Quando l'anziano diventa fragile
Scritto da Luciana Quaia il 22-05-2012
l’aspettativa di vita è in costante aumento: nell’uomo la vita media è di 78,9 anni, mentre nella donna ha raggiunto gli 84,1.
Probabilmente saremmo tutti più felici se il suo allungamento corrispondesse al periodo centrale dell’esistenza e non a quello della vecchiaia.
Consultando il rapporto ISTAT del 2010, infatti, leggiamo che le persone con disabilità in Italia sono 2.609.000, di cui il 50% è rappresentato da soggetti con più di 80 anni. E questa cifra è destinata ad aumentare, visto che la perdita di autonomia peggiora con il crescere dell’età, epoca in cui le patologie croniche invalidanti si sommano ai processi d’invecchiamento fisiologici.
Con il termine disabilità si definiscono gravi difficoltà nelle dimensioni del movimento, delle funzioni quotidiane e della comunicazione. Può quindi trattarsi di una persona adulta con handicap fisico, psichico, sensoriale, oppure riguardare un individuo anziano non autosufficiente o affetto da una malattia cronica, la cui ridotta autonomia personale è tale da rendersi necessario l’intervento assistenziale continuativo di altre persone.
Nel soggetto che invecchia si manifestano perdite che in qualche modo, pur essendo temute, sono attese: a livello fisico risultano meno efficienti il movimento, la forza, il recupero; a livello mentale rallentano la memoria, la velocità di elaborazione del pensiero, l’apprendimento; a livello psicologico possono esservi difficoltà nell’accettazione delle trasformazioni avvenute e una caduta della progettualità.
Lo scrittore americano Malcolm Cowley, nella sua opera The view from 80, traduce i “sintomi” del diventare vecchi con queste descrizioni: “quando è un successo fare le cose prestando molta attenzione, mentre prima venivano eseguite senza pensarci; quando ci sono sempre più farmaci nell’armadietto dei medicinali; quando le ossa dolgono; quando si hanno le mani di pastafrolla; quando si esita davanti a una rampa di scale; quando diventa sempre più difficile ricordare due cose alla volta; quando si dimenticano i nomi; quando si decide di non guidare più la sera; quando il tempo passa sempre più veloce…”
Se questi sono i volti inevitabili dell’età che avanza, altri spettri si aggirano, nonostante gli sforzi compiuti dalla tecnica per produrre nuovi rimedi e aspettative. Si tratta delle malattie croniche invalidanti e degenerative: artrosi, osteoporosi, ipertensione arteriosa, demenza (di quest’ultima il rischio di contrarla già a 55 anni è del 25%).
Talvolta la disabilità è un fenomeno più subdolo, in quanto non riferita ad un unico evento quanto piuttosto al risultato di diverse alterazioni anatomiche e funzionali che, pur di entità modesta, nel tempo si accumulano, a volte anche in modo silente, fino a precludere le capacità di recupero e a determinare, quindi, la perdita dell’autonomia.
Ci troviamo pertanto di fronte a due modalità di vivere la vecchiaia: l’una, per fortuna la più diffusa, rappresentata da schiere di anziani attivi e protagonisti a pieno titolo della loro vita, l’altra costituita da soggetti la cui fragilità e cronicizzazione di alcuni disturbi possono determinare rischi di solitudine e passività che impongono una tutela contro l’emarginazione e l’abbandono.
A questo proposito, secondo lo psicoanalista psicogeriatra Alberto Spagnoli, sono due gli elementi che contraddistinguono l’invecchiamento: il primo è il declino del corpo che comporta i mutamenti nei sensi, nella memoria, nella sessualità, nel decadimento generalizzato. Il secondo elemento è invece la “de situazione”, ovvero il sentirsi superato, escluso, invisibile, improduttivo, patetico, un peso per la società che non ha più bisogno di te.
Che il processo dell’invecchiare comporti delle modificazioni fisiologiche è assodato, a dispetto dei condizionamenti culturali e tecnologici che si ostinano a voler cancellare i segni del tempo.
Sul piano psicologico, queste alterazioni corporee possono causare una vera crisi di identità: “chi sono io, che cosa sto diventando?”.
