“M’è scoppiato il cliente” – Storia del Santo Bevitore in via Aleardi a Milano
Il motto
“Daniele, ce l’hai un motto per il tuo ristorante?” “Sì, come no!” “E qual è?” “Non avercelo” “Con qualcuno in particolare? Con l’umanità in genere?” “Ma va! Non avercelo proprio il motto” “Ma dai, anche questo è un motto” “Bah, se lo fosse, sarebbe comunque l’unico che mi potrebbe rappresentare” “Però un motto serve a identificare una famiglia, un personaggio. Simbolizza un’impresa” “Ah si?”
No, Daniele non è proprio uomo da proclami, da dichiarazioni d’intenti. Da motti altisonanti. E’ un uomo del fare. Niente affatto scabro, sa leggere l’interlocutore e conosce la tecnica per rapportarsi al cliente con efficacia. Non compiace, quello no: è curioso, indagatore. “Vedi, per fare ristorazione che piaccia, che soddisfi la clientela, bisogna cercare, guardarsi intorno, andare a scoprire spunti, intercettare idee, ispirarsi”
“Studi i libri dei grandi chef?” “Si, anche, ma non è questo il punto” “E quale sarebbe, allora?” “Fare il cliente” “Vuoi dire che vai a sperimentare le cucine degli altri ristoranti?” “Perché no?” “Beh, certo, sembra una buona idea. Dagli errori degli altri si impara un sacco” “No guarda, non hai capito. Io non vado in giro a dare i voti. Non mi interessa giudicare, valutare, tranciare giudizi” “E allora perché t’infili nei ristoranti degli altri?” “Perché mi piace mettermi nei panni del cliente. E’ così che imparo”
Daniele si accorge che non lo sto capendo. “A te piace andare a mangiare al ristorante?” mi fa. “Hai voglia!” “Perché?” “Ma come perché? Per assaggiare qualcosa di speciale, per festeggiare una ricorrenza, per provare un posto che m’hanno detto vale davvero la pena … per mille altri motivi, di solito tutti assai goderecci …” “Anch’io, che credi? A differenza tua però che a stento distingui un vino bianco da uno rosso, e la carne dal pesce, io me ne intendo” Abbozzo. Che dirgli? “Allora dopo diventa una sfida fare meglio, eh?” “No, non è una sfida: è uno stimolo” C’è cascato: ora attacco: “Così quando vengo a mangiare da te, se mangio così bene, devo dire grazie ai tanti altri ristoratori che hai provato?” Daniele non fa una piega: “Perché no? C’è sempre da imparare: ma la nostra carbonara ti sembra uguale a quella che hai già assaggiato chissà quante volte e chissà in quanti posti?” “Eh no!” “Ecco, vedi?”
I fornitori
“Uhm! Hai l’ingrediente segreto?” “Ma figurati. In cucina di segreto non ci deve essere niente” “Ma come! Io so che i grandi chef sono gelosissimi riguardo alle loro preparazioni” Ecco di nuovo lo sguardo di Daniele che mi passa attraverso. Poi si alza per salutare un tizio che spinge un carrello con su delle casse di vino. “Ciao Luigi? Come va? Cosa m’hai portato? Ah, va bene. Ti faccio l’assegno?” Questo siparietto con fornitori che s’avvicendano nell’arco di un’ora, spingendo carrelli, capita tre volte. “Accipicchia che movimento!” “Che cosa hai notato?” “Riguardo a che cosa, scusa?” “Ti sei accorto che i tre fornitori che sono entrati, tutti e tre mi hanno portato ciascuno sei confezioni di vino?” “Francamente no. Però se tutti e tre ti hanno portato il vino, non ti conviene di più scegliere un unico fornitore?” “Forse si” “E perché non lo fai?” “Vedi, Luigi ha dei rossi vellutati e corposi che i miei clienti hanno dimostrato di apprezzare parecchio” “Vuoi dirmi che selezioni i fornitori in base a criteri specifici?” “Certo che si. E’ nell’acquisto il primo guadagno. E il mio primo guadagno sta nella reputazione. Chi viene da me sa che può trovare qualcosa di veramente particolare, qualcosa che non è facile trovare”
“Il vino è proprio materia tua, sei un sommelier e quindi mi taccio. Ma fai così per ogni fornitore? Li vuoi mettere tutti in concorrenza fra di loro?” “Non è quello che mi interessa. Io giro, esco, chiedo, parlo, visito, provo per trovare il giusto fornitore per ogni aspetto della cucina” “Certo che in questo modo consumi un sacco di tempo e probabilmente fai più fatica a stare dietro a tanti fornitori. Oggi va di moda la semplificazione” “Se però tu cerchi la migliore qualità possibile in ciascun ambito, non ti puoi accontentare. Ognuno dei miei fornitori è specializzato, ricercato per un solo prodotto: esempio chi ci fornisce il caffè fa una miscela apposta per noi; e così quello delle carni speciali, delle verdure speciali. Prendi il fornitore del pesce: tante volte sembra quasi che se ne freghi di ciò che gli ho chiesto, sia in quantità che in qualità. Però questo benedetto uomo è capace di arrivarmi con una cernia da venti chili e che faccio? Gliela lascio?”
Siccome sto zitto, Daniele continua: “Arriva qua in prima mattinata: mi chiama in strada, mi mette una mano sulla spalla, sembra quasi mi chieda di chiudere gli occhi un momento e poi apre la porta del furgone. Miracolo! Mi s’apre davanti il mare. Come fa a starci il mare in quel furgone? Eppure è così” “Capisco il vino, la carne, il pesce ma di certo per la verdura non farai tanta ricerca, no?” “Patrizio è il mio ortolano di fiducia: tutte le volte mi raccomando. Oh, vieni presto così in cucina ho più tempo per preparare le verdure” “E lui?” “Mai una volta che ce la fa. Ma quando arriva, con le unghie orlate di terra, mi consegna i prodotti del suo orto che sono uno spettacolo. E allora, via tutti di corsa in cucina a spignattare. E bisogna correre perché è già tardi”
La brigata di cucina
“Mi ha sempre colpito il tuo personale: son tutti ragazzi giovani!” “I giovani si possono plasmare meglio. Di solito sono disponibili, vogliono imparare” “Si ma la cucina è, di solito, un inferno, dove non c’è tanto spazio e attenzione per la formazione” “La nostra squadra è molto snella: da noi l’ordine gerarchico non si avverte quasi e comunque non è per nulla rigido, formale” “Ho visto infatti che mangiate sempre tutti insieme” “E questo ti colpisce?” “Non sai quanto. Quando ero molto giovane, nel secolo scorso, ho fatto l’addetto alla plonge in un grande ristorante in Germania. Qui lo chef sedeva, ma che dico, troneggiava, circondato da tutti i suoi riporti. Noi, garzoni di cucina, dovevamo servirli e riverirli. Quando loro, gli chef, avevano finito, dopo aver sparecchiato, solo allora ci era concesso sederci anche a noi a tavola. Ovviamente in un’altra, ben discosta da quella dove loro avevano mangiato”
“La gerarchia è tanto più rigida e strutturata, quanto più grande è l’ambiente. Nei grandi alberghi di una volta, nei ristoranti da centinaia di coperti, è ovviamente anche necessario. Noi siamo una struttura snella e non abbiamo bisogno di tanti orpelli. E poi comunque abbiamo fatto una scelta di fondo. Noi crediamo parecchio nella partecipazione, nel coinvolgimento delle persone che lavorano con noi” “Mi rendo conto che questo è di sicuro un modo intelligente per favorire l’impegno, la spesa di sé, la dedizione da parte di questi ragazzi” “Si, anche. Ma non è così biecamente strumentale. Ti rendi conto no? quanto tempo questo atteggiamento richiede di investire” “Si, è vero. Tutta questa cura verso il personale corre il rischio di sottrarvi un sacco di tempo al vostro privato” “Macché rischio: è una certezza. D’altra parte, siccome i nostri dipendenti sono tutti giovani, a loro sembra normale concepire Rita ed il sottoscritto quasi come un’altra famiglia per loro” “E forse, data la quantità di tempo che impegnate ogni giorno ..”
“Dalle quattordici alle quindici ore!” “Appunto. C’è anche il caso che per questi ragazzi voi rappresentiate, per così dire, la famiglia di riferimento” “E’ proprio così. Pensa che qualche volta ci chiedono addirittura quei consigli che di solito si cercano dai propri genitori. A tavola spesso si fa il punto della situazione e capita un sacco di volte che si discorra di questioni personali” “Perché lo fate?” “In tutta franchezza, a volte ce lo chiediamo” “E che cosa vi rispondete? Trovate vantaggioso dare loro tutta questa confidenza?” “No guarda, sei fuori strada. Non si tratta di confidenza. È rispetto, è attenzione, D’altra parte se noi vogliamo che il nostro cliente sia trattato con tutto il riguardo possibile, è necessario che si cominci dai propri dipendenti, sennò non c’è coerenza, non ti pare?”
I clienti
“Appunto i clienti. Chi sono i tuoi clienti?” “Beh ci sono quelli di passaggio, i turisti e quelli che invece possiamo definire degli habituè. Ci sono quelli che vengono sempre da soli e quelli che sono sempre in compagnia” “Qualche preferenza?” “Un oste, caro mio, non ha preferenze. Accoglie tutti con lo stesso entusiasmo” “Raccontamela giusta, Daniele” “Non mi credi? Sbagli. Sarebbe contro il mio interesse trattare male qualcuno …. “ “Però sarebbe umano, dai! I clienti non sono tutti uguali. Ci sarà di sicuro qualcuno più garbato e qualcun altro che magari, come dire, soffri un po’, no? Quasi quasi vorresti che nemmeno si fosse affacciato nel tuo ristorante” “Guarda, una volta m’è capitato che s’era fatto un po’ tardi, avremmo voluto volentieri chiudere il bandone, ”perché poi, dopo che l’ultimo ospite se n’è andato, bisogna rassettare, rimettere a posto la cucina. Non succede che noi usciamo insieme all’ultimo cliente, sai?” “Immagino. Allora che è successo?” “Guarda, questa storia ha dell’incredibile. Entra un signore, leggermente barcollante sulle gambe, ma tutto sommato m’è sembrato in sé. Io ero qui, alla cassa, stavo riguardando i conti. In sala c’era rimasta una coppietta che tubava e Rita ed io aspettavamo pazientemente che se ne uscissero … “ “Beh, e allora?” “Insomma, questo tizio entra, s’avvicina al bancone, appoggia una banconota da cinquanta euro e mi chiede un whisky. Gli rispondo che noi non facciamo bar. Per tutta risposta quello ripete le stesse esatte parole, come se non mi avesse minimamente ascoltato. Anch’io gli ripeto esattamente quello che gli avevo appena detto. Ma lui non se ne dà per inteso. Insomma, dopo un altro paio di scambi di questo tenore, il balletto cominciava a stancarmi …” “E allora che hai fatto?” “Gli ho servito il whisky, che altro avrei dovuto fare?” “E poi che è successo?” “Il tizio ha bevuto e poi se n’è andato. “ “Beh, che c’è di così strano?” “Che dopo pochi minuti che questo personaggio se n’è uscito dal ristorante, vediamo passare davanti all’uscio, di corsa una ragazza tutta agitata, inseguita proprio da lui” “Da quel tipo del whisky? No! E tu che hai fatto allora?” “Sono uscito di corsa perché ho pensato che quella ragazza fosse in pericolo. Ero già pronto a mollargli due cartoni a quel ceffo lì …” “Dai, ganzo, Daniele il giustiziere … E … e com’è che è finita? Gliele hai date?” “Li ho trovati abbracciati, dietro l’angolo, stretti stretti, si baciavano appassionatamente” “Ma che gli avevi messo nel whisky a quello lì, eh?”
“Vuoi saperne un’altra riguardo ai clienti che amo di meno?” “Dai racconta” “Anche qui eravamo vicino alla chiusura. La sala era praticamente vuota. Mentre Rita rassettava da una parte, io rassettavo dall’altra ma con la coda dell’occhio, osservavo una coppietta che si teneva teneramente per mano, bisbigliando fra di loro” “Beh? I tuoi cibi sono spesso afrodisiaci. Te ne meravigli?” “Stai zitto. Accanto alla mano dell’uomo c’era il conto e quando mi avvicino perché m’era sembrato che il signore volesse pagare, questo mi dice d’aver mangiato benissimo. Io lo ringrazio ma non faccio a tempo a concludere che questo tipo mi gela” “No! Che ha fatto?” “Mi fa: peccato però per il vino” “Lo guardo e gli chiedo che cos’è che non andava col vino” “E lui?” “Si lancia in un contorto discorso dove per me era palese lo scopo che s’era prefisso” “Non pagare?” “Ma no, voleva fare effetto sulla donzella che l’accompagnava” “Ma alla fine dei salmi che t’ha detto?” “Ha esordito sostenendo una cosa giusta: io gli avevo servito del torbato e lui osserva che il torbato vendemmiato a settembre riscopre una preziosa nervatura acida …” “Che vuol dire?” “Aspetta: aggiunge lodando i profumi floreali tipici di un vino appena fermentato … “ “Non capisco nulla: ma non mi paiono espressioni tipiche di uno che non gli è piaciuto ciò che ha bevuto” “Poi però ha concluso: peccato per quel naso spiccatamente floreale. Erano del tutto assenti, secondo lui, le sensazioni di biancospino ma soprattutto la bocca dal perlage brioso, ampio e deciso” “Mamma mia! Ma chi era? Un sommelier di quelli con la grolla attaccata al collo?” “Non saprei. Gli ho solo chiesto se per accorgersene aveva bisogno che gli strizzassi ancora un po’ la bottiglia, visto che di vino non ce n’era rimasto nemmeno un dito”
“Beh, ti saranno capitati chissà quanti clienti con esigenze particolari ..” “Si, ma quelli fanno parte del gioco. Ci sta che a uno non piacciano, che ne so: i carciofi o un altro che aborre le cipolle” “Avrai avuto anche dei vegani, no?” “Ma si, ti dico: queste persone per me non costituiscono un problema. Hanno dei gusti, delle inclinazioni, vengono nel mio ristorante e il mio impegno è quello di far sì che non si pentano della scelta, anzi, che ritornino!” “E allora, che cos’è che ti turba?” “Turbare è una parola grossa. Diciamo che mi mettono un po’ in apprensione quelli che hanno delle intolleranze o che magari, che ne so, mangiano un sugo di noci e diventano subito paonazzi, rischiano di soffocare” “Ci credo, un bel problema. Tu che fai quando succede una cosa del genere” “E no, non deve proprio succedere una cosa del genere. Io sempre m’informo se c’è qualche idiosincrasia o qualche esigenza dietetica” “Bravo, così ti metti al riparo dai guai”
“Continui a non capire. Non è per me, è per il cliente del cui benessere mi sento responsabile. Per esempio, un giorno viene da me, in allegra brigata una bella e gentilissima signora che, appena preso il menù, mi sussurra d’essere celiaca. Io immediatamente la rassicuro che in cucina siamo perfettamente attrezzati per tenere separati preparazioni, cibi, tegami e quanto altro per evitare ogni rischio di contaminazione. Sicché le faccio preparare degli spaghettini senza glutine, e poi altre pietanze, ora non mi ricordo di preciso, ma tutte incontaminate. Avevo avvertito in cucina che fossero tutti