Una vita e due passioni: la Sicilia e la scrittura. Storia di Egidio Cacciola

Questa meravigliosa avventura che mi è capitata, raccontare la vite degli altri, mi porta sovente ad imbattermi in figure fuori del comune.

Qualche giorno fa sono uscito dalla casa del dottor Egidio Cacciola ad Acireale, con un fascio di suoi libri sotto il braccio. Una dozzina di opere scritte da questo signore in una trentina d’anni, dagli anni ottanta ad oggi.

copertina

Mi aveva caldeggiato questo incontro l’amico e collega Cristiano. Così ero andato a trovarlo, curioso di conoscere uno scrittore del quale avevo letto appena due delle sue opere: ‘Il padre manca’, opera scritta a quattro mani con Anita Tania Giuga nel 2007 e ‘Il pianista’, opera apparsa nel 2009. “’Il pianista’ è ambientato in un locale vero, il Mocambo a Taormina” mi dice quando l’incontro. “Bella l’idea del sogno che dà vita ai diversi personaggi dell’affresco di fronte al quale l’artista suona la sua musica. Come le è nata l’idea?” “Come al solito. Qualcosa mi spunta nella testa, e allora mi metto lì, concentrato ed elaboro tutto il racconto dentro di me. Poi scrivo di getto. Come Sciascia, scrivo letteralmente dentro una nuvola di fumo: quando scrivo, infatti, fumo parecchio. Non ho nemmeno bisogno di ambientazioni particolari: che so, un eremo in montagna o una finestra davanti al mare. Scrivo dove capita. Quando ho terminato, tengo l’opera quattro mesi in un cassetto. A quel punto, trascorso questo tempo, comincia la rilettura”.

Non solo libri, anche direttore dell’aziende del turismo di Acireale

“Non ha potuto nella sua vita però dedicarsi solo alla scrittura, vero?”

“Sono stato direttore dell’azienda del turismo di Acireale dal 1990 al 2007. Ero impegnato nella ricerca e nella valorizzazione di spazi di accoglienza per rendere questa nostra terra sempre più conosciuta e apprezzata. La Sicilia è sempre stata fra l’altro lo sfondo del mio narrare. Posso dire che mi sono impegnato parecchio con tante iniziative avviate per divulgarne la conoscenza fra il pubblico ed attirare in questa terra il turismo da ogni dove. Anche in questo le sono rimasto fedele. E a tale riguardo ho avviato nel tempo tante iniziative. Un anno, mi ricordo, dovetti realizzare lo stand della regione Sicilia in Bahrein”

“Già. Fu quel Capodanno in cui – interviene sua moglie Daniela – “eravamo qui con tutti gli amici e tu sparisti proprio poco prima del brindisi per delle telefonate urgentissime” “Per forza, il giorno dopo sarebbe stato inaugurato lo stand e c’erano un sacco di questioni ancora in sospeso” “La capisco. Il lavoro è passione, deve prenderci, assorbirci. Ma senta, da ragazzo, che cosa sognava che avrebbe fatto da grande? Di che cosa avrebbe voluto occuparsi?” “Oh beh, avrei voluto occuparmi di politica, oppure fare il giornalista di politica estera. Sa in quegli anni, l’impegno politico era sentito, la spinta all’impegno, alla spesa di sé era un fenomeno diffuso fra gli studenti ma non solo, direi fra tutti i giovani era presente una volontà di testimoniare con forza la propria voglia di incidere nella vita quotidiana” “Ha fatto studi umanistici, suppongo” “Sì, certo. Sono laureato in scienze politiche con una tesi sull’URSS” “Ed in precedenza avrà fatto il classico, immagino” “Macché. Ho frequentato il liceo scientifico. Naturalmente dopo mi sono accorto d’aver del tutto sbagliato scuola. Ma che vuole, a tredici anni, è stata una scelta condizionata dal ‘gregge’, ovvero dai miei compagni di scuola delle medie. La maggior parte di loro si iscrisse allo scientifico ed io con loro”. “Presto le nasce però la voglia di scrivere. Ha magari frequentato delle scuole di scrittura apposite?” “No. Secondo me non è che servano a granché queste scuole.

Egidio Cacciola

Egidio Cacciola

Gli autori preferiti: i sudamericani Isabel Allende e Gabriel Garcia Marquez

A mio parere è necessario fare l’abitudine alla scrittura, prima di tutto leggendo tantissimo.” “C’è qualche scrittore da cui ha tratto ispirazione?” “Soprattutto i sudamericani: Allende e Marquez” “Che ne pensa delle innovazioni tecnologiche nell’ambito editoriale?” “Mi sembrano interessanti gli audiolibri, molto meno gli e-book” “Che suggerimenti darebbe a chi volesse diventare uno scrittore?” “Uno solo, ma fondamentale: non pensare mai al ritorno economico o a sognare di diventare famoso. Io ho scritto undici testi. Come scrittore solo in occasione delle presentazioni dei miei libri ho avuto un momento di celebrità”.

