germania, un posto elegante, su una collina sopra Stoccarda? Indossavo un grembiulone incerato pesante e sotto, per difendermi da quel caldo pazzesco, una canottiera, un paio di calzoncini corti e degli zoccoli con i quali letteralmente pattinavo sul pavimento unto e bisunto. Il mio compito però era mettere, con precisione teutonica, i piatti grandi separati da quelli piccini e poi le posate in un’enorme macchina lavastoviglie che sembrava un tunnel per lavare le automobili…” “Caro mio, la mia scuola è diversa: la prima regola stabilisce di pulire a fondo dove lavori, poi quando l’acciaio risplende e il pavimento è perfetto, a quel punto si può cominciare a lavorare.”
“E qual è la seconda regola per un lavapiatti come si deve?” “Imparare ad asciugare le stoviglie. Le devi far splendere! Niente aloni sui bicchieri, niente pelucchi brutti e sgradevoli e poi le posate le devi guardare mettendoti gli occhiali da sole, sennò rischi di rimanere accecato dal loro splendore” In questa cucina modernissima, tutto acciaio e vetro, aperta sia sulla sala sia affacciata attraverso un’enorme vetrata anche su strada, testimonia l’importanza di questo concetto. Trasparenza, visibilità, vicino agli occhi del cliente, per conquistarne il cuore prima ancora della gola”
“Però non me la conti giusta. Mi sembra di capire che ci sia dell’altro” “Eccome se c’è. Ci deve essere un sogno dentro chi lavora in cucina, qualunque sia il suo ruolo. Una visione che lo infiammi e che faccia sentire il peso del quotidiano non come un fardello insopportabile, ma come un mezzo per apprendere, imparare e diventare sempre più capace”
“Vedi questa foto? I miei ragazzi si son presi l’impegno di farne una gigantografia. Qui si vede un ragazzino che avrà avuto sì e no quindici anni” “E’ vero? Sei tu?” “Per l’appunto” “Chi è quel personaggio accanto a te? Che avevi combinato? Sembra ti minacci con una mannaia” “Lui è stato un grande chef, un mostro sacro che, è stato capace non solo di insegnarmi questo mestiere ma m’ha bloccato quando, appena agli inizi, preso dallo sconforto, stavo proprio per rinunciare, per abbandonare tutto, tante erano le difficoltà nelle quali m’imbattevo. E’ stato grazie a lui che non ho mollato”
“Se vuoi imparare a fare il cuoco devi imparare tanti altri mestieri. Forse sarà così anche per altre attività professionali, tuttavia, di questo te ne posso dare assoluta conferma, per stare in cucina, dandole un’impronta originale e gratificante per il cliente, bisogna acquisire tante competenze diverse” “Per esempio?” “Uno semplice perché tu capisca subito: la carne m’arriva oggi dal fornitore tutta incellofanata, già ripulita e sezionata. Hai presente quando vai al supermercato a fare la spesa nel reparto macelleria? Tanti bei pacchetti preconfezionati. Ai tempi di cui stiamo parlando in cucina m’arrivavano le lombate intere da cui dovevo saper tirar fuori filetti, bistecche, il controfiletto per il roast beef eccetera. Hai mai tenuto in mano un coltello per disossare?” “Io no, ma mio padre faceva il macellaio e capisco benissimo ciò che intendi” “Ecco: allora ti rendi conto della perizia necessaria. Ma poi, non c’è mica solo la carne da preparare.. Ho imparato a distinguere con un colpo d’occhio la freschezza del pesce, a cogliere la croccantezza delle verdure … e poi gli strumenti, le macchine, gli allestimenti più funzionali perché per cucinare, dopo la materia prima da saper trasformare, occorre disporre degli attrezzi più utili ed efficaci” “Certo, capisco. Ma queste cose sono proprio oggetto dell’insegnamento che si riceve nella scuola alberghiera, no?” “La mia scuola sono stati i ristoranti migliori che ogni stagione potevo trovare perché solo lì impari, o meglio impari ad imparare osservando, rubacchiando il mestiere e poi chiedendo. Provando e sbagliando un’infinità di volte.
