Uomini del fare: tutti pane e bottega

Arrivare in Brianza per chi vive a Milano fa sempre piacere: finalmente si esce dalla bassa e si comincia ad inerpicarsi per strade che hanno un’anima e che ti sorprendono ad ogni curva con visioni di montagne in questa stagione autunnale già spruzzate di neve. “Neve a’ monti e acqua a noi” diceva mia nonna fiorentina quando in città pioveva forte e si cominciavano a sentire i primi freddi.

Mia suocera meneghina invece mi raccontava che dare del briccone a un brianzolo non è affatto un insulto. “O come sarebbe a dire?” chiedevo stupito. “Scusa sai – mi diceva – ti senti insultato se ti chiamo gigliato?” “E perché mai dovrei? Firenze ha per simbolo il giglio e i calcianti del Maggio fiorentino e i giocatori della squadra di calcio della mia città portano orgogliosi sul petto il simbolo di questo bellissimo fiore” “Quindi che ti chiamo gigliato o fiorentino per te vuol dire la stessa cosa, no?” “Che c’entra? Briccone a casa mia vuol dire tutta un’altra cosa” “E’ proprio vero il detto ‘A ogni poeta manca un verso’. Voi fiorentini siete pieni di prosopopea. Vi definite arguti ma non siete attenti. Ora te lo dimostro. La Brianza, incastonata nella terra dei laghi è vero o no che è tutta collinosa?” “Va bene, e allora?” “I colli allora possono essere chiamati ora montagne, ora alture, oppure poggi, oppure, e qui ci siamo, bricchi. E da bricco ecco che vien fuori briccone” “Ma il significato di briccone è un po’ più spregiativo” “Non è vero: i bricconi, i brianzoli, sono astuti e scaltri ma quasi sempre scherzosi e simpatici”

Discutere con mia suocera era cosa piuttosto complicata. Sempre meglio abbozzare e passare ad altro. Per esempio, quando ci veniva a trovare al mare, era tutta contenta per come avevamo diviso gli spazi della casa. Ma sull’arredo non ci dava tregua. “Qui ci starebbe bene una madia che ho visto a Lissone, la cucina non capisco perché abbiate comprato questa roba che se vi dovesse capitare di traslocare, vi si sbriciolerà fra le mani. E poi: perché questi letti a castello? Ormai le vostre figlie sono grandi e ….” e via così di seguito, praticamente davanti a tutti i mobili di casa. “In Brianza bisogna andare a comprare i mobili. Ricordatevene: ‘Chi più spende, meno spende’. Pensate di risparmiare e invece buttate i soldi”

Il mobile è cultura e la Brianza è la sua culla

Già, eccoci al punto. Chi dice Brianza dice mobili di grande qualità. I miei ospiti non smentiscono questo luogo comune, principio incontrovertibile per la famiglia Marelli, da sempre legata al mobile, oggi con Fabrizio, arrivata alla terza generazione di mobilieri. “Tre generazioni o quattro” chiede Fabrizio a Valentina, la mamma. “Il nonno di tuo nonno Francesco non era un mobiliere, era un contadino”

Sto parlando con la Signora Valentina, moglie di Fernando che è figlio di Francesco. È una bella signora che mi racconta d’essere nata ad Eraclea. A quei lidi è legato un ricordo che la fa sorridere ancora. “Sa avevo una nonna grande, grandissima, pareva un arsenale. D’altra parte, aveva fatto diciotto figli. Una donna forte e davvero massiccia che aveva una passione. Fumare il sigaro. Ma non poteva certo farlo davanti a tutti. Sicché avevo un gioco. Quando arrivavo chiedevo in giro dov’è la nonna? E tutti allora mi dicevano di andare verso la ciminiera perché lì avrei trovato la nonna. E lì, nascosta dietro il fienile, la trovavo, la mia nonna ciminiera che sfumacchiava tutta sola e chissà, forse anche in pace”

Gli occhi di questa bella signora sorridono al ricordo. “I miei nonni da parte di padre erano tutti fittavoli. Mi ricordo la casa delle cento finestre. Quella era la casa del mio bisnonno. Poi i miei genitori emigrarono a Pavia ….

