Non è una casa per tutti... perché non provare ad assistere in modo diverso?

Scritto da Giovanni Del Zanna il 18-03-2013

Introduzione di G. Del Zanna
Parliamo spesso di Accessibilità. Consideriamo gli aspetti normativi, le soluzioni strutturali, le modifiche ambientali, le scelte di ausili e di tecnologie. Ogni elemento che interagisce nella rapporto uomo/ambiente è importante e può concorrere positivamente a migliorare l’autonomia della persona, la capacità di fare, ma anche la fiducia in se stessi.
Non possiamo pensare, però, che tutto dipenda dagli elementi strutturali (dalle cose che siano ambienti, oggetti o tecnologie). Le persone – anche quelle con una malattia o con una disabilità – vivono in relazione con altre persone. A partire dai familiari e dalle persone che li assistono (spesso gli stessi familiari).
Su questo tema riportiamo un interessante contributo di Roberta Lodi Pasini (psicologa) e di Pia Paganetti (Terapista della Riabilitazione) proprio sul tema dell’Assistenza che porta a leggere in modo diverso anche i temi dell’Autonomia e del rapporto con l’Ambiente.



Si è portati a credere che esista un ordine cronologico tra i termini assistenza, tornare a fare ed autonomia. Ovvero una persona prima necessita di assistenza, poi torna gradualmente a fare così da poter raggiungere nuovamente l’autonomia. In realtà questi momenti si possono e si dovrebbero intersecare in varie combinazioni. E’, infatti, possibile distinguere vari gradi del concetto “assistenza”: si può passare da un’assistenza completa che vede la persona con difficoltà totalmente dipendente dal suo caregiver all’assistenza che aiuta la persona a riconoscere e sviluppare le sue capacità residue, aiutandola in questo modo a riprendere a fare e sentirsi via via più autonoma. l’assistenza può diventare anche supervisione per garantire alla persona una maggior sicurezza nell’esecuzione autonoma delle attività della vita quotidiana. Ha, quindi, un ruolo importante nel raggiungimento dell’autonomia attraverso il riprendere a fare.
Bisogna allora educare all’assistenza non considerandola agli antipodi della restituzione dell’autonomia. Anzi, una buona assistenza deve porsi come fine quello di sviluppare ogni potenzialità residua. l’aiuto deve andare di pari passo con il dispiegarsi della malattia e di tutti i suoi esiti. Un parente o un’assistente personale aiutano nel migliore dei modi se sono pronti a vedere i limiti ma anche le potenzialità perché assistere bene non significa sostituirsi al paziente, ma innanzitutto aiutarlo fin tanto che non è capace e successivamente predisporre l’ambiente affinché appena possibile possa riappropriarsi di piccole autonomie. Spesso, infatti, ai limiti fisici della persona si aggiungono gli ostacoli ambientali che non permettono di prendere in esame le risorse ancora presenti nell’individuo. 
Parlare di ambiente non significa solamente far riferimento al mondo esterno. Anzi, i primi cambiamenti devono avvenire nel contesto domestico. Questo aspetto è fondamentale se si tiene in considerazione che la malattia può sopraggiungere in qualsiasi fase della vita, nonostante si sia portati a credere che riguardi esclusivamente la popolazione anziana. 
Inoltre, va considerato che l’autonomia è in stretta relazione con la qualità della vita. Se vogliamo essere d’aiuto realmente a molte persone dobbiamo porci l’autonomia come obiettivo più alto. Significa dare fiducia, supervisionare, mettere l’altro “in condizione di”, incoraggiare l’autonomia quotidiana, anche se questo può richiedere tempi più lunghi nello svolgimento delle varie attività e magari più disordine in casa. Bisogna iniziare a convincersi che DA SOLO ha più importanza che BENE.
Oggigiorno la parola autonomia va molto di moda. Fin da piccoli i bambini sono spinti all’autonomia. E’ considerato in gamba un ragazzo autonomo nello studio, un uomo autonomo nelle attività domestiche. 
Peccato che di fronte ad uno sconvolgimento della vita non si pensi più a questo obiettivo fondamentale, ma si spostino tutte le attenzioni su risposte di tipo assistenziale, risposte indispensabili in una prima fase, ma non nel lungo periodo. 
In situazioni spesso tragiche e realmente croniche piccoli progressi possono davvero significare molto per la persona e anche per chi si prende cura di lui. E allora perché non provare? Si tratta di mettersi al suo posto e con i suoi occhi vedere quello che è ancora possibile fare e che spesso l’ambiente non permette. 
A volte bisogna vedere ancora meglio della persona che ha una malattia, portato spesso a considerare solo le sue limitazioni. Come può essere sereno e soddisfatto della propria vita chi non riesce più a far nulla? Il rimedio non può essere un buon farmaco e neanche un bravo psicologo. Chi assiste la persona, chi gli è realmente vicino può fungere da sua lente di ingrandimento per vedere dove si può attivare ora, in questa condizione. Non si tratta di voler far sembrare meno grave la situazione e nemmeno pensare di trovare un modo per far accettare qualcosa che umanamente non può che generare rabbia e sconforto. Se però ci si impegnasse a costruire cosa ancora si può fare ci si renderebbe conto che spesso la vita non è finita con l’insorgere dell’evento morboso. 
La persona con disabilità deve “imparare” il più delle volte a fare le stesse cose in modo diverso. A volte molto diverso. Deve crederci lui e deve crederlo possibile chi gli è accanto. Una soluzione c’è se si è pronti a vederla. Un manico della posata più spesso, un tappeto tolto ai piedi de letto, un lavandino più basso in bagno, una doccia senza gradino. Piccole modifiche che possono significare molto. E’ un ricominciare a fare che motiva la persona, abituata magari per lungo tempo ad un’assistenza completa. Permette che i risultati ottenuti in altri ambiti (con il fisioterapista, il terapista occupazionale o lo psicologo) si traducano in qualcosa di concreto. 
Solo investendo su una sua maggior autonomia possiamo aspettarci di sentirci dire da una persona con emiplegia “Pago io il giornale”, “Ho cucinato una torta buonissima”, “Ieri siamo andati al cinema”, “Ormai mi lavo da solo”. 
Assistere allora può essere inteso come aiutare la persona ad apprendere nuove strategie da adottare per poter eseguire con sempre maggior autonomia le attività della vita quotidiana e anche per poter avvicinarsi nuovamente ai suoi interessi. Se è vero che l’evento morboso determina una spaccatura tra il “prima” e il “dopo” è anche vero che in qualche modo, spesso difficile, ci si può riavvicinare a quel “prima”. E’ importante che una maggior autonomia vada a interessare non solo le attività quotidiane di cura di sé, ma ogni peculiarità del soggetto, i suoi interessi, le sue passioni e, perché no, la sua progettualità. Si possono fare progetti, anche piccoli, se si fa, se ci si sente in qualche modo vivi e ancora padroni della propria vita. Solamente così è possibile parlare ancora di qualità della vita non solo accettabile ma discreta.
Non è utopia, è solo un altro modo di fare assistenza: assiste meglio non chi fa di più, ma chi considera via via cosa può riprendere a fare la persona malata da sola o con un supervisore. Ogni vita vissuta con proprie scelte, obiettivi e risultati nel momento involutivo necessita di attenzioni ed interventi finalizzati a un possibile recupero affinché possa essere assicurata la permanenza della persona nel proprio ambiente di vita. 
Autonomia e ambiente sono termini strettamente correlati perché il riprendere a fare è condizionato dall’accessibilità di tutto ciò che circonda la persona e non dipende esclusivamente dalla sua patologia. 
l’accessibilità riguarda la riorganizzazione degli spazi privati e pubblici perché tutti possano fruirne in sicurezza libertà e autonomia. Pubblici e…privati. Sì, accessibilità non solo fuori casa. A cosa serve un ambiente accessibile se nessuno è invogliato a uscire? Cosa serve una banca accessibile se tanto la persona non ci va perché ha già qualcuno che si occupa di questo senza coinvolgerlo? Il cinema può avere un ingresso accessibile ma questo presuppone che qualcuno abbia una compagnia con cui condividere questo svago, che sia autonomo nel decidere di andarci. Accessibile allora deve essere la nostra mente, la mente di chi aiuta. Questo è il presupposto indispensabile per chiedere all’ambiente di adattarsi, di modificarsi sulla base dei diversi bisogni delle persone che in quell’ambiente vivono. Questa dovrebbe essere la mentalità di chi si approccia alla persona che ha una malattia o una disabilità per poter garantire sempre la giusta misura di assistenza e avviamento all’autonomia. 

Roberta Lodi Pasini (psicologa) e Pia Paganetti (terapista)

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