Quando sono tornato a casa ho disposto tutti i testi che il Dr. Cacciola e sua moglie mi avevano così cortesemente donato, in ordine di data di edizione. Il primo è stato edito nel 1985 e l’ultimo nel 2009. In questo mio articolo vorrei concentrarmi soltanto su due di questi testi, e non solo perché sono quelli che m’hanno appassionato di più. Lo spazio è tiranno, e così rimando il racconto degli altri a un’altra occasione. Comincio allora dalla prima opera: ‘L’immagine la memoria il tempo (Rosa), scritto proprio così, senza virgole d’interpunzione. La prefazione l’ha fatta Dario Bellezza, il poeta sensibile, molto apprezzato da Pasolini e a sua volta scopritore e valorizzatore di giovani talenti. Cacciola lo ha scritto a trent’anni, pubblicato da Pellicano Libri, lo stesso editore di Goliarda Sapienza, un’altra scoperta di Bellezza.

A trent’anni scrive “L’immagine la memoria il tempo (Rosa)”. La prefazione è di Dario Bellezza

In questo romanzo Rosa, la nonna dell’autore, è la protagonista che qui compare come l’io narrante della storia, anch’essa come tutte le altre storie raccontate da Cacciola, ambientata in Sicilia. Di questo libro mi affascina lo stile in cui è raccontata la vicenda: “Morta la madre, mia zia Tudda viveva con padre Alfio e il fratello Peppino nella casa dei massari del barone. Stavo con loro in quella casa buona parte dell’anno, allorché mia madre decideva di alleggerire il peso della sua grande famiglia mandandomi dal nonno e dagli zii”.

In poche righe entriamo in un mondo relativamente vicino, il primo trentennio dell’altro secolo, eppure sembra di vivere un’epoca remota in cui “Il nonno aveva le mani rosse e screpolate. Lo zio pure” per il duro lavoro. Ecco anche evidenziarsi la struttura antropologica del contesto: “Pure Tudda ch’era signorina da marito e mi voleva con lei per farle compagnia, perché mai signorina da marito deve stare sola in una casa solitaria di campagna. Anch’io sarei diventata signorina da marito e anch’io avrei cercato compagnia per non restare sola, signorina da marito”.

Le distinzioni di classe sono nette, invalicabili. “I baroni (…) non parlavano mai con i massari, salvo comandare i servizi. Badavano sempre al mondo dei ricchi che avevano in casa a loro piacere. Parlavano solo col monsù e si consigliavano per i pasti (…)” Allora se la classe d’appartenenza segregava le persone come in una gabbia, Rosa si rifugia nel sogno: “sognavo di addiventare la piùmmeglio monsù della zona per modo di parlare coi baroni e abitare la stanza al piano di sopra”.

Egidio Cacciola

Egidio Cacciola

Egidio Cacciola

Egidio Cacciola

Egidio Cacciola

Egidio Cacciola

Egidio Cacciola

Scopriamo Cacciola attraverso i suoi libri: “la storia di Tudda che sognava la città”

Ma se è vero che i sogni sono desideri, nella Sicilia degli anni Trenta, non era proprio come al cinema: “Una femmina non ci diventa monsù, solo a serva o a massara può lavorare una femmina”, disse la zia tenendo la testa bassa e facendosi a crocco con le gambe larghe.

Mi parve un’ingiustizia e mi dedicai ai fagioli”.  Ecco, per me c’è la magia di una bambina che guarda il mondo circostante, avida di vita. La città? Un miraggio lontano: “La città era un sogno, Tudda l’aveva vista una volta, c’era andata una volta per Pasqua a piedi. Una lunga passeggiata, tutta la famiglia, quando la nonna era ancora viva. E la famiglia povera del nonno voleva imitare una delle famiglie di ricchi che incontrarono per la via principale.

Spesero molti soldi, comprarono i dolci e le noci. Fecero i ricchi per un giorno speciale da ricordare. Mentre Tudda parlava, sognavo di essere la bambina di una famiglia che viveva nella città. Non importava se ricca o povera. Volevo stare nella città, dove c’era tanta gente e tanto conforto e non c’erano misteri e c’erano i Carabinieri che potevano venire a dare aiuto …”.