Valentina, suo figlio Fabrizio conferma convinto, è stata una grande cuoca: “Vuol mettere la ricchezza della cucina veneta rispetto a quella brianzola?” Io non me lo sogno nemmeno, però mi viene in mente che se ci fosse ancora mia suocera, mi piacerebbe assistere al derby ‘cassoeula contro capon alla canavera’

“Mia mamma a me e alle mie sorelle ci ha insegnato a cucinare bene e lo sa fare ancora meravigliosamente. “Che buono riso e tochi. Dai mamma – fa Fabrizio – “raccontagli un po’ la ricetta a questo qui” “Ci vuole un bel gallo” “Un pollo, allora, va bene uguale, no?” “Macché. Dev’essere tenera la carne. Un galletto di sei, sette mesi. E’ una ricetta un po’ laboriosa. Viene poi alla fine come una specie di pollo alla cacciatora” “Ah, ecco, vede? Pollo ….” “Non si confonda. Il pollo è più duro. Ci vuole un galletto, le ripeto.” ”Va bene, poi col soffritto, tutto si stempera.” “Macché soffritto. Tutte le verdure vanno messe a crudo, poi tirate su col vino e poi il riso …”

Già mi viene un languorino. La signora Valentina ha un aspetto molto dolce, molto chioccia. Perciò, come tutte le chiocce, è dotata di un carattere ben forte. Mi racconta che ha conosciuto Fernando che poi diventerà suo marito che era ancora adolescente. Primi anni ’60 incontra questo bel giovane un po’, ma non molto, più grande di lei. Due anni dopo sono sposi e un anno dopo ancora arriva Fabrizio il primo dei loro tre figli.

“Mio marito Fernando, che oggi ha scavalcato gli ottanta, è probabilmente ipocondriaco. A dire il vero un po’ lo è sempre stato” Le sorridono gli occhi mentre lo dice. Queste parole sono come delle carezze che si inviano, come per colmare una momentanea assenza, tanto è presente nella sua vita, nel suo cuore, nei gesti quotidiani, il suo Fernando. “Ha dolori che solo lui ha” continua Valentina che prosegue giocosa: “vorrà dire che cercheremo un premio Nobel che studi il suo cervello”

Gli uomini che fecero l’impresa

“Mamma, ti ricordi quando papà ci raccontava che durante le ultimi fasi della guerra, erano già arrivati gli americani liberatori, e lui stava alla finestra guardare tutti quei carri armati che sfilavano sotto le finestre di casa?” “Gli lanciavano un sacco di cioccolata quei soldati e lui bambino, a quell’epoca avrà avuto 7 o 8 anni, di cioccolata non ne aveva vista molta, dato il periodo gramo” “Poi però finisce la guerra e c’è la rinascita” “I Marelli abitavano proprio nel centro di Carugo vecchio, sai lì dove c’è la torre?” “Non sono mai stato a Carugo ma so della torre che vanta addirittura origini longobarde” “Di certo la pianta è antichissima però negli ultimi anni l’hanno parecchio modificata per motivi di irrobustimento strutturale. Comunque sia mio suocero aprì proprio lì la sua bottega. Era il 1946 e il nonno Francesco con Mario Cogliati, socio e amico, destinò addirittura una parte della casa per farne un laboratorio artigiano con esposizione. La novità è grossa e importante” “Perché?” “Prima gli artigiani lavoravano nelle cantine o in posti in qualche modo arrangiati. Quando aprirono il negozio volevano sottolineare quanto ci tenessero alla loro impresa. D’altra parte, i brianzoli sono ‘gente del fare’, tutti pane e bottega. Il mio Fernando se lo ricorda bene: quando arrivava l’ora di pranzo il nonno usciva di bottega, si soffiava via la polvere del legno dalla vaiana, proprio quella con tante tasche che indossava sempre saliva su in casa a mangiare e poi, via subito, di corsa, tornava a lavorare” “Perdoni, signora Valentina. Che cos’è la vaiana?” “E’ una giacca di cotone, una specie di camice, color polvere che per il mestiere del falegname è l’ideale. Quando lavorano ce l’hanno sempre indosso. E comunque non se la tolgono quasi mai perché lavorano sempre””

