Antonio Provasio, i Legnanesi e i cortili lombardi pieni di anima. E di speranza

Scritto da Alessandra Cicalini il 18-12-2014

Intervista di Alessandra Cicalini

Se è vero che la crisi morde, la voglia di ridere in maniera intelligente addirittura azzanna. Non è una battuta dei Legnanesi, la compagnia teatrale fondata da Felice Musazzi nel lontano 1949; però potrebbe esserlo, almeno nello spirito.

A confermarlo, ci pensa Antonio Provasio, che sulla scena interpreta la Teresa, ossia la mater della famiglia Colombo, affiancato da Luigi Campisi, Giovanni il pater, ed Enrico Dalceri, Mabilia la filia.

Tutti uomini, come succede, per chi non conoscesse ancora i Legnanesi, dall’anno della fondazione della compagnia, avvenuta nell’oratorio Legnarello di Legnano, un luogo in cui, per disposizione del Cardinale Schuster, era vietato trasformare in languide attrici pie fanciulle in fiore.

Accanto ai tre personaggi principali, recitano perciò altri esponenti di sesso maschile, alcuni nei panni di quel che sono davvero quanto a genere, altri, i cosiddetti “boys”, come metafore incarnate dei ballerini tanto in voga nella tradizionale rivista all’italiana  che il Felice e i suoi eredi (in tutto 41 persone riunite in una straordinaria Srl del palcoscenico, ndr) fanno generosamente rivivere in ogni spettacolo.

Dopo la penultima piéce dedicata più strettamente alla crisi, affrontata, ovvio, con la leggerezza appuntita tipica dell’affiatato gruppo, nella nuova  on stage come da tradizione a Milano la sera del 31 dicembre e il pomeriggio di Capodanno al Barclays-Teatro Nazionale, date inaugurali della consueta permanenza nel capoluogo meneghino per i quasi due mesi successivi, al centro torna il cortile lombardo, in una virata più decisa verso il retro, che tanto retro non è.

A dirlo, nell’intervista che segue, assieme a molte altre appassionanti cose, è sempre Antonio Provasio, oltre che interprete, anche sceneggiatore e regista della Compagnia. Buona lettura.

Avete mutuato il titolo “La finestra sui cortili” dal celebre film di Alfred Hitchcock anche per via del mistero con cui si apre la rappresentazione, ossia la sparizione della porta del bagno comune: la Teresa è risolutiva per il Giovanni tanto quanto Grace Kelly per James Stewart, allora?

Magari! Diciamo che la Teresa fa più che altro da ispettrice, ma non posso svelare più di tanto della trama, altrimenti che gusto c’è? Posso solo anticipare che ne succedono delle belle e che ci siamo agganciati al famoso film di Hitchcock per mostrare come dalle finestre dei nostri cortili si vedeva di tutto.

E secondo lei è bene guardare fuori dalle nostre finestre o sarebbe meglio farsi gli affari propri?

Direi 50 e 50: perché a mio avviso non bisognerebbe chiudersi in casa e non vedere niente di ciò che succede. È insomma anche bello guardare fuori, parlare con la gente e confrontarsi.

 

Di qui la centralità del cortile?

Esattamente: pur essendo ben consapevoli che il cortile tradizionale lombardo non esista più da tempo, vogliamo mantