Fabrizio Astrua e la progettazione “multisensoriale” per l’uomo comune

Scritto da Alessandra Cicalini il 18-04-2013

Intervista di Alessandra Cicalini

A prima vista, gli esseri umani sembrano poco inclini ai cambiamenti. Per fortuna la realtà è ben diversa da come appare. Lo dimostra ad esempio come oggi non ci sia praticamente più nessuno che si stupisce vedendo una persona in carrozzina passeggiare serenamente nel centro città o salire su un mezzo pubblico. Eppure, solo trent’anni fa, almeno nel nostro Paese, non era affatto così: “Negli anni Ottanta di carrozzine in giro non ce n’era neanche una né le città erano attrezzate per garantirne la circolazione”. Ad affermarlo, è Fabrizio Astruaingegnerespecializzato nella progettazione edile, responsabile scientifico del corso post lauream delPolitecnico di Torino intitolato Universal design – progettazione inclusiva e sostenibile. Sessantacinque anni e un entusiasmo per il suo appassionante lavoro davvero invidiabile, il professore è stato un vero e proprio pioniere nella diffusione di concetti come accessibilità e fruibilità per tutti degli spazi privati e pubblici. Eppure, a suo dire, inizialmente mai avrebbe immaginato quanto fosse vasta la materia sulla quale, a partire dal 1986, ha formato oltre 500 ingegneri e architetti desiderosi di avviarsi alla progettazione sostenibile. Un tema che Astrua ha poi applicato anche nelle ricerche attivate in forma volontaria per il Centro Cornaglia, una Onlustorinese che lavora al miglioramento della qualità della vita degli anziani, grazie al contributo gratuito di un pool di professionisti specializzati in settori differenti. Del proprio percorso e di molto altro il professore ha parlato con Muoversi Insieme nell’intervista che segue. Buona lettura.

 

Com’è cambiata la sua visione della disabilità e quella generale dalla prima edizione del suo corso?

Moltissimo. Nel 1986, quando iniziammo, si era in anni in cui si stava diffondendo l’interesse sul tema dell’abbattimento delle barriere architettoniche, in vista della futura legge 13 del 1989 e del suo Decreto attuativo DM 236/89 sugli edifici privati, poi esteso agli spazi e agli edifici pubblici nel 1996. Io stesso, ingegnere edile, ma anche gli architetti, progettavamo per un uomo standard, quello immaginato da Le Corbusier, ossia un tipo nibelungo, alto un metro e ottantadue virgola nove, e tutto si adattava al modello, dalle sedie, al tavolo fino alle porte. Nel tempo si è capito, ho capito, che l’uomo è fatto da un insieme di entità diverse, sia da un punto di vista antropometrico sia come capacità sensoriali. Insomma: ci sono gli alti e i bassi, ma anche quelli che vedono, sentono o si orientano bene e meno bene. C’è stata in definitiva una grande evoluzione culturale.

 

Da dove è partita?

Probabilmente dagli Stati Uniti, dopo la fine della Guerra del Vietnam, a inizio anni Settanta: in quel periodo la società americana dovette fare i conti con i numerosi veterani colpiti da traumi e mutilazioni per cercare di favorirne il reinserimento sociale. Un grande salto culturale che si deve agli studi di Leo Goldsmith. In Europa, invece, l’area mitteleuropea esprime già da tempo una visione della disabilità come di un mondo molto vasto. Nel nostro continente sono stati importantissimi i contributi di Louis Pierre Grosbois in Francia e di Fabrizio Vescovo in Italia.

 

Oggi che cosa sta cambiando? 

Sta diventando sempre più diffuso un concetto, che per il nostro corso è una vera e propria linea-guida: non bisogna progettare “per” qualcuno, ma “meglio per tutti”, il che significa approfittare dell’occasione di dover progettare per una fascia considerata debole, per portare maggiore qualità a tutti. Tradotto ulteriormente, significa riportare l’uomo al centro della progettazione, cercando di conoscere le sue caratteristiche specifiche e approfondendole meglio. In due parole, questo si riassume nel concetto di “Universal Design e di Architecture for All”.

 

Come si fa in concreto?

Per esempio, se si sta progettando una scuola, si devono conoscere bene i soggetti che ne fruiranno, ossia chi la frequenterà (i bambini, i bidelli, gli insegnanti, ma anche i genitori, e così via). Inoltre si deve anche sapere che tra di essi vi possono essere persone con disabilità motorie, visive, sensoriali etc, che hanno gli stessi diritti di tutti. Un discorso diverso si dovrebbe fare se si progetta una casa di riposo. In questo caso occorre una ulteriore capacità e conoscenza relativa al mondo degli anziani.

 

Le è mai capitato di lavorare alla realizzazione di una casa di riposo?

Non direttamente, ma come membro del Centro Ricerche Cornaglia, a metà anni Novanta, sono stato relatore di una tesi sperimentale condotta da una studentessa per la progettazione di unaRsa di tipo geriatrico, con il supporto del Comune di Barolo. Il modellino del progetto è ancora ospitato nella sala del consiglio comunale: per sviluppare la sua tesi, la laureanda si è rivolta al Centro Ricerche Cornaglia per riuscire a ottenere informazioni approfondite sugli anziani utenti della Asl 18 di Alba-Bra, come si chiamava allora, soffermandosi sui motivi dei loro ricoveri e dismissioni e sul perché alcuni tornassero a casa propria e altri no.

 

Quindi, per una progettazione davvero universale, è fondamentale la collaborazione tra più professionisti?