“Ci dev’essere una visione davanti agli occhi. Dove voglio andare? Che cosa voglio diventare? Questo è l’atteggiamento indispensabile. Una fortissima motivazione, una determinazione senza pari e poi naturalmente la disponibilità a sbagliare e a capire che grazie a quello sbaglio hai potuto imparare un sacco di cose
“Oggi dovresti andare in televisione” “Vedremo. Intanto di gare di cucina ne ho fatte. Pensa che alla prima gara mi son piazzato al secondo posto”
L’avvio della carriera
“Fine anni ’80 sono a Firenze, dove faccio la stagione in Versilia, gestisco anche un albergo, poi mi fermo a condurre un locale di pesce vicino a Porta al Prato. Poi ho aperto un bar … Perché tutta questa attività così frenetica? Volevo mettermi in proprio, volevo emergere. Nel frattempo conosco mia moglie, ci sposiamo e presto arrivano i figli … “ “Marco m’ha raccontato che lui piccino, per poterti vedere, veniva portato nei locali dove lavoravi” “Marco ha imparato a camminare sul tappeto verde di un biliardo”.
Restiamo per un attimo in silenzio perché siamo immersi, Silvestro ed io, ciascuno nel proprio mondo. Siamo quasi coetanei e questa è la prima volta che ci incontriamo. Eppure mi sembra di conoscere, meglio: di riconoscere questa spinta a gettarsi nel lavoro per raggiungere l’obiettivo della vita a cui se n’è presto aggiunto un altro, ancora più importante, addirittura fondamentale, mai come quell’altro successivo, ancora e ancora, in una spirale infinita. Nel mentre, accanto al cuore, impresse negli occhi, si stagliano l’immagine dei figli, protagonisti della nostra vita, spesso in quei momenti, loro e nostro malgrado, confinati sullo sfondo. Quel tempo dedicato al lavoro e alla famiglia sembra avere durate e consistenze diverse.
L’istante di raccoglimento è cessato; siamo di nuovo nel vortice del racconto: “Lavoravo alla Buca San Giovanni, il titolare mi segnalò a due imprenditori svedesi che volevano aprire un locale dedicato alla ristorazione al Ponte Vecchio. Così creo un menu specifico e in capo a un anno parlano di noi i giornali di mezzo mondo” “Questa tua attività ottiene anche riconoscimenti ufficiali, vero?” “Nell’ambiente comincio ad essere notato, sicché sono stato docente all’università europea del turismo. Un’altra iniziativa notevole fu al Centro congressi Monna Lisa a Firenze: furono coinvolte in tutte quelle manifestazioni qualcosa come duemila e settecento persone. E poi ricevimenti e serate organizzate per Panzieri, per Cecchi Gori con la Fiorentina. Tutto gira a mille per sette anni. Poi gli investitori svedesi, evidentemente già appagati dai risultati, decidono di vendere e, come si dice, di diversificare ulteriormente i loro investimenti”
“Questo episodio però si inserisce con grande coerenza nel tuo piano di sviluppo personale e professionale: come alimentare il grande sogno”
La grande svolta
“Mi rimetto a fare il dipendente. Tu sei fiorentino e non puoi non conoscere la Star Hotels” “Come no, come consulente ho lavorato un sacco di tempo per quella che ancora oggi è la più grande Compagnia alberghiera italiana” “Che facevi per loro? “Ho erogato tantissimi corsi di formazione sul tema della comunicazione efficace al personale al ricevimento, sul coinvolgimento e la valorizzazione della squadra di lavoro con i direttori e poi ho anche affrontato il tema della individuazione e risoluzione dei problemi con le risorse impiegate in amministrazione” “Che anni erano?” “Oddio! Eravamo alla fine del secolo scorso” “Anch’io – fa Silvestro entrai in Star Hotels in quel periodo. Però, a differenza tua ci sono rimasto più di vent’anni” “E che hai fatto in tutti questi anni?” “Ho lanciato la ristorazione della Compagnia. A Milano all’Hotel Tourist in Fulvio Testi, mi affidarono la gestione del ristorante. All’epoca il locale contava ben undici dipendenti, fatturava all’incirca quattrocentonovanta milioni di lire l’anno. Ebbene, io già il primo anno, lo porto a un miliardo e settecento milioni di lire” “Accipicchia! In un anno hai più che triplicato il fatturato! Come hai fatto?”
