Testa velata e sguardo aperto

Monastero di Santa Umiltà

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La Storia

“Sai Marzia – faccio alla fotografa andando a Faenza a trovare le Suore – sapessi come m’hanno accolto l’altra volta che sono andato a trovarle: con le campane!”.

“Ma smettila – sorride lei, sapendo quanto mi diverta a giocare – “Stiamo per andare in convento ed io, ecco, avrò mille problemi.” “E perché mai?”. “Ma ti rendi conto? Le monache come le distingui l’una dall’altra? Son tutte uguali. Fotografarle creativamente, dar loro un’anima sarà difficilissimo”. Allora, paterno, sapendo benissimo di farla andare giù di testa, le faccio: “Vedi figliola…” Un urlo mi stoppa. Capisco di stare esagerando, mi scuso e spiego: “Marzia, tu non hai idea. Queste ragazze, e ti giuro che non sto mancando loro di rispetto, sono fantastiche. Vitali, briose, giovanili e con la mente aperta. La Madre Superiora m’ha detto che sono contente di incontrarci. Sono curiose”.

Non replica nulla. Che l’abbia convinta? Ormai siamo arrivati. Non c’è più tempo. Suono al convento. Ecco la Madre Superiora che m’accoglie festosa e sorridente. Ci fa passare in quella che, in una casa di una volta, si sarebbe chiamato “il salotto buono”.

Loro, le protagoniste, introdotte dalla Abbadessa, Madre Gian Paola, entrano una alla volta. Per ognuna ha un’attenzione particolare, una parola speciale. “Ecco qui Suor Alice: lei è nata in Brasile, ha degli occhi da non credere”. Quando era più giovane, proprio per quegli occhi, le persone che la conoscevano la fermavano. “Ed io – racconta Suor Alice – tutta presa nei miei pensieri, sentendomi chiamare trasalivo”. “In tal modo spalancava ancor di più quei fanali verde acqua affascinando tutto il mondo circostante” conclude Madre Gian Paola.

Ecco Suor Caterina e Suor Alfonsa, due monache indiane giovanissime. Timide, riservate e schive non smettono mai d’esser comunque sorridenti, accoglienti e ospitali. Si accomoda anche Suor Cristina, che tira fuori dalla veste un foglio ripiegato in quattro. “La sorella vi ha preparato con tanta diligenza il suo racconto”.

Prima che faccia in tempo a dispiegare il foglio si presenta Suor Maria Imelde, la decana del monastero.

“Ci siamo tutti?” No, manca ancora Suor Mirella.

“Son qui, son qui. Cos’è questa fretta?”. “È una sua conterranea”, fa Madre Gian Paola, rivolta a me. “I toscani, lei lo saprà bene, hanno sempre voglia di scherzare”.

“È proprio vero – confermo – Ma anche la nostra Marzia che pure non è toscana, ha un senso dello humor straordinario. Guardate questa foto” e mostro una fotografia, in bianco e nera, di sei suore affacciate da una balaustra, su un panorama lontano. Le suore sono prese tutte di spalle, come a loro insaputa. “Ero a Castel Sant’Elmo – spiega Marzia – sulla collina del Vomero, e queste sorelle si beavano della vista straordinaria di Napoli sottostante. Vi piace?”. Suor Mirella ci gela: “Cos’è ‘sta foto? È brutta” dice con aria finta aggressiva. Siccome Suor Mirella si vede che ride di nascosto, non c’è gelo né imbarazzo fra tutti i presenti. C’è solo attesa di quel che verrà dopo. Provo a giocare d’anticipo: “ E sì che volevamo regalarvela”. “Regalare oggi è morto”, fa Suor Mirella con quella sua divertita corrosività, tutta toscana.

La Madre Gian Paola invita allora Suor Mirella a raccontarci di quella volta, tanti anni fa, che si presentò in convento, rispondendo a una chiamata che né lei, né i suoi genitori, né i suoi amici mai avrebbero pensato potesse avere. “Ebbene sì. Io sono una convertita. Avrò avuto … quanto? Forse diciott’anni … e pur non avendone molta voglia, venni a cercare di conoscere più da vicino il monastero. Mi presentai e chiesi di poter entrare per vedere un po’”.

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“Già. Ti ricordi com’eri vestita?” chiede Madre Gian Paola. “Come fosse ora: con una gonnellina rosa appena sopra il ginocchio, gli stivali e un golfino blu attillato. Embè?”

La decana, Suor Imelde, invece, ci racconta di suo padre: “Mi amava tanto. Aveva una predilezione per me. Pensi che frequentava le scuole serali e alla sera mi faceva vedere, io all’epoca frequentavo la terza media, tutto orgoglioso i compiti che aveva svolto”. La voce della suora si vela di un filo di commozione: “Il giorno dopo avrei dovuto insegnargli a fare la divisione con la virgola.” Ma quel giorno non arrivò mai” fa Madre Gian Paola sfiorando la mano di Suor Imelde, che confortata, continua: “L’indomani il primo bombardamento di Faenza mi portò via tutta la famiglia. Tutti insieme. Io mi son salvata solo grazie alla mia curiosità.

Quando sentii gli aerei passare, bellissimi e altissimi, in formazione come le anatre, io che li avevo scorti dalla finestra, per vederli meglio corsi giù nell’aia. Come sono scampata? Non lo so: mi son trovata ginocchioni, fra cumuli di granaglie, pali per tirar su le viti e mucchi di barbabietola. Avevo la terra fino alle ginocchia: una volta nelle cantine non c’erano i pavimenti. Il pavimento era di terra battuta. Già: tutta quella terra era stata spazzata via dalle cantine perché la casa, la mia casa, con dentro i miei genitori, i miei fratelli, non c’era più. Scomparsa. Distrutta. Volatilizzata. Solo polvere e terra. Come tutta la mia famiglia ormai”.