E poi ancora le fantasie da giovanetta non ancora adolescente: “Qualche giovanotto la guardava (zia Tudda, ndr), guardava la sua bellezza, e le sorrideva sfrontato. E lei abbassava gli occhi, contenta che qualche giovanotto la guardava e le sorrideva. Pensai che presto qualcuno sarebbe venuto dal nonno a chiederla in sposa e lei sarebbe stata contenta di diventare sposa e poi madre come sua madre che lei amava. E io sarei tornata dai miei, senza una signorina da marito alla quale fare compagnia, io ormai signorina da marito che doveva aspettare che un giovanotto le sorridesse davanti alla chiesa e chiedesse poi a mio padre di diventare mio sposo”.

Poi i ricordi s’infoscano perché c’è la prima guerra mondiale che divampa e viene ad inghiottire i giovani da arruolare anche qui nel più profondo sud: “Vennero due uomini – autorità, divisa nera e cappelli potenti. Chiesero dello zio e, quando l’ebbero innanzi rigido e timoroso, gli parlarono e io volevo capire. Volevo capire perché Tudda piangeva e Peppino rimaneva fermo, silenzioso, incerto tra orgoglio e paura: che avesse violato la legge delle autorità? Si avvicinò il nonno e concluse i suoi passi davanti ai due uomini forti e allo zio debole. (….)

Li guardammo allontanare col sole alle spalle; il nonno e lo zio impalati come ad ascoltare la voce della disgrazia, ma ancora uomini e perciò con espressioni ferme; Tudda singhiozzava e lasciava asciugare al sole e all’aria le sue lacrime; io travolta dai marosi dei pensieri senza dare una risposta. Finalmente il nonno pose un braccio sulle spalle di suo figlio e lo guidò verso casa, accompagnandolo con una tenerezza insolita per l’uomo padre forte che avevo sempre visto in lui. Tudda se li vide passare davanti e poi li seguì, rispettosa e sconvolta”.

Questa scena fa da preludio alla dolorosa partenza per il fronte: “C’erano madri e donne e vecchi in quella stazione che assisteva alla partenza dei ragazzi. E quando il treno mosse, lasciando navigare il suo fumo nell’aria e nel sole, restarono solo donne vecchi e qualche bambino, nella nostra terra senza più uomini. E l’ultimo vagone con gli uomini e gli spiriti scomparve inghiottito dalla curva lontana, mentre il cielo beveva l’ultimo sorso di fumo. Tutti piangevano nella stazione e ritraevano verso il basso le mille mani tese al cielo, nell’ultimo saluto”.

Ci si consuma nell’attesa del ritorno del figlio dalla guerra: “E’ già un mese – disse il nonno che prese forma dietro alla nuvola di fumo e nell’odore del tabacco. Tudda si girò, lasciando sospeso a mezz’aria il mestolo di legno che gocciolava umore nella pentola di terracotta rossa. I suoi occhi si posarono sull’uomo di fumo e di tabacco, lo interrogarono, attesero un movimento, un altro movimento delle sue labbra asciutte e legnose.

Ma le labbra dell’uomo ripresero a stringere la pipa e a fare cerchi di fumo. Il mestolo si rituffò nella pentola nascondendosi a quei discorsi, mentre il braccio della donna signorina si irrigidiva e spingeva il mestolo nella sua esplorazione a larghi cerchi. Pensai che era già passato un mese e mi sembrò un’eternità”.

La guerra finalmente finisce e gli eroi tornano. La scena del ritorno di un soldato sconciato dalla guerra, è dipinta da Cacciola con grande intensità: “Un giorno, all’alba, due mani batterono sulla porta di quella casa senza braccia d’uomo. Un viso smorto comparve agli occhi di ‘gna Santa ed era viso di figlio, ormai inconsueto. Pensò a scherzo di demonio dinnanzi a quel pezzo di legno secco e scavato, con gli occhi nascosti dentro profonde orbite nere. Il pezzo di legno cercò di abbracciarla e la donna si scansò a quell’abbraccio irreale. L’uomo pianse tutta la sua disperazione per il rifiuto e si lasciò cadere sulla terracotta rossa del pavimento, baciandola e bagnandola di lacrime sofferenti. La donna ritratta in angolo rimase paralizzata a quella vista, fissando i lineamenti stanchi di spirito o figlio forse vivo che riconduceva alla madre le sue braccia impotenti e ridotte a salmenti senza linfa. Turi era malato ma ancora vivo e reale, non scherzo di demone, ma esistenza palpabile da assistere, da curare. E la madre infine, di questo si capacitò. Così ‘gna Santa si riprese e aiutò il figlio a sollevarsi dal pavimento, lo accompagnò ad un materasso di crine sopra tavole di legno legate con spago.  Lasciato l’uomolegnofiglio disteso a riprendere forza ……”.