Quando il corpo perde elasticità e vigore, quando diventa espressione reale del tempo vissuto, l’invecchiamento getta un’ombra terribile sulla percezione di sé. Così ne parla lo scrittore Jean Améry nel suo Rivolta e rassegnazione: “Potremo sfuggire allo specchio. Ma non potremo non osservare le nostre mani, sulle quali sono in evidenza le vene, la nostra pancia, molle e grinzosa, i nostri piedi, le cui unghie risultano ispessite e crepate. Nemmeno se fossimo ciechi potremmo sfuggire al nostro corpo, dobbiamo stare in questa nostra pelle che si squama, anche se ben volentieri la abbandoneremmo”.
Quando inoltre subentra la disabilità, l’integrità corporea ne viene intaccata e si incrina la sicurezza di sé. La malattia viene percepita come minaccia e danno. Il corpo diventa un traditore poiché da produttore qual era si trasforma in qualcosa da assistere, modificando drasticamente ruolo, status e, di conseguenza, le relazioni interpersonali, l’ambiente di vita e le risorse economiche.
E proponendo la visione più drammatica del limite e della fine che si avvicina.
Seguendo le teorizzazioni dello psicologo Erik Erickson, il compito evolutivo che l’ultimo ciclo di vita richiede vede la contrapposizione di due possibili atteggiamenti. Il primo riguarda l’accettazione di sé e del risultato che la vita vissuta ha prodotto; il secondo è rappresentato dalla disperazione suscitata dalle perdite subite e dal rimpianto di ciò che è stato e non potrà essere più.
l’età anziana, pertanto, diventa il tempo di sostenere la prospettiva della morte, senza essere travolti dalla disperazione. Emblematica la raffigurazione simbolica che ne fa il giornalista Piero Ottone nel suo testo autobiografico Memorie di un vecchio felice: “Ho pensato che è come se vivessimo, noi di età avanzata, in un fortino cinto d’assedio. Fuori c’è l’armata nemica, un’armata che non perdona, e che non ha fretta, non se ne andrà mai. Di tanto in tanto gli assedianti sparano, una pallottola va a segno, uno di noi cade, ferito o ucciso. La guarnigione si assottiglia, uno di meno. Sappiamo che non c’è scampo, alla fine soccomberemo tutti; l’esercito in grado di liberarci dall’assedio non esiste, non verrà. Siamo soli, siamo abbandonati alla nostra sorte”.
Se non si produce integrazione fra la legittima disperazione e l’auspicabile accettazione, ne emergerà un vecchio distruttivo e autodistruttivo, ancorato ad un passato intriso di rancori e rimpianti che annulla la possibilità di leggere le nuove prospettive della realtà che si presenta.
Viceversa, adeguarsi alla propria immagine che declina, corrisponde al riconoscimento di una rinuncia e di un cambiamento, processo che Carl Gustav Jung esprime con la splendida immagine di “mettere radici nell’anima“.
In una fase in cui tutto pare fallimentare (diminuzione delle prestazioni fisiche, malattia che causa invalidità, perdita di affetti significativi, conflitti relativi a una coabitazione forzata, dipendenza dalle cure di altri),
il mettere radici nell’anima apre una nuova tensione verso la vita, dedicata al ripensamento di sé, a trovare nuovi adattamenti agli eventi che spaventano, a iniziare a immaginare un “futuro senza di me”.
“Che anziano voglio diventare?” è dunque una domanda da porsi in un’età in cui ancora il futuro si allunga, per imparare a dare un significato alle perdite, per avere il tempo di pensare che il limite deve essere inglobato in una nuova idea di sé e per essere pronti, quando il futuro si accorcia, a sapere vivere autenticamente il presente.
Nel coinvolgente libro autobiografico del giornalista americano Mitch Albom, I miei martedì col professore, Mitch rintraccia Morrie Schwartz, suo professore al college, vecchio e gravemente malato. Nei martedì che dedica a rendergli visita i due, nel tempo che resta, dibattono sui temi della vita, compresi la vecchiaia e la morte.
Al quesito posto dal suo allievo “Non ti ha mai fatto paura invecchiare?”, il vecchio professore morente risponde: “Io accetto la vecchiaia. Man mano che cresci, impari. Se ti fossi fermato a ventidue anni, saresti rimasto ignorante com’eri a ventidue anni. Invecchiare non vuol dire solo declino, sai. E’ crescita. Non c’è solo il lato negativo ma anche quello positivo: tu comprendi di stare per morire, e vivi una vita migliore proprio per quello”.