al massimo livello d’attenzione e che non avrei tollerato distrazioni. Insomma, il pranzo per questi ospiti, fra cui c’era la signora che soffriva di celiachia, procede benissimo. Mi riempiono tutti di grandi complimenti e, ben satolli, si lasciano andare contro lo schienale della sedia e si predispongono ad assaggiare quei liquorini artigianali che offro a fine pasto. Tu sai che abbiamo anche una pasticceria fine che siamo soliti porgere col caffè” “Oh sì, sono proprio squisiti quei dolcetti” “Già, ma sono fatti con la farina bianca per cui, seppure in quantità magari infinitesimali, di glutine ce n’è in ogni granello di farina” “E tu li hai messi in tavola lo stesso?” “Attento: celiaca a quel tavolo era solo la signora. Perciò io l’ho avvertita che non doveva neanche guardarli quei dolcetti” “E lei che ha fatto?” “Ne ha fatto una scorpacciata” “No! E tu che le hai detto?” “Mi sono messo le mani nei capelli” “E la signora?” “Sai che m’ha detto? Mamma che buoni!”
“Questo deve essere stato proprio un caso limite” “Non credere. C’è anche capitato qualche volta di conversare con dei clienti che si sono raccomandati perché li aiutassimo a rispettare la dieta che dovevano osservare” “Cioè? Che cosa avreste dovuto fare secondo loro?” “Di preciso non lo so. Però mi ricordo quella signora che m’ha fatto vedere lo schema che gli aveva preparato il dietologo. Bene. Quel giorno, a cena, non avrebbe dovuto mangiare il primo, semmai due fettine di prosciutto come entrée e poi un bel petto di pollo alla griglia con tanta verdura cruda, quanta ne avesse voluta” “Che tristezza” “Infatti io le ho subito proposto delle varianti, assolutamente rispettose delle calorie che avrebbe dovuto assumere, ma, come dire, un filo più appetitose. La signora m’ha ascoltato bene bene e poi sai cosa m’ha chiesto?” “No, dimmelo tu” “Una parmigiana super condita” “Evviva la coerenza” “Si ma s’è anche raccomandata che le portassi una conca di verdura cruda. Sa, per la dieta, m’ha fatto”
“Certo che da te si trova sempre del vino eccezionale” “Mi fa piacere che tu lo dica. L’altro giorno è arrivato un signore e quando gli ho proposto la carta dei vini, m’ha guardato come se fossi entrato in chiesa con un cane. Sono assolutamente astemio, mi fa” “Bah, ho pensato dentro di me, mi dispiace per lei; ovviamente mi sono premurato di chiedergli se avrebbe voluto dell’acqua liscia o gassata. Poi, presa la comanda, lo lascio a meditare col suo giornale. Dopo qualche minuto mi chiama e mi chiede di portargli un calice di bollicine. Gli era venuto voglia all’improvviso, solleticato forse da quell’antipastino di pesce sai … “ “Certo che sì! Mi vengono le goccioline a pensarci” “Così gli porto il calice ma non ho fatto a tempo a girarmi che me ne chiede un altro, perché gli era venuta una gran sete. Nota che la bottiglia dell’acqua era lì, sul tavolo, ancora intatta. Naturalmente io non ho fatto motto e mi sono premurato di portargliene un altro. Anche questo ha avuto vita breve. A questo punto chiedo se per caso ne vuole ancora e lui, senza profferir verbo, protende il braccio dal quale spuntava il calice vuoto” “Ho bell’e capito. E’ andato via ciucco” “Allegro ecco, di molto allegro. A me è toccato a far la maratona fra il desco e il suo tavolo. Ma secondo me s’è divertito di più lui”
