Ami scrivere? Mandaci i tuoi racconti!

Scritto da Stannah il 08-04-2008

Ci sono attitudini che non sappiamo spiegarci. In genere ci accorgiamo di averle già da bambini, ma poi la vita non sempre ci consente di coltivarle. La scrittura è una di queste: quanti, tra i vostri amici, hanno nel cassetto racconti, versi o addirittura un romanzo già finito che però non hanno il coraggio di portare da un editore?
Perché una cosa è sognare di trasformarsi in novelli Balzac, un’altra è farlo davvero… Di qui la nostra idea: per chi non se ne fosse ancora accorto, il blog si è arricchito di una nuova sezione, dalla redazione chiamata “Penne in libertà”. In questo spazio, chi vorrà, potrà sentirsi scrittore… e magari chiacchierare con il resto della piccola comunità che naviga su queste pagine, rispondendo ai loro commenti e riflessioni… e, perché no, prendere spunto dai dialoghi nati sul blog per trovare nuova ispirazione!
Perciò non ci resta che partire. Anzi, comincia Gianfranco Parenti, con il suo toccante racconto. Buona lettura a tutti!

Il colosso di Altamura

Inerpicato in cima a otto rampe di scale, ripide come solo in Puglia forse le sanno fare, s’affaccia un vano dalla forma vagamente squadrata. La luce che lo inonda accarezza profili e contorni in cui angoli e inclinazioni perimetrali sono morbidi come le albe e i tramonti di queste terre.

Il vano, grandissimo, è una cucina in cui troneggia un tavolo massiccio ingombro di taralli dolci e salati: quelli dolci hanno una glassa bianca, spessa e quelli salati, più piccoli, appaiono cotti alla perfezione. Sul tavolo poggiano un paio di bottiglie di vermut alla noce vomica e, così grosso che solo il pensiero di sollevarlo per riporlo mi fa sudare, un vaso di vetro, pieno di mele cotogne tagliate a pezzettini, cotte in forno, poi caramellate ed infine messe sotto spirito.


Disposti apparentemente a caso sull’enorme tavolo ci sono bicchieri, piattini, posate: vari utensili tutti di foggia diversa, mentre le stoviglie di terracotta mostrano colori tenui. Non c’è tovaglia: solo una striscia di sole più intensa funge da apparecchiatura per l’imbandigione improvvisata che ci viene offerta con generosità.

Ci mostrano in continuazione piccole e scurissime noci da cui hanno estratto il liquore che ci pregano d’assaggiare; da madie profonde estraggono mele cotogne contorte, bitorzolute, piene di nodi che ci invitano a osservare con attenzione: “Frutta come questa nei mercati non c’è, non la trova. E sa perché? Perché la gente vuole essere ingannata, scambia il bello per il buono! Cercano le mele dalla pelle liscia: roba di plastica! Senta il profumo che viene da qui!”, dice mentre mi avvicina, imperioso, la mela sotto il naso.

Questa mela appare al termine di un braccio immenso e mi viene offerta perché l’esamini a mio agio. Le dita del colosso sembrano proprio il tronco da cui la mela è nata. Il braccio poi è immerso in un corpo che proprio come un ramo fuoriesce dal tronco. E che tronco! Come una quercia, come una sequoia, come un albero gigantesco appare il signore la cui voce è oltre tutto profonda ed alta allo stesso tempo. l’uomo è un gigante malinconico, con lo sguardo perso fuori nel cielo, oltre la finestra che dà su una grande terrazza protesa sui tetti. Come dalla tolda di una nave, il gigante scruta l’orizzonte.

Seduto sulla sedia dalla quale difficilmente si stacca, questo gigante di oltre 170 chili, estrae dal portafogli una foto che lo ritrae militare di leva, sessant’anni fa. Dalla foto ingiallita esce lo stesso sguardo di oggi: una richiesta muta e gentile che sembra animare l’espressione di quel volto. Allora come oggi, quella bocca corrucciata, sembra chiedere a chi incrocia quegli occhi: aiutami a volare via di qui. Luca ed io ce ne andiamo dopo poco. Non parliamo fra noi. Entrambi siamo usciti da questa casa con la sensazione di sentirci, come il nostro ospite ormai da chissà quanto, prigionieri.

Oggi, a differenza degli altri giorni, non abbiamo trovato ali abbastanza forti da sostenere l’ascesa del colosso di Altamura.

Gianfranco Parenti

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