Probabilmente saremmo tutti più felici se il suo allungamento corrispondesse al periodo centrale dell’esistenza e non a quello della vecchiaia.
Consultando il rapporto ISTAT del 2010, infatti, leggiamo che le persone con disabilità in Italia sono 2.609.000, di cui il 50% è rappresentato da soggetti con più di 80 anni. E questa cifra è destinata ad aumentare, visto che la perdita di autonomia peggiora con il crescere dell’età, epoca in cui le patologie croniche invalidanti si sommano ai processi d’invecchiamento fisiologici.
Con il termine disabilità si definiscono gravi difficoltà nelle dimensioni del movimento, delle funzioni quotidiane e della comunicazione. Può quindi trattarsi di una persona adulta con handicap fisico, psichico, sensoriale, oppure riguardare un individuo anziano non autosufficiente o affetto da una malattia cronica, la cui ridotta autonomia personale è tale da rendersi necessario l’intervento assistenziale continuativo di altre persone.
Nel soggetto che invecchia si manifestano perdite che in qualche modo, pur essendo temute, sono attese: a livello fisico risultano meno efficienti il movimento, la forza, il recupero; a livello mentale rallentano la memoria, la velocità di elaborazione del pensiero, l’apprendimento; a livello psicologico possono esservi difficoltà nell’accettazione delle trasformazioni avvenute e una caduta della progettualità.
Lo scrittore americano Malcolm Cowley, nella sua opera The view from 80, traduce i “sintomi” del diventare vecchi con queste descrizioni: “quando è un successo fare le cose prestando molta attenzione, mentre prima venivano eseguite senza pensarci; quando ci sono sempre più farmaci nell’armadietto dei medicinali; quando le ossa dolgono; quando si hanno le mani di pastafrolla; quando si esita davanti a una rampa di scale; quando diventa sempre più difficile ricordare due cose alla volta; quando si dimenticano i nomi; quando si decide di non guidare più la sera; quando il tempo passa sempre più veloce…”
Se questi sono i volti inevitabili dell’età che avanza, altri spettri si aggirano, nonostante gli sforzi compiuti dalla tecnica per produrre nuovi rimedi e aspettative. Si tratta delle malattie croniche invalidanti e degenerative: artrosi, osteoporosi, ipertensione arteriosa, demenza (di quest’ultima il rischio di contrarla già a 55 anni è del 25%).
Talvolta la disabilità è un fenomeno più subdolo, in quanto non riferita ad un unico evento quanto piuttosto al risultato di diverse alterazioni anatomiche e funzionali che, pur di entità modesta, nel tempo si accumulano, a volte anche in modo silente, fino a precludere le capacità di recupero e a determinare, quindi, la perdita dell’autonomia.
Ci troviamo pertanto di fronte a due modalità di vivere la vecchiaia: l’una, per fortuna la più diffusa, rappresentata da schiere di anziani attivi e protagonisti a pieno titolo della loro vita, l’altra costituita da soggetti la cui fragilità e cronicizzazione di alcuni disturbi possono determinare rischi di solitudine e passività che impongono una tutela contro l’emarginazione e l’abbandono.
A questo proposito, secondo lo psicoanalista psicogeriatra Alberto Spagnoli, sono due gli elementi che contraddistinguono l’invecchiamento: il primo è il declino del corpo che comporta i mutamenti nei sensi, nella memoria, nella sessualità, nel decadimento generalizzato. Il secondo elemento è invece la “de situazione”, ovvero il sentirsi superato, escluso, invisibile, improduttivo, patetico, un peso per la società che non ha più bisogno di te.
Che il processo dell’invecchiare comporti delle modificazioni fisiologiche è assodato, a dispetto dei condizionamenti culturali e tecnologici che si ostinano a voler cancellare i segni del tempo.
Sul piano psicologico, queste alterazioni corporee possono causare una vera crisi di identità: “chi sono io, che cosa sto diventando?”.