Qua invece il ritorno è sereno e il quadro di Cacciola assume colori caldi, morbidi, sempre intensi ma più luminosi, solari, carichi di gioia per la fine della guerra: “Voce di uomo chiamava dal muro della vigna, a mezzogiorno; chiamò Tudda e Tudda si fece fuori dalla porta e io la seguii. Volto di uomo-padre conosciuto, volto bagnato da sudore e lacrime. Tudda lo invitò a parlare, per carità, e l’uomo con voce spezzata dalla stanchezza non seppe spiegarsi. Bevve del vino, che gli porse Tudda, più per aiutarlo a parlare che per generosità in quel momento. Poi tutto d’un fiato disse che la guerra era terminata. Sudore e lacrime dell’uomo bagnarono le guance di Tudda e poi le mie, e le nostre lacrime parlavano di festa, mentre il sole salutava con gli ultimi raggi del giorno la notizia sublime e il pianto dei suoi figli e si avviò verso un altro giorno a raccontare ad altre genti”. In questa scena mi soffermo davanti a un quadro di Segantini, di Fattori. Nella scena precedente sto ammirando i cupi tratti di Goya, entrambi, a loro modo, appaganti per il lettore che s’aggira in una pinacoteca fantastica.

Un altro testo di Cacciola: “Le gemelle”. Una storia di infelicità e superstizione

Sei anni dopo, nel 1991, ancora per Pellicano Libri esce ‘Le gemelle’, per me un altro formidabile libro da leggere ma ancora da ammirare come un affresco. Le descrizioni dell’ambiente, dei personaggi sono tali che se chiudo gli occhi me li vedo comparire davanti come un aggregato di anime dolenti. È il racconto di una tragedia, di una tragedia della miseria e della sofferenza come tante ce ne sono state nelle nostre terre più marginali e certamente non solo al sud. La miseria e l’emigrazione sono per me le gemelle protagoniste di questo libro doloroso, dipinto con grande compassione.

Elena e Maria sono le figlie di Angelo, sposo di Venera. Angelo parte per New York “alla ricerca di una fortuna che gli avevano descritto facile”. Pensa di stare via per un poco, una decina d’anni, per poi tornare ricco.  “La sposa ci aveva creduto, tanto lei che poteva saperne dei ragionamenti degli uomini, e aveva promesso una lunga fedeltà, quasi una vedovanza, non sapendosi staccare, né forse potendo, da un mondo di rispetto, da un bagaglio d’amore rispettoso che l’ambiente gli aveva inculcato dalla nascita”.

Così “le fanciulle erano venute su alla stessa maniera, riproponendo una cultura che neppure si chiedevano potesse essere modificata. Non per costrizione, ma poiché altro non conoscevano, altro non s’era fatto strada in quel massiccio mondo di abitudini e di credenze, di vecchi dotti e di fede”.  In questo contesto arriva Natale, l’ennesimo della grande solitudine. Come in tutte le ricorrenze anche questa volta, ad allietare la festa che non poteva essere altrimenti allietata da presenze, c’era un pacco che le credenze, la superstizione, voleva non fosse aperto prima della nascita di Gesù.

Donna Zina, una vicina che, rimasta vedova, frequentava più la casa delle gemelle che la propria, sembra ergersi a paladina della rigida tradizione che stabiliva “il principio basilare del rispetto delle regole che non potevano essere violate da nessuno, mai e per nessuna ragione”.

Questa regola viene violata dalle gemelle che la mattina di Natale – forse proprio per questa trasgressione, non si risvegliano, morte entrambe nel sonno. Che cos’era accaduto? Venera dette il permesso d’aprire il pacco “dopo che le campane della chiesa sparsero per l’aria il suono festoso del miracolo ripetuto (…) ma forse “il bambino s’aspettava che le donne festeggiassero l’Evento recandosi al suo cospetto” e non avendolo fatto … ecco che piomba loro addosso la sciagura! Il libro è qui: si diffonde nella dialettica fra ragione e superstizione. Ai paladini della ragione Don Ignazio e Cicco il pescatore che inclinano verso la possibilità di un disegno criminoso, si contrappone la superstizione, la credenza nell’immobilismo dell’antica fede.

D’altra parte non esistono prove certe del possibile misfatto. Intanto Angelo ormai vecchio torna al paese. Si dirige verso la chiesa trascinandosi a fatica i bagagli. “Torno, perché da qui provengo”. Compare all’improvviso anche la vecchia moglie che al parroco dice: “C’è da sapere che quest’uomo che si degna di entrare in questa chiesa, complottò la morte delle sue figlie” …. Ma del delitto, che di ciò si tratta, se plausibile e possibile in quanto non appare credibile una causa trascendente, dove è probabile sia stato ordito? Al di là dell’Atlantico o già in questa casa, da troppo tempo vuota dell’affetto del capo famiglia?  Superstizione e ragione anch’esse, come le gemelle Elena e Maria, giacciono immobili e silenziose per sempre, vittime di un mistero insolubile.

Egidio Cacciola

Egidio Cacciola

Egidio Cacciola