“Come i bergamaschi che tengono la betoniera in salotto” “C’è poco da scherzare: per costruire il negozio mio suocero ha portato tutto a spalle mattoni e quant’altro serviva a realizzare laboratorio ed esposizione. A quell’epoca i muletti, le gru sollevatrici erano le persone in carne ed ossa e muscoli” “Me lo ricordo anch’io: quando ero piccino, la zona è diversa ma gli anni sono gli stessi, veniva l’omino del ghiaccio che ci portava su per tre piani una losanga sul groppone che poi mia nonna sezionava in pezzi per metterla nella ghiacciaia e poter così conservare quel pochino di roba che non veniva comprata giorno per giorno” “E il ghiaccio di sicuro sarà stato portato sopra un carretto tirato da un cavallo, è così?” “Certo, come no. Me li ricordo bene: erano certi cavalloni alti con tanti ciuffi perfino sugli zoccoli. Che bestie bellissime” “Ecco invece i mobilieri di Carugo e dintorni, usavano anche loro i carretti ma li spingevano o tiravano a mano, cavalli per questa attività non ce n’erano”

“Facevano le consegne?” “Non solo: quando dovevano portare i mobili dal lucidatore li caricavano sul carretto e via a piedi magari fino a Mariano: in un’ora lo zio Enrico era capace di andare e tornare, Fernando invece ci stava tutta la giornata” “Chi è e che cosa fa il lucidatore?” “L’esterno del mobile va lucidato. L’artigiano che lo disegna e lo produce non aveva la possibilità di lucidarlo il mobile. Sicché una volta finito, lo metteva tutto in pezzi su un carretto e lo portava appunto a far lucidare da quegli artigiani che avevano gli strumenti e le macchine adatte” “E perché suo marito Fernando impiegava tanto più tempo a tornare indietro? Lo zio Enrico andava e tornava in un’ora e Fernando invece ci metteva una giornata. Perché?”

Valentina ora ride di gusto: “Mio suocero, per prendere in giro mio marito ma anche per ogni tanto, secondo me, mandargli qualche messaggio, mi raccontava queste scappatelle del figlio che era, a suo dire, una bella lenza. Francesco, in questi pranzi di famiglia, rigorosamente a capotavola come il patriarca, si lasciava andare a tutta una serie di battute in cui faceva emergere che insomma Fernando, secondo lui, nel lavoro, non era mica tanto volenteroso” “Tutti avranno dato di sicuro il loro apporto. Io credo che sia un po’ anche un vezzo dei vecchi lamentarsi di questi giovani che ‘non son più quelli di una volta’ semplicemente perché oltre al lavoro, amano impegnarsi anche in qualcosa d’altro” “Comunque Fernando ha dimostrato di possedere un talento che suo padre, per esempio, non aveva” “Ah sì? Quale in particolare?” “C’è stato un momento in cui nonno Francesco è entrato in crisi quando un monte di cambiali di un cliente sono state protestate. Allora il nonno si affidò a Fernando e un suo fratello e li mandò tutt’e due a recuperare gli insoluti”

“Per Francesco si trattò di passare attraverso una crisi bella grossa: tieni conto che il nonno aveva cinque figli da mantenere. Perciò il nonno decise che era venuto il momento anche di darsi da fare conto terzi. Si misero così ad assemblare pezzi costruiti da altri e montarli. Lo facevano in tanti questo mestiere che era visto come meno di lustro: d’alta parte, nell’immediato secondo dopoguerra la gente con un po’ di manualità s’ingegnava a fare di tutto. A mio suocero questa sua duttilità servi a riprendersi almeno in parte dalla botta presa in seguito a quegli insoluti che gli piombarono addosso. Come t’ho già detto Francesco non era uomo che si spaventava davanti al lavoro: in bottega ci stava fino a notte fonda”

Il grande venditore

“Il mio Fernando non era però adatto a stare in bottega: aveva bisogno di altri spazi, di misurarsi con altre sfide. Così si realizzò come venditore della prima azienda consortile della Brianza: Mobilquattro. Fernando si dimostrò così venditore bravissimo: pensa, appena era uscito un mobile dalla fabbrica subito lo mandava al cliente che ancora non li aveva nemmeno ordinati. Questi, spesso infastidito se non addirittura irritato, telefonava in ditta e chiedeva spiegazioni. Fernando, dovevi sentirlo, avrebbe venduto il ghiaccio agli esquimesi, non solo placava il cliente ma questo qui addirittura si sentiva in obbligo, prima di riattaccare, di ringraziare pure. La concentrazione di Fernando sulle vendite comportò la chiusura temporanea della produzione artigianale di mobili nonostante fossero subentrati zio Mario e zio Carletto che sono poi partiti per lavorare conto terzi”

