Maltrattamento: quando volere bene può far male
Scritto da Luciana Quaia il 19-10-2009
l’idea che qualcuno possa commettere comportamenti violenti nei confronti di persone fragili, indifese e anziane è così orribile che preferiamo non pensarci. Ma purtroppo può accadere.
Non esistono in Italia dati certi per stabilire l’entità del fenomeno. Sono invece disponibili le diverse classificazioni di abuso che possono essere perpetrate. Qualche anno fa a Milano , nasceva il servizio sperimentale “Tam”, sigla di “Telefono anziani maltrattati”, una linea telefonica che, sulla base dell’esperienza francese “Alma”, che sta per “Allò Maltraitance des Personnes Agées”, ha voluto offrire un contributo per l’emersione della violenza sul soggetto anziano. La linea ora è operativa a Udine.
In questa sede non si vogliono approfondire le ragioni dell’abuso attivo e intenzionale, già tristemente reso noto dalle quotidiane notizie di cronaca a proposito di danni fisici e finanziari sull’anziano debole. Qui l’abusante opera un’azione di calcolo e predeterminazione, ben consapevole degli effetti che provocherà.
Indagheremo invece nell’intimità delle mura domestiche, laddove il volto del maltrattamento va spesso immaginato come involontario e non intenzionale.
Come altrimenti spiegare l’ossimoro del volere bene e fare male?
Periodicamente nel corso della vita si incontrano particolari situazioni di transizione che richiedono aggiustamenti veloci nel proprio stile di conduzione quotidiana, nei ritmi, nelle abitudini. Succede quando un evento critico irrompe nella scena familiare, infrangendo equilibri raggiunti con sforzi e mediazioni. l’esempio più eclatante è la malattia di un genitore o di un coniuge anziano, fatto che richiede un surplus di organizzazione nella gestione degli impegni e di nuove richieste difficilmente affrontabili.
I fattori di rischio più diffusi nel trasformare l’anziano in una potenziale vittima riguardano l’età avanzata e il sesso (il numero delle donne abusate è assai più elevato di quello degli uomini); la convivenza obbligata con un altro familiare; gravi forme di deterioramento cognitivo; l’incontinenza; un alto grado di dipendenza fisica; un atteggiamento maltrattante già esercitato dall’anziano in precedenza verso i suoi congiunti, che, ora, hanno la possibilità di vendicarsi delle angherie subite.
Quando si rompe un equilibrio, diventa complicato ridefinire rapidamente non solo l’assetto organizzativo familiare, ma anche la nuova immagine del vecchio – padre, madre o coniuge – che ci ha accompagnato per tutta la vita.
La necessità di essere accudito, infatti, mette in secondo piano il suo diritto a continuare ad affermare la propria unicità, le intime illusioni o speranze, la voglia di costruire progetti.
l’anziano assume piuttosto sembianza di ostacolo, limite alla libertà di agire, deviazione dallo standard, caos nell’ordine. Ecco: si introduce una dissonanza nell’ordine precostituito poiché altre priorità prendono il sopravvento.
Nell’ansia del nuovo carico è difficile accettare che l’ormai dipendente assistito si allontani dai nostri ideali e dalle nostre aspettative; più semplice invece adottare inconsapevolmente una manipolazione per poterlo piegare al nostro volere.
Se si verifica anche un comportamento oppositivo dell’abusato, il gioco è fatto.
La violenza psicologica che ne risulta può esprimersi in variegate forme: ignorare le ripetitive e incessanti pretese, intimidazione, mancanza di rispetto, equiparazione ad un bambino, minaccia di allontanamento o di rottura di un rapporto.
Scritti, questi atteggiamenti hanno un certo peso. Verbalmente risuonano, a titolo giustificativo, più dettati da fin di bene che per atto di maltrattamento. “Lo sgrido perché lo amo”; “Se gli dico che lo mando in ospizio obbedisce, ma è chiaro che non lo farei mai”; “… e allora le dico che me ne vado di casa e che se ne cerchi un’altra, però dopo mi passa”.
Per chi le proferisce, queste parole equivalgono ad uno sfogo; per chi le percepisce, invece, sono origine di stati di agitazione e stress emozionale.
Esistono anche altre forme di violenza non intenzionale: l’omissione – inadeguatezza a prestare un’assistenza efficace -, la negligenza – mancanza di cura che può essere determinata dalla non conoscenza e dalla carenza di risorse d’aiuto -, la ipercura – eccesso di attenzione, esagerazione o addirittura invenzione di sintomi per pretendere terapie ed interventi medici.
Anche in questo caso gli effetti sul ricevente possono essere pericolosi: disidratazione, malnutrizione, piaghe da decubito, condizioni di vita e abitative poco igieniche, vestiti inadeguati, mancanza di occhiali o protesi dentarie o acustiche; problemi sanitari non trattati.
E’ fondamentale, quindi, per riparare i danni del maltrattamento, aiutare il familiare a comprendere i cambiamenti che sta attraversando il proprio anziano, affinché possa ridimensionare, o meglio ancora, annullare il desiderio di averlo/possederlo come era prima o come lo immaginerebbe nonostante la nuova condizione.
In altre parole, occorre modificare il proprio punto di vista, cercare nuove forme di compromesso tra ciò che era lo stato precedente e ciò che è ora, realizzare che l’imprevisto crollo o l’irreparabile trasformazione dell’ammalato possono essere ugualmente percepiti brutali nei suoi stessi confronti.
Il sostegno si esercita a più livelli. Innanzi tutto cercando di definire il perché “si perdono le staffe”. Forse si sta attraversando un periodo di eccessiva ansia o frustrazione. Oppure è perché non ci si sente supportati dal resto della famiglia. O non ce la si fa più a reggere una relazione in cui è l’anziano ad essere un manipolatore ingrato e ricattante.
Gli strumenti più efficaci sono quelli di acquisire informazioni sui rischi cui si è esposti nel curare una malattia cronica e degenerativa e sul capire quali indicatori sentinella segnalano che si sta per entrare in riserva.
I servizi sociali, in tal senso, offrono competenze adeguate per ascoltare, suggerire, orientare, promuovere reti di sostegno alternative o aggiuntive a quelle naturali del proprio sistema parentale. Pur nelle difficoltà attraversate, aiuteranno a valorizzare gli aspetti positivi della vicenda e a cercare nuove forme di adattamento alla circostanza.
Ma soprattutto, a livello personale, ricordarsi di confrontare il proprio dolore di figlio o di coniuge con il dolore che l’anziano sta attraversando in un passaggio critico e, forse, finale.
Solo questo tipo di rispecchiamento può ragionevolmente ristabilire una simmetria nel rapporto, migliorando l’attenzione e la ricerca di nuovi modi di essere e di operare.
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