Psicologia del viaggiatore

Scritto da Luciana Quaia il 25-08-2011

E’ estiva l’abitudine di partire alla ricerca di luoghi che consentano  di scoprire nuove realtà lontane dalla consuetudine del vivere quotidiano e dei suoi ritmi doveristici. Un modo per “dimenticarsi” chi si è, dove si abita, chi ti vive accanto e, per un misurato lasso di tempo, poter respirare aria diversa, sperimentare altri spazi, culture, costumi.
Il viaggio condotto nell’epoca moderna, diventato ormai routine, ha radicalmente mutato la figura storico-sociale del viaggiatore, così come lo si può riscontrare nelle diverse etimologie che nel corso del tempo hanno sottolineato le ristrutturazioni di tale termine.
E’ interessante, per esempio, soffermarsi sul latino viaticum, col quale si intendeva la raccolta di provviste necessarie ad affrontare un trasferimento piuttosto lungo da un territorio all’altro, o la parola inglese travel, così vicina al nostro italiano travaglio, che mette in risalto come nel passato i viaggi rivestissero impegno, gravosità e sofferenza. d’altro canto anche il tedesco reise nella sua originarietà enunciava l’abbandono di uno stato di quiete, così come l’inglese to rise significa alzarsi.
In definitiva viene da immaginare che ciò che oggi è vissuto come evasione e praticamente fenomeno di massa, anticamente costituiva difficoltà nello spostamento, disagio nel percorso, avventure alla ricerca di terre sconosciute che comportavano rischi anche elevati per la sopravvivenza.
Ma perché si viaggia e, soprattutto, il viaggio deve avere sempre una meta?
Da queste domande escludiamo lo scopo esibizionistico o di consumo che sviliscono un significato  più profondo del mettersi  in moto. E’ infatti un falso modo  di viaggiare quell’andare per luoghi solo per il gusto di poterne parlare al ritorno, snocciolando una serie di nomi destinati a cadere nell’oblio dopo un breve periodo, ma che al momento possono impressionare l’ascoltatore per la numerosità condensata nell’arco di pochi giorni.
Così come è un falso viaggiatore colui che sceglie terre esotiche per trascorrere le sue vacanze in uno dei molteplici club vacanze in cui può ritrovare il suo angolo  di mondo momentaneamente abbandonato (dalla vera cucina italiana al gruppo  di corregionali con cui discutere di politica e di calcio).
Che queste modalità soddisfino il bisogno di vacanza è implicito, però sono altresì lontane da quegli elementi che rappresentano il fondamento del viaggio, ovvero l’aspettativa del non conosciuto e la scoperta dell’altro da noi.
Ovviamente ciò non significa misurare il viaggio in termini chilometrici: ogni luogo può diventare quello elettivo sia per ridefinire la  propria visione del mondo, sia per trovare in sé il proprio centro. Il repertorio è vasto: dagli spazi dei cinque continenti a quelli più intimi dell’abitare, della memoria, della tradizione, della comunità e del radicamento identitario.
Ciò che conta, inoltre, non è la tipologia del viaggiatore a determinare necessariamente la scelta del dove andare: si può essere girovaghi vagabondi, anelare lo spirito on the road, solcare le vie dell’acqua o del cielo, essere spartani o borghesi. Qualunque sia la nostra personalità, le direzioni del movimento, al di là della meta, sono sempre caratterizzate da tre precisi momenti: la partenza, il percorso, il ritorno al luogo del distacco.
Se da un punto di vista storico-antropologico i significati sottesi a queste tre fasi possono rivestire molteplici diversificazioni (scoperta, conquista, sfruttamento, avventura, erranza, esilio, migrazione) il tema della circolarità include costantemente il nostos, la nostalgia, il desiderio di tornare al punto da cui si era partiti.
In letteratura, uno dei più conosciuti eroi che fa del suo viaggio una meta per il ritorno è Ulisse, il quale celebra la materia della nostalgia in ogni sua peripezia, ben consapevole di rinunciare a doni di immortalità, felicità e ricchezza pur di riapprodare al porto domestico “Anche così desidero e voglio ogni giorno giungere a casa e vedere il dì del ritorno”.