“Un’impresa di famiglia a tutti gli effetti: voi costruivate e vi occupavate poi di vendere sia ciò che era stato prodotto da voi oppure da altri. Ho capito bene?” “La nostra missione era mettere il nostro cliente in condizione di arredare la propria casa: eravamo tutta la famiglia pancia a terra, impegnati a vendere per la Mobilquattro perché a quel punto possiamo dire che la nostra produzione artigianale sia finita col nonno”

“Mamma: si è interrotta temporaneamente” dice Fabrizio intervenendo nella conversazione. Qui c’è tutto l’orgoglio dell’imprenditore che tanto si è impegnato per far ripartire un sogno. Sogno più che legittimo, radicato com’è nel passato. Nonno Francesco è stato presidente della società artigiani di Carugo vecchio. Aveva collezionato tantissimi premi con le esposizioni locali. Non si sbaglia a definirlo un vero e proprio genio del mobile.

Le origini dell’impresa di famiglia

“Ma come aveva cominciato Francesco?” “Dai confessionali, dai pulpiti e dalle porte per la Chiesa di Carugo” “La Chiesa è sempre stata una grande committente” “L’occasione sicuramente l’ebbe grazie ai preti ma il nonno studiava sempre il modo di fare cose straordinarie. Pensa che una volta ha costruito un mappamondo in massello tagliato a spicchi, con una tecnica incredibile, per una realtà di Cremona. La genialità del nonno Francesco fra l’altro era stata quella di progettare ad hoc il nido d’ape all’interno della struttura del mobile. Tu non hai idea di che cosa stia parlando vero?” “In effetti …” “Il nido d’ape è un sistema di produzione pregiato, di grande qualità: consiste nel realizzare listelli di massello di abete che vengono messi a rinforzo fra le parti vuote di un telaio” “Ah” “Questo sistema, solidissimo è leggerissimo. Pensa che il nido d’ape, questa specie di cartone pressato, viene usato anche per le ali degli aerei e in formula 1. Il nido d’ape è certamente leggero ma incredibilmente resistente” “Abbi pazienza: ti credo sulla parola. Ma non ho capito per niente perché ci sia bisogno di tutto questo armamentario. Le ali di un aereo, un’auto di Formula 1….. Ma che razza di mobili facevate? Adatti ai traslochi veloci?” “Spiritoso. Quando il legno si muove, perché tu lo sai vero, che il legno è vivo?” “Come no?” “Uhm, se e quando il legno si muove per la diverse temperature che attraversa nell’arco dell’anno, il nido d’ape permette al legname di espandersi senza che questo movimento crei alcuna crepa né in superficie, né in profondità” “Accipicchia. Sono impressionato”

Creatività e fantasia a servizio della funzionalità

“E fai bene. Il nonno ha anche inventato l’armadio con dentro la cornice uno strato di tessuto di velluto” “Uhm..” “Hai presente gli armadi, si?” “Come no!” “Bene. Prima dell’invenzione di mio nonno, gli armadi si presentavano semplici, belli lisci, solidi e massicci. Pensa all’armadio che di certo avrà avuto tua nonna in camera sua. L’hai presente? Descrivimelo” “Guarda. Era una roba grande, tutta nera, con delle volute d’abbellimento ai margini in alto” “Quante ante aveva?” “Due. Mi ricordo benissimo” “Specchi all’esterno ce n’erano?” “No. Sono sicuro. C’era solo una specchiera che faceva sempre litigare fra loro la nonna che era poco più di un metro e sessanta e il nonno che invece era più alto di un corazziere. Il problema era che i chiodi per mettere quadri e specchi era il nonno che li metteva e ti puoi rendere conto che li metteva a un’altezza in cui lui ci si poteva specchiare bene. La nonna così era costretta a prendere un panchetto per riuscire a vedersi almeno un pochino il viso” “Bene. In seguito, i mobilieri si sono evoluti e hanno messo gli specchi dentro le ante ma anche al di fuori con lo scopo di favorire nel cliente la vista di sé e anche d’allargare un po’ la stanza perlomeno da un punto di vista di percezione. Bene. Mio nonno è stato un pioniere perché ha anticipato questa tendenza, inserendo appunto un drappeggio di velluto dentro l’anta, sdoganando così in qualche modo il concetto che l’armadio potesse diventare un oggetto multiforme, contenitore ma anche, in certa misura capace di dare un tocco d’arredo più personale”

