La giornata mondiale dell'Alzheimer

Scritto da Luciana Quaia il 21-09-2009

Enrico, sessantenne dirigente d’azienda, è una delle poche persone cui è stata direttamente e da subito comunicata la diagnosi di malattia di Alzheimer.
Enrico è turbato, ma non angosciato. Sa che deve prendere decisioni importanti e organizzare il prossimo futuro per sé, la famiglia e i colleghi, prima di imboccare il tunnel dell’oblio.Cerca di consolare come può Emilia, la moglie, che, al contrario, è terrorizzata e disperata. “In fondo io sono più fortunato – le dice – perché dimenticherò di avere questa malattia. Ma tu potrai ricordare anche per me e ricordare agli altri chi sono stato”.
Il 21 settembre, giornata mondiale della malattia di Alzheimer, vuole parlare alla società intera di Enrico e di tutti coloro che come lui si ammalano, considerato che la causa della demenza non è ancora pienamente conosciuta, che non esiste un rimedio farmacologico risolutivo e che la malattia può colpire chiunque, non solo le persone molto anziane.
Come Emilia, i familiari che si trovano improvvisamente coinvolti nel compito assistenziale sono coloro che vivono più pesantemente le ripercussioni personali e psicologiche. E come non comprenderli: una malattia che, sia pur lentamente, causa difetti di orientamento temporale e spaziale, difficoltà di linguaggio e di previsione dei pericoli, apatia e disturbi del comportamento annichilisce chiunque.E’ fondamentale però fare conoscere all’opinione pubblica e a chi ci si trova a dover fare i conti che l’Alzheimer è una malattia, e come tutte le malattie può essere affrontata con le adeguate strategie di intervento.
I neuroni muoiono, ma il processo è progressivo e quindi si può presto imparare che quando la scienza ti dice “non c’è più nulla da fare”, in realtà sul piano della relazione ci sono tantissime cose che, insieme, si possono fare.
Le parole di Enrico sono esemplari:“Ricordare per due e ricordare chi sono stato”.

La scommessa del far fronte all’evento inizia proprio da qui.
A Emilia, dunque, e a chi come lei sta vivendo questa situazione, saranno utili alcuni suggerimenti di contesto.

Organizzare la vita quotidiana in modo semplice e abitudinario
Mantenere una scansione ritualizzata degli accadimenti giornalieri dà più sicurezza al malato poiché non lo obbliga a stressanti cambiamenti di abitudini.

Controllare la sicurezza della casa
Quando la malattia è in uno stadio avanzato, la mancanza di coordinazione fisica può causare facili incidenti. Occorre perciò utilizzare tutti gli accorgimenti possibili per eliminare le barriere architettoniche e semplificare al massimo l’ambiente domestico.

Facilitare la comunicazione
Anche se la capacità di linguaggio diventa più complessa, è importante che venga mantenuta col malato una costante interazione verbale, per evitare un sentimento di esclusione e di abbandono.
Naturalmente sono da adottare un linguaggio semplice, frasi corte, domande che stimolino il sì o il no come risposta. Possibilmente usare anche il corpo come mediatore comunicativo: mimare lo svolgimento di certe azioni o mostrare gli oggetti il cui nome non viene compreso verbalmente.

Stimolare l’autonomia e le capacità che il malato ancora possiede
Un errore che si commette spesso è quello di dire “Stai lì, che faccio io”. Più motivi conducono il familiare a sostituirsi al malato: mancanza di tempo, apatia, risposte negative, non affidabilità nella precisione del compito. E’ bene però sapere che quanto più verranno sottratte mansioni alla persona in difficoltà, tanto più si inciderà sia sulla perdita della sua autostima, sia sull’accelerazione del processo degenerativo, considerato che, per ogni essere umano, se una funzione non viene esercitata viene persa.
Chi assiste il proprio caro malato deve innanzi tutto far leva sulle proprie aspettative. Nulla potrà tornare come prima, è vero, ma l’incoraggiamento a lavorare insieme, a dare fiducia, a non rimproverare se l’esito del compito non è soddisfacente aiuterà il malato a non scivolare nel senso dell’inutilità e nel vissuto depressivo per la propria inettitudine. Accettare il risultato dell’altro, qualsiasi esso sia, contribuisce anche a contenere manifestazioni di angoscia e nervosismo.

Ridere fa bene
l’umore è molto contagioso per il malato. Se chi gli sta accanto è triste, piange o esprime ansia, analogamente ci potrà essere un effetto di rispecchiamento nell’assistito che più facilmente diventerà inquieto o agitato.
Il sorriso, la pacatezza, l’allegria sono iniezioni di fiducia e protezione per chi non riesce più a riconoscere il mondo che lo circonda.

Evitare disconferme e conflitti
Ricordare sempre che i problemi e le difficoltà che il malato presenta non sono intenzionali o attribuibili a una sua cattiva volontà. E’ la patologia che causa questi fenomeni, anche se talvolta le bizzarrie possono sembrare strane o incomprensibili.
Perdere la pazienza o alzare la voce danneggia l’umore del familiare e del malato, perché quest’ultimo non è più in grado di correggere il suo comportamento in base alle indicazioni date.

Queste indicazioni di tipo generale saranno molto utili ad Emilia per evitare che il compito assistenziale la travolga e la sfinisca.
Ma sono conoscenze utili per tutta la comunità sociale di appartenenza.
Maggiore la comprensione e la solidarietà del vicinato verso Enrico ed Emilia, maggiore la loro fiducia nel non sentirsi soli ed emarginati.

Ecco perché il 21 settembre molte iniziative pubbliche mirano a sensibilizzare l’attenzione su questo problema. Sull’intero territorio italiano le due associazioni nazionali – Federazione Alzheimer Italia (FAI) e Associazione Italiana Malattia di Alzheimer (AIMA) – hanno sviluppato una rete capillare di associazioni locali di volontariato. La loro azione è proprio quella di orientare, spiegare e sostenere le famiglie che si trovano a dover gestire il dopo-diagnosi.
Ricordare chi siamo è ciò che dà significato alla nostra esistenza. Ricordiamoci di farlo anche per chi ha smarrito la propria identità.

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