Certamente: già la docenza del nostro corso post-lauream è multi-disciplinare e comprende fisiatri, architetti, esperti di antropometria, psicologi. I nostri allievi, insomma, si preparano ad affrontare l’estrema complessità della gestione di un progetto integrale partendo dalla conoscenza molto approfondita del fruitore. Ad esempio, nel caso uno di loro debba in futuro progettare una casa, dovrà non solo conoscere alla perfezione la normativa in vigore sul risparmio energetico oppure sul contenimento dei rumori, ma dovrà conoscere molto bene anche i bisogni dell’utente. Se invece lavorerà a una casa di riposo, dovrà pensare anche a uno spazio per la riabilitazione, per venire incontro alle esigenze di quegli anziani che hanno guai di salute e che desiderano vivere nella maniera più agevole possibile gli ultimi anni della loro vita. Poi ci sono anche i cosiddetti grandi vecchi, cioè quelle persone che stanno ancora abbastanza bene, che non vogliono mollare e che invece desiderano vivere in casa propria.

 

In sostanza, ribadisce il concetto che l’uomo è un insieme di mondi molto diversi tra loro e che il progettista deve saperlo. Come si struttura, allora, uno spazio pubblico moderno? 

Anche in questo caso tenendo conto dell’universalità dei soggetti. Se una volta si tendeva solo a rimuovere le barriere per i disabili motori, sempre di più oggi si prendono in considerazione altre forme di fruibilità. Per esempio, una bella fontana o una pianta profumata possono diventare stimoli percettivi, punti di riferimento per chi ha problemi visivi o di orientamento; svolgono funzione analoga gli arredi realizzati con particolari materiali ruvidi oppure con superfici tattili lisce facilmente riconoscibili. In definitiva, si sta andando sempre di più verso un approccio multi-sensoriale. Al punto, anzi, che si sta creando anche un paradosso.

 

Quale?

Il paradosso che una città storica fortificata come Bergamo Alta e inaccessibile per definizione, sia a livello multi-sensoriale più accessibile di una città progettata in pianura in epoca post industriale.

 

Per quale motivo?

Perché la prima, nonostante le mura veneziane cinquecentesche, le pendenze delle strade e la pavimentazione di ciottoli di fiume che rendono difficile l’accessibilità a livello di mobilità, possiede come valore aggiunto il profumo della bottega del panettiere, il rumore della fontanella, il sole che riverbera sui palazzi, ossia un’atmosfera accogliente per tutti. Insomma, ha una fruibilità multi-sensoriale molto più spiccata di un qualsiasi luogo della modernità, in cui il rumore di fondo, le auto in tripla fila, e così via hanno finito per annullare il senso della città come luogo di aggregazione e di piacevolezza.

 

Esistono esempi che riescono a coniugare accessibilità e fruibilità senza questo senso di appiattimento da lei giustamente biasimato?

In Italia è difficile fare un discorso complessivo. Però certo esistono esempi virtuosi. Nella mobilità urbana, si sono fatti grandi passi avanti: a Torino, ad esempio, non solo circolano gli autobus con il pianale ribassato alla stessa altezza delle banchine, ma sono stati installati anche cartelli in Braille, pannelli informativi in tre dimensioni, oltre al commento sonoro che segnala le singole fermate. Anche questo è un segno dell’evoluzione culturale di cui le parlavo: a metà anni Novanta, invece, i tecnici comunali sostenevano la difficoltà di realizzare un tram a pianale ribassato, cosa che invece era già realtà a Grenoble, città nella quale la progettazione del mezzo pubblico aveva finito per estendersi a tutto il contesto urbano. Su questo caso ho scritto un articolo pubblicato su più riviste.

 

Nel corso al Politecnico vi occupate anche di ausili e di design: anche in questo caso è possibile andare verso la progettazione per tutti?

Sicuramente. Ancora oggi negli ospedali troppi oggetti usati per sollevare o per altra funzione hanno un aspetto pressoché medievale. Invece è importante aggiungervi il valore della qualità estetica. A questo proposito, nei nostri workshop ospitiamo spesso aziende che realizzano ausili di design innovativo (ad esempio, sedie a rotelle o cataloghi a rilievo). In più, è fondamentale far passare il seguente concetto: l’universal design è per tutti, quindi accessibile anche in termini di costi (che non devono essere esagerati, come nel caso di un bagno speciale).

 

Lo scorso dieci aprile ha preso parte a un convegno organizzato dal Centro Ricerche Cornaglia sui baby-boomers, ossia gli italiani nati negli anni Cinquanta, oggi prossimi all’età anziana: come pensa che cambierà la società di qui a qualche decennio?

Bisognerebbe avere una sfera di cristallo per capire che cosa succederà. In ogni caso, penso che sia fondamentale considerare l’aumento del numero di anziani come un’opportunità e non come un problema, esattamente come già stiamo facendo con l’immigrazione. Molti anziani, infatti, soprattutto se in buona salute, potranno dare una mano alle generazioni più giovani non solo in termini economici come già stanno facendo oggi con le loro pensioni, ma anche mettendo a disposizione la loro esperienza a beneficio della collettività, però in forma del tutto gratuita. Perché io penso che sia importante dare il proprio contributo, ma anche non togliere spazio professionale ai giovani: a un certo punto bisogna passare la palla e restare attivi in altre forme.

 

Un messaggio forte e chiaro, come tutta la piacevolissima (multisensoriale!) conversazione con un vero gentleman della fruibilità. Da Muoversi Insieme il grazie più sentito.