” Già” – fa Valentina – “Il primo armadio di questo tipo, tuo nonno l’ha messo in casa mia che mi dovevo sposare quattro giorni dopo” “Che pensiero carino” fa Fabrizio intenerito. “Sì, sì. Ma sempre tuo nonno, caro Fabrizio, sempre quattro o cinque giorni prima che mi sposassi, con Fernando avevamo appena finito d’arredare la nostra casa, ha avuto la bella pensata di vendermi la sala da pranzo” “Ma come?” “E sai che m’ha detto? Sai carina, prima viene il cliente, poi vieni tu” “Un brianzolo verace. Dai, è così che si fa” “Non me la sono mica presa, ci mancherebbe. E comunque quali mobili dovessero andare in casa mia li ha decisi tutti il nonno Francesco”

Il mercato del mobile cambia

“Senti ma com’era arredare una casa quando avete cominciato voi a farlo?” “Negli anni ’70 la produzione consisteva nel realizzare camere, camerette, soggiorni e cucine. Tutti noi mobilieri questo facevamo. E riempivamo le nostre sale espositrici, taluni avevano più piani di esposizione, con un’infinità di proposte in questo ambito: la sala per ricevere gli ospiti e da tenere per lo più chiusa quando gli ospiti o le occasioni per ricevere gente non c’erano; la cucina, da sempre il luogo centrale della casa e naturalmente la camera da letto che aveva anche un valore simbolico e le camerette per i figlioli. Di queste quattro tipologie tutti noi mobilieri declinavamo diverse proposte e di queste ne facevamo, tutte uguali, un’enorme quantità. L’obiettivo era contenere i costi per essere più competitivi. Questo comportava fare magazzino ed imporre ai rivenditori, nostri clienti, di accumulare merce per cui avrebbero dovuto disporre di spazi adeguati. Il mobiliere ti vendeva l’idea della casa completa e perciò, negli anni ’70, queste erano le condizioni di mercato” “Poi che succede?” “Le cose cambiano: i gusti, le abitudini, le esigenze e i modi di vivere la casa si trasformano. Dagli anni ’80 comincia la personalizzazione. Finisce il mito della produzione di massa, della struttura stereotipata della casa in cui gli ambienti venivano suddivisi, ripartiti, differenziati tutti comunque secondo uno schema sempre omogeneo. Con gli anni ’80 cambia il mondo e la fruizione della casa con esso. Il neoliberismo attrae molto più dei modelli fortemente ideologizzati, l’interesse particolare sembra prevalere su quelli collettivi. Anche il modo di vivere la casa rispecchia questa tendenza. Si cerca una nuova e diversa personalizzazione. Si rincorre un modello di abitazione che non sia più così riconoscibile nell’appartamento dell’amico o del vicino”

“Questo che cosa ha comportato per voi mobilieri?” “Una rivoluzione magari lenta ma inesorabile dalle conseguenze devastanti, soprattutto in una prospettiva temporale più vicina a noi, fino ad arrivare ad oggi. Le fabbriche non fanno più magazzino né accettano di produrre merce se prima non hanno ricevuto l’ordine da parte del cliente. Ormai tutti producono solo sul venduto e quei commercianti che in momenti di ristagno del mercato oppure proprio per specifica scelta di posizionamento andavano rastrellando ‘i fondi di magazzino’, oggi non esistono più. Oggi non li troverai da nessuna parte. Perciò clienti non particolarmente abbienti, alla ricerca d’avere, a prezzi modici, arredamenti dignitosi, si sono necessariamente avvicinati a grandi catene che per forza impoveriscono la materia prima trattata e possono permettersi di offrire ‘contenitori per oggetti’ a basso costo”

