Alzheimer, sì alla "cura della gentilezza"

Scritto da Stannah il 12-04-2011

Dopo un certo stadio, l’Alzheimer rende chi ne è colpito un vero e proprio disabile mentale. Per questa ragione, è inutile insistere che mangi a una certa ora o vada a letto a un’altra: come ha scritto qualche giorno fa il Corriere della Sera, dovrebbero essere le regole ad adattarsi al malato, non il contrario. Su un approccio del genere si basa la “gentlecare”, un metodo di cura inventato da Moyra Jones, terapeuta occupazionale canadese.
Il suo sistema mette al centro la persona, nello specifico colei o colui con la memoria ormai a brandelli, creandole intorno un ambiente in cui si possa muovere senza cadere, possa svolgere attività quotidiane adeguate e soprattutto riesca a farsi accettare così com’è da chi lo assiste. Si tratta, in altri termini, di fornire adeguate protesi, materiali e morali, a qualcuno che non è più in grado di badare a se stesso.
Il metodo Jones esiste già da qualche anno – riferisce sempre il quotidiano di Via Solferino – ma in Italia fa fatica ad affermarsi. Esistono ovviamente eccezioni positive, come il Golgi di Abbiategrasso citato nell’articolo o strutture private come la cooperativa sociale Itaca di Pordenone (per fare solo un altro esempio). Come mai così tanta resistenza alla terapia della gentilezza e in generale all’uso di altri sistemi terapeutici che mettano il malato al centro?
Non è facile rispondere a una domanda del genere. Forse, c’è un problema di formazione ad hoc di medici, infermieri e assistenti socio-sanitari che lavorano con i malati affetti dalle demenze.
Voi che cosa ne pensate? Conoscete altre esperienze positive?
Raccontatecele, vi aspettiamo.

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