Tutti abbassiamo gli occhi perché avvertiamo ancora oggi, dopo oltre 70 anni, lo strazio di quel momento. “Ora mi butto giù dalla terrazza, che ci sto a fare, io, da sola, qui, ormai? Che senso ha?” ricorda di aver pensato Suor Imelde. Invece, passano sei mesi e è “più forte e sana di prima”. Respinge la proposta d’entrare in un collegio per orfani, ma accetta l’ipotesi di andare in collegio dalle monache nella cui scuola già andava in precedenza. Siccome disegna bene, una volta diplomata maestra, il monastero la manda a Bologna a prendere il diploma del liceo artistico. Insegnerà per 46 anni. Tuttora dipinge. La Madre Abbadessa la invita a consegnare a me e a Marzia l’ultimo acquerello che ha dipinto, che sembra un sorriso nel cielo.

“Bello” fa Suor Cristina, un’altra suora che dell’insegnamento ha fatto la sua missione.

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“To be, or not to be–that is the question:
Whether ‘tis nobler in the mind to suffer
The slings and arrows of outrageous fortune
Or to take arms against a sea of troubles
And by opposing end them.”

No, non è Laurence Olivier e nemmeno Kennet Branagh, è suor Cristina che declama Amleto. Ci vuole rendere partecipi di quando lei, insegnante per quarantadue anni, coinvolgeva con le sue modalità appassionate e teatrali intere scolaresche. La vedo incedere per l’aula, le braccia alte che frustano l’aria mentre il volto assume un’infinità di aspetti. All’improvviso mi sembra d’avere di fronte la faccia di Carmelo Bene, con l’eleganza delle movenze di Vittorio Gassman. “Sa quanti eravamo in famiglia? – racconta suor Cristina – In undici eravamo. Undici figli. Uno di questi, Don Ercole, mio fratello, è stato missionario in Cina, in India, nelle Filippine. Mio padre faceva il sarto, ma era anche catechista dei salesiani. Tutti noi bambini, a turno, durante i pranzi e le cene in famiglia, dovevamo leggere brani della vita di un santo. Era un uomo di grande fede, e amava molto anche il teatro. Pensi che oggi un’importante Filodrammatica di Faenza porta ancora il suo nome”.

“ E lei Suor Alice – chiede Marzia- che cosa insegnava?”. “A far da mangiare!” risponde allegra. “Io non sapevo cucinare. Ma qui in monastero son entrata proprio dentro la pentola”. Da quarant’anni in convento, il suo lavoro è sempre stato entro le mura della cucina. “Ho imparato che sono cinque gli ingredienti della buona cucina: il primo è la volontà, l’impegno di fare tutto sempre al meglio; il secondo ingrediente è il tempo: ci vuole cura e dedizione spese con costanza. E poi ecco il terzo ingrediente, forse ovvio, ma mai dare per scontato l’ovvio: ci vuole pazienza. Questo termine non è solo una parola: è una vera e propria disposizione dell’animo che comporta la capacità di sopportazione di qualunque inciampo e disagio. Gli ultimi ingredienti sono la capacità di inventare e di realizzare nuovi abbinamenti, da sperimentare poi con creatività e fantasia”.

Ascoltando questa suora parlare tutta infervorata di cucina, la vedo dimenarsi sulla sedia: già la melodia della voce che echeggia ancora la sonorità del portoghese d’origine sembra una musica. Il movimento che compie sulla sedia accentua questo senso di fluidità. C’è una grande armonia fra il tono e il timbro di voce che adopera e il suono dei concetti che esprime: “Vedete – ci dice – Se volete un futuro bello, qualunque vocazione abbiate, non state fermi, applicate gli ingredienti che servono per cucinare bene. Non abbiate paura, muovetevi. Affrontate i leoni: se state fermi, vi mangeranno.”

Il poco che riusciamo a scoprire delle due giovani monache indiane ce lo racconta l’Abbadessa: Suor Alfonsa ha 23 anni ed è l’ultima nata di una grandissima famiglia verso la quale sente ancora una fortissima nostalgia. Suor Caterina ha 26 anni ed è invece la prima figlia di un’altrettanto grande famiglia. S’avverte chiaramente in loro il senso della responsabilità verso tutti i piccoli che hanno lasciato a Bangalore dove presto torneranno.

Anche Madre Gian Paola ha un fortissimo legame con quella terra lontana. Evoca il ricordo dei suoi viaggi a Bangalore, nel convento che hanno istituito e come ha seguito la formazione di queste due giovani novizie. D’altra parte la Madre, probabilmente anche a causa della vastissima famiglia d’origine costituita da ben ventotto membri, sente fortissimo il senso della solidarietà e dell’attenzione nei confronti degli altri.

“Che bella giornata, che belle persone”, esclama Marzia, finito il reportage e rientrata in auto. “Una più interessante dell’altra.” Ed io: “Te lo dicevo io: la gioventù non c’entra nulla con l’età anagrafica … “E lei, pungente: “Ma basta parlare sempre di te! Anagraficamente sei un matusa, ma ti senti un bambino! Me l’hai detto mille volte, che barba!” e ride. Faccio finta di nulla e magnanimo, proseguo: “Volevo dire che noi laici convinti, radicali nei nostri convincimenti, rischiamo di avere tanti pregiudizi, come per esempio dire che chi porta il velo ha la vista velata. In questo caso, mia cara, non m’è sembrato proprio. E a te?”

stannah

Da sempre realizziamo montascale per consentire libertà di movimento ai nostri clienti. Dall’ascolto dei loro racconti nasce il progetto Stannah Racconta, una raccolta di storie di uomini e donne straordinariamente ordinari.

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