“’Ogni nostra cognizione prencipia da sentimenti’. Le persone quasi mai usano la ragione quando fanno acquisti, semmai razionalizzano dopo. Sono le emozioni che ci guidano, sempre e comunque, nelle spese che facciamo” “Sai che emozione andare a mangiare nel ristorante di un albergo!” “E’ proprio questo il punto. Eppure mi hai detto di aver lavorato in Ciga Hotels. Lì ognuno dei diciannove alberghi della Compagnia aveva uno chef rinomato” “Questo senza dubbio. Ma io sento ancora sotto i polpastrelli la preziosità delle tovaglie, la bellezza delle stoviglie, gli spazi ampi e il sorriso di benvenuto a casa che il maitre in primis ma poi tutta la brigata di sala sapeva rivolgere a ciascun cliente” “Vedi? L’hai detto. Il cliente non è un ospite. Il cliente è il padrone che torna a casa sua. Fin da subito io ho voluto prestare la massima attenzione al cliente, ovvero al padrone di casa perché era lui che, alla fine dei salmi, mi pagava lo stipendio. Non solo a me, ma anche a tutti i miei collaboratori.
“Vuoi dire che il lavoro dello chef comincia dalla sala?” “Il lavoro dello chef comincia dalla testa. Bisogna organizzare l’accoglienza, il servizio, la preparazione dei cibi. Ci vuole l’atmosfera giusta. Quella non la fanno solo gli arredi. La fanno chi gli ambienti li anima. Sicché ho coinvolto tutto il personale in sala a concentrarsi sul cliente. I commensali che venivano da noi, prima che sottoponessi il servizio ristorazione dell’albergo alla mia cura ricostituente, erano soliti venire a tavola, quando erano soli, portandosi dietro un giornale, un libro. Ho fatto riflettere il mio staff su questo fenomeno e siamo giunti alla conclusione che il cliente che veniva a mangiare in sala, soprattutto se solo, lo faceva per assolvere una funzione necessaria a soddisfare un suo bisogno primario: alimentarsi. Di certo non pensava davvero che avrebbe anche potuto divertirsi, gioire. Per questo, per farsi compagnia, si portava da leggere. Come dire: almeno il tempo passerà più in fretta. Questo non andava bene, io non lo potevo accettare.
“Mangiare, caro mio, non è solo inghiottire una pietanza. E’ un’esperienza sensoriale completa. Tutto l’ambiente deve palpitare nell’accogliere chi si appresta a gustare del cibo. L’arredo, le stoviglie, lo spazio, il personale e, ovviamente, la qualità del prodotto. Ho dato così istruzioni al mio personale di stringere un legame col cliente per intercettarne le aspettative. Il nostro compito sarebbe stato rassicurare il cliente sulla possibilità di trovare soddisfazione piena e completa di un suo bisogno che da primario, basico, scontato, doveva trascolorare nel desiderio di gratificazione, di appagamento, di soddisfazione.
“Volevo che passasse il messaggio che quando ci si siede a tavola, anche quando lo si fa da soli, si vuole non limitarsi a colmare un vuoto, un bisogno, ma si vuole anche e forse soprattutto gioire e sorridere. Con questa visione in testa, chi opera in sala, deve rassicurare il cliente sulla propria capacità che va oltre il fatto di servire correttamente quel piatto suggerito dal menu scorso magari in fretta e distrattamente del cliente, in fondo, sono sempre le solite cose, ma nell’offrire ascolto incondizionato, disponibilità a esplorare, offrire un interesse genuino nella ricerca di qualcosa di nuovo, di inatteso, di appagante.