In questa idea del ricongiungimento alla località di partenza, il viaggio inteso come parziale e temporanea parentesi assume valenza educativa e formativa. l’abbandono e l’allontanamento da casa esprimono infatti gli indispensabili momenti iniziatici per poter crescere intellettualmente e moralmente, acquisire autonomia, imparare a cavarsela da soli e infine ritornare alla propria casa che si ritrova diversa da quella lasciata proprio grazie alla separazione avvenuta e alle esperienze vissute.
Potremmo affermare con Marco Dallari che “il viaggio è iniziazione quando … indipendentemente dalle sue mete … nasce e acquista autenticità se diventa viaggio vissuto”. Dove per spazi vissuti riprendiamo la bella definizione di Eugenio Borgna che in Le figure dell’ansia spiega: “modi con cui ognuno di noi rivive gli spazi che ci circondano e ci sommergono. Sono modi, questi, che cambiano con il cambiare del nostro stato d’animo e delle nostre emozioni, e che testimoniano delle correlazioni implacabili esistenti tra la mia soggettività (il mio Io) e il mondo in cui mi rifletto e in cui vivo”.
Il viaggiare a questo punto mette in luce una dimensione ben più profonda, poiché imbocca la traiettoria del percorso interiore e della relazione fra il proprio sé con il mondo esterno. James Hillman nomina questo investimento psicologico fare anima: “se è vero che l’anima ha a che fare con l’approfondirsi degli eventi, questi eventi non sono solo dentro di noi ma possono essere dentro il mondo”.
Sul piano affettivo-emotivo pertanto, ogni luogo può trasmettere una forza particolare e sollecitare svariate emozioni: il viaggio diventa così il mezzo migliore per uscire da sé, incontrare il mondo, esplorare ambienti che attivano nell’Io stati d’animo e riflessioni.
Naturalmente le inclinazioni individuali orienteranno la meta: l’esercizio dell’anima nell’osservare cose sconosciute può essere diretto agli elementi naturali, così plurali e diversi per latitudini e trasformazioni umane del paesaggio, oppure soffermarsi più semplicemente sui propri spazi sociali (borghi, città, piazze) che il lavoro di generazioni ha reso densi di significato.
Un po’ con lo spirito del flaneur, che cerca se stesso immergendosi nell’oggettività del mondo, allo stesso modo in cui si tufferebbe in uno spazio pieno di meraviglie. Il flaneur, rinominato da Gaspare Armato pedone attento, ha un occhio curioso e sensibile:”esce di casa, cammina, girovaga senza una meta e senza orarios’intende di fisiognomica, scruta con attenzione i soggetti di cui è attratto, legge i loro volti, le loro rughe, ne deduce il mestiere, l’origine, ascolta i loro ragionamenti, analizza il modo di muoversi, il passo veloce o lento, deciso o perplesso, a volte segue il loro cammino, a volte si perde fra la folla, a volte ne esce, a volte fugge verso la periferia dove ritrova quella parte di esseri umani che non possono avvicinarsi al nuovo, al lusso, s’immerge nei dedali estremi della città costruita come i labirinti della mente”. Grandi scoperte anche in brevi spostamenti, se assumiamo l’arte del passeggio come forma di stupore, come propongono le parole di Robert Walser tratte dal suo libro La passeggiata: “Ogni passeggiata è piena di incontri, di cose che meritano d’esser viste, sentite. Di figure, di poesie viventi, di oggetti attraenti, di bellezze naturali brulica letteralmente, per solito, ogni piacevole passeggiata, sia pur breve. … Senza passeggiate e la relativa contemplazione della natura, senza questa raccolta di notizie, che allieta e istruisce insieme, che è ristoro e incessante monito, io mi sento perduto, e realmente lo sono”.
Ecco allora che la risposta alla domanda perché si viaggia potrebbe essere espressa in una sintetica enunciazione: per scoprire il mondo, gli esseri umani e se stessi.
Dunque viaggio come evasione dal quotidiano, viaggio come tempo”straordinario” rispetto all’ordinarietà della vita e come possibilità di vivere eccezioni in contrapposizione alle sue regole, viaggio come educazione alla sobrietà (si deve pur preparare una valigia e rinunciare alle troppe cose che riempiono la nostra casa),
viaggio come stimolo cognitivo di apprendimento e conoscenza e come arricchimento di fantasia e apertura mentale.
Ma anche viaggio che supporta la costruzione di un processo trasformativo, un distacco limitato nel tempo che aiuta a pensare che si può andare un po’ più  lontano da dove ci si trova e che aiuta a misurare meglio la vita.