Quando il corpo perde elasticità e vigore, quando diventa espressione reale del tempo vissuto, l’invecchiamento getta un’ombra terribile sulla percezione di sé. Così ne parla lo scrittore Jean Améry nel suo Rivolta e rassegnazione: “Potremo sfuggire allo specchio. Ma non potremo non osservare le nostre mani, sulle quali sono in evidenza le vene, la nostra pancia, molle e grinzosa, i nostri piedi, le cui unghie risultano ispessite e crepate. Nemmeno se fossimo ciechi potremmo sfuggire al nostro corpo, dobbiamo stare in questa nostra pelle che si squama, anche se ben volentieri la abbandoneremmo”.
Quando inoltre subentra la disabilità, l’integrità corporea ne viene intaccata e si incrina la sicurezza di sé. La malattia viene percepita come minaccia e danno. Il corpo diventa un traditore poiché da produttore qual era si trasforma in qualcosa da assistere, modificando drasticamente ruolo, status e, di conseguenza, le relazioni interpersonali, l’ambiente di vita e le risorse economiche.
E proponendo la visione più drammatica del limite e della fine che si avvicina.
Seguendo le teorizzazioni dello psicologo Erik Erickson, il compito evolutivo che l’ultimo ciclo di vita richiede vede la contrapposizione di due possibili atteggiamenti. Il primo riguarda l’accettazione di sé e del risultato che la vita vissuta ha prodotto; il secondo è rappresentato dalla disperazione suscitata dalle perdite subite e dal rimpianto di ciò che è stato e non potrà essere più.
l’età anziana, pertanto, diventa il tempo di sostenere la prospettiva della morte, senza essere travolti dalla disperazione. Emblematica la raffigurazione simbolica che ne fa il giornalista Piero Ottone nel suo testo autobiografico Memorie di un vecchio felice: “Ho pensato che è come se vivessimo, noi di età avanzata, in un fortino cinto d’assedio. Fuori c’è l’armata nemica, un’armata che non perdona, e che non ha fretta, non se ne andrà mai. Di tanto in tanto gli assedianti sparano, una pallottola va a segno, uno di noi cade, ferito o ucciso. La guarnigione si assottiglia, uno di meno. Sappiamo che non c’è scampo, alla fine soccomberemo tutti; l’esercito in grado di liberarci dall’assedio non esiste, non verrà. Siamo soli, siamo abbandonati alla nostra sorte”.
Se non si produce integrazione fra la legittima disperazione e l’auspicabile accettazione, ne emergerà un vecchio distruttivo e autodistruttivo, ancorato ad un passato intriso di rancori e rimpianti che annulla la possibilità di leggere le nuove prospettive della realtà che si presenta.
Viceversa, adeguarsi alla propria immagine che declina, corrisponde al riconoscimento di una rinuncia e di un cambiamento, processo che Carl Gustav Jung esprime con la splendida immagine di “mettere radici nell’anima“.
In una fase in cui tutto pare fallimentare (diminuzione delle prestazioni fisiche, malattia che causa invalidità, perdita di affetti significativi, conflitti relativi a una coabitazione forzata, dipendenza dalle cure di altri),
il mettere radici nell’anima apre una nuova tensione verso la vita, dedicata al ripensamento di sé, a trovare nuovi adattamenti agli eventi che spaventano, a iniziare a immaginare un “futuro senza di me”.
“Che anziano voglio diventare?” è dunque una domanda da porsi in un’età in cui ancora il futuro si allunga, per imparare a dare un significato alle perdite, per avere il tempo di pensare che il limite deve essere inglobato in una nuova idea di sé e per essere pronti, quando il futuro si accorcia, a sapere vivere autenticamente il presente.
Nel coinvolgente libro autobiografico del giornalista americano Mitch Albom, I miei martedì col professore, Mitch rintraccia Morrie Schwartz, suo professore al college, vecchio e gravemente malato. Nei martedì che dedica a rendergli visita i due, nel tempo che resta, dibattono sui temi della vita, compresi la vecchiaia e la morte.
Al quesito posto dal suo allievo “Non ti ha mai fatto paura invecchiare?”, il vecchio professore morente risponde: “Io accetto la vecchiaia. Man mano che cresci, impari. Se ti fossi fermato a ventidue anni, saresti rimasto ignorante com’eri a ventidue anni. Invecchiare non vuol dire solo declino, sai. E’ crescita. Non c’è solo il lato negativo ma anche quello positivo: tu comprendi di stare per morire, e vivi una vita migliore proprio per quello”.