“Se poi il cliente intendeva respingere ogni nostro approccio e continuare a leggere il giornale, per carità, padronissimo. Ma quando circondi la gente d’attenzioni e di sostanza, le cose cambiano. E così ho preparato dei buffet per la prima colazione lunghi 30 metri di sfiziosità buonissime, per i pranzi di lavoro stavo attento a mixare con sapienza gusto, quantità, curiosità, sostanza e rassicurazione e poi a cena potevo permettermi qualche, chiamiamola licenza” “Tipo?” “Pesce spada al pepe rosa; risotto perlage con gamberetti e il rosso del radicchio; spaghetti allo scoglio serviti in pignatta. A cena riuscivo ad avere ogni sera dai sessanta ai settanta coperti” “Vent’anni di fuoco!” “Davvero: Qui per 20 anni ho fatto fuoco e fiamme. Sono centinaia le persone che, lavorando nelle multinazionali di viale Sarca, venivano a mangiare da me”
“E poi?” “Nel 2016 ho preso Il Carpaccio. Ho voluto mantenerne il nome. Come hai visto la cucina l’ho completamente ristrutturata” “Anche questa non solo per soddisfare il principio della massima efficienza, suppongo” “Alludi a queste grandi vetrate vero? Chi passa per strada può vedere che cosa combiniamo: non di rado la gente si ferma come a osservare l’esposizione in vetrina. Chi è in sala invece sono sicuro sia rassicurato dal fatto che la sua pietanza venga preparata in modo trasparente, direttamente davanti ai suoi occhi”
I valori
“Io ho un solo modo di fare cucina. Ho comandato delle grosse brigate. Mi chiedi che cosa insegnerei a giovane che voglia fare il cuoco? Di cominciare dalla gavetta. Questi ragazzi escono dalle scuole alberghiere che non sanno distinguere gli attrezzi di lavoro ma nemmeno se ne rendono conto. Alla televisione vedono quei programmi e pensano che basti un cappello e un grembiule per fare un cuoco. Lo so che esagero, ma i ragazzi devono imparare l’umiltà” “Mi fai venire in mente il mio chef tedesco che in quel ristorante di Stoccarda dove lavoravo aveva affisso sul muro queste regole: pensa me le ricordo ancora, tanto era il terrore che incuteva” “E quali erano queste regole?” “Eccole: 1) Non protestare mai. 2) Non esiste giustizia in questa cucina. 3) Non esiste democrazia in questa cucina. 4) In questa cucina vige un regime di terrore. 5) Prima di aprire bocca, torna alla regola numero 1” “Beh, sicuramente eccessivo nell’articolazione del discorso ma alla fine dei salmi, per certi versi, nello spirito del ragionamento che c’è dietro, anch’io convengo” Marco ridendo interviene: “Sai qual è il motto del mio babbo? ‘E’ quella o è quella’”
“L’avrei a sapere. Anche a me dicevano da bambino: ‘zitto e mosca’. Che cosa volevano rammentarmi? Volevano sgridarmi? Volevano annunciarmi una punizione?” “Ma è chiaro: se si sente volare una mosca vuol dire che nell’ambiente c’è abbastanza silenzio. Quella è la giusta disposizione per ricevere ordini e ammaestramenti. Questo è il clima ‘giusto’ per un apprendista in cucina. Ti faccio vedere, ti mostro come si fa. Tu fai domande. Se non capisci poi ti spiego. Sono tante le cose da apprendere: che cos’è un taglio di carne, come si trita l’aglio, come impugnare bene la padella. Eh sì, ne ho tirati su parecchi di cuochi, mica insegnando loro solo come si frigge sai! Questo è un mestiere che vuol vedere l’uomo in viso! Bisogna fare tanti sacrifici. Gli altri vanno a divertirsi e tu lavori. Di solito fin dalle cinque la mattina e si finisce … quando? Quando il servizio è finito. Semplice. Sicché tu non resisti se dentro non ti brucia una gran fiamma
“Insomma, una filosofia di vita, mi pare di capire” “Certo, però ci vuole anche destrezza. Come la si acquisisce? Cominciando dalle cose più semplici. Apparentemente semplici. Vuoi vedere la maestria di un cuoco? Chiedigli che ti prepari un piatto di spaghetti al pomodoro. Li sai fare anche te, no? Scommetti però che se ti lo fo io, tu rimani a bocca aperta? Oppure chiedigli che ti prepari un brodo. Il brodo è la prima risorsa in cucina. Serve dappertutto, per le carni, per il pesce. Dovunque. Ebbene, fallo. Lì ti accorgi di quanta maestria, sapienza e sensibilità ha in concreto lo chef.
Mentre Silvestro finisce di preparare una delle sue tante specialità, vedo gli occhi di Claudia, lo sguardo di Marco attenti e concentrati su di lui, su ciò che fa e soprattutto su come lo fa. Ecco allora che il grande Leonardo sembra materializzarsi in questa cucina che, son sicuro, sarebbe piaciuta anche a lui, perfetta, razionale per realizzare col cuore ciò che la mente ha divisato. ‘Ogni nostra cognizione prencipia de sentimenti’.