“Non c’è più spazio per la qualità?” “No, non è vero. Certo personaggi come il Galli che è stato il primo che ha inventato la macchina per fare i binari, da sistemare negli armadi cambiandone l’apertura realizzando le ante scorrevoli anziché apribili a libro, sono più rari ma la genialità, l’inventiva troveranno sempre spazio” “Perché sono importanti le antine scorrevoli? Non è più comodo aprire l’armadio spalancandone le porte?” “Tutto è in relazione al contesto abitativo. Ti ricordi com’era la cucina di tua nonna?” “Perfettamente. Enorme, c’era anche il ‘canto del fuoco’ ovvero un focolare così grande che ci potevano stare ai lati due panche” “E il tavolo te lo ricordi?” “Perbacco, era una portaerei. Ci si mangiava in venti” “Famiglie così grandi e soprattutto case con questi spazi oggi non si fanno più. Però la gente deve poter continuare a riporre le cose, no? Se gli spazi si riducono, il letto matrimoniale occupa tutta la stanza, ecco che l’armadio, per rendere possibile il passaggio nella stanza deve avere antine scorrevoli, così gli spazi disponibili non s’ingombrano più, non ti pare?” “Certamente: se si rimpiccioliscono le stanze delle case, occorre ottimizzare gli spazi”

“Ci sono state altre novità importanti nell’ambito della costruzione dei mobili in questi ultimi cinquanta anni?” “Hai voglia. Ti basti pensare alla cucina. Una volta tutti i mobili della cucina erano separati fra di loro, no? Oggi non più. I Viscardi di Lissone hanno inventato le cucine col piano unico; altri poi hanno proposto l’isola. Le cucine spesso diventano parte integrante del salotto che a sua volta dà direttamente sulla porta d’ingresso perché una stanza riservata appositamente a far entrare le persone in casa è diventato un lusso insopportabile per la maggior parte delle persone. Quando c’è spreco, in questo caso di spazio, si paga sempre un costo. Ecco che la casa, diventata più piccola, ci si sforza di perlomeno sentirla grande abbattendo tutti o quasi i muri perimetrali delle stanze, lasciando all’intimità solo la camera da letto e i bagni. Tutto il resto deve essere fruibile, lasciando sciamare le persone da un ambiente all’altro senza soluzione di continuità. Ecco allora che il mobiliere diventa altro rispetto a colui che progettava oggetti destinati sia al contenimento degli oggetti di casa, dell’abbigliamento, sia godibili, esteticamente piacevoli. Oggi i mobilifici devono trasformarsi in veri e propri studi di progettazione; oggi un mobiliere si deve occupare dei punti luce, degli scarichi della cucina, della compatibilità con lo stile di vita del cliente”

Un mobiliere moderno

È Fabrizio che parla adesso. È l’uomo che ha ridato vita all’azienda di famiglia, valorizzandone le competenze tecniche, insopprimibili, senza le quali si celebra solo l’aria fritta ma con lo sguardo disincantato dell’imprenditore innamorato del servizio che la sua competenza può rendere al cliente che lo interpella. Se i prodotti per gli imprenditori di una volta erano il loro vanto, oggi la qualità si misura sulle attese soddisfatte del cliente. Il mobiliere evolve in psicologo, in esperto di feng shui, deve saperne di domotica e rendersi conto che molte persone sono diventate attente al rispetto dell’ambiente e hanno preso in odio l’eccesso di materiali plastici altamente inquinanti.

Dal mobile inteso paradossalmente come statico, oggi siamo nella dimensione del mobile fluido che si accompagna a quella dimensione indefinibile di bisogni costantemente mutevoli che noi uomini moderni oggi sembriamo avvertire sempre di più. E la misura del nostro successo si determina, Fabrizio lo sa bene, nella misura in cui sappiamo far apparire un oggetto destinato a mutare forma, consistenza e cromatismi a seconda della situazione emotiva che viviamo. Non sarà l’oggetto in sé a mutare: saranno i nostri occhi, le nostre mani che sapranno scorgerne differenti aspetti coerenti con il nostro equilibrio psicofisico del momento.

Mobiliere oggi non significa più affrontare la dicotomia contenere o arredare. Mobiliere oggi significa sviluppare una relazione significativa col cliente che pensando semplicemente di comprare un oggetto d’arredo, una commodity di per sé priva d’anima, acquista forse un sistema per rispecchiarsi e ritrovarsi.