“M’hai detto che tanti dei tuoi ospiti sono dei veri e propri habitué” “Si è vero. Ci sono signori che vengono tutti i giorni che Dio mette in terra, sempre a pranzo. Altri che invece solo a cena e questi sono i più affamati e assetati perché, per lavoro, non hanno mangiato nulla dal mattino e quando si presentano da me, sbranerebbero un cinghiale” “Che pretese hanno questi ospiti?” “Mah, che ti devo dire? Normali, insomma, vogliono mangiare cose appetitose e ti danno un sacco di soddisfazione” “Qualcuno in particolare?” “Beh c’è un signore che arriva col suo I pad, un fascio di giornali sotto braccio. Entra, saluta con cordialità e poi si va a sedere, di preferenza sempre nel solito posto. Io lo so e faccio in modo che quel tavolo resti sempre libero per lui.” “Va bene, ma non mi sembra in fondo una grande stravaganza” “Per nulla. La cosa carina è che lui si siede, scartabella le sue carte e aspetta” “Aspetterà che tu vada a raccomandargli qualcosa di particolarmente gustoso, diverso, che ne so …” “Niente affatto. Lui aspetta che noi lo si serva” “Ma quale pietanza? Se ho capito bene, non ha mica ordinato, no?” “Si, infatti, lui non ordina mai, aspetta tranquillo, chino sulle sue carte che poi mette via appena gli porto il piatto fumante” “E non ha mai detto, che ne so? Questo mi piace di più, questo di meno?”. “Macché. Lui mangia tutto quello che gli mettiamo davanti in religioso silenzio. Poi si alza, paga, saluta cordialmente e se ne va” “Torna sempre?” “Puntuale come un orologio svizzero, tutti i giorni della settimana” “Beh, averne di clienti così!” “Noi gli siamo affezionati, ci mancherebbe. Ma soprattutto le prime volte, avevamo un’ansia addosso. E se lo deludo? E se per caso questa cosa non gli piace? All’inizio, i primi tempi è stato un enorme stress” “E ora?” “No. Ora siamo solo contenti quando arriva. Il suo tornare così assiduo ci riempie di gioia. Si affida completamente e lo si capisce che è contento di trovarci ogni giorno qui, ad aspettarlo” “Più che apprezzare voi, secondo me apprezzerà i manicaretti che gli ammannite” “Dove sta la differenza?”
“Perché hai messo foto delle pietanze nel menù?” “Servono molto agli stranieri. Possono raccapezzarsi meglio. E poi sai, soprattutto i nord europei, quando vengono a trovarci, di solito sono capitati da noi più per caso che per scelta. All’inizio sembrano diffidenti. Si vede che hanno paura di prendere una fregatura. Per cui sono estremamente cauti, prudenti. Prima di scegliere si consultano a lungo fra di loro, ci chiedono un sacco di dettagli. Le foto in qualche modo li aiutano ad orientarsi un po’ di più” “E di solito come va a finire?” “Che s’entusiasmano e vogliono assaggiare quello, quell’altro e quell’altro ancora” “Che cos’è che mangiano più volentieri?” “La pasta piace un sacco. Quella che facciamo noi mi sembra che li faccia letteralmente impazzire. Allora ci mettiamo anche un po’ a giocare con loro. Portiamo loro forchetta e coltello perché così possono tagliarli gli spaghetti e venirne a capo con più facilità. È capitato anche che qualcuno sia rimasto letteralmente fulminato da un pecorino buonissimo che ho avuto. Insomma, non c’è stato verso: non se n’è andato finché non gli ho incartato una forma di cacio da portarsi via”. Le ultime parole quasi non le sento: sto scappando con un quintale di pecorino appena arraffato. Sento Rita apostrofare Daniele: “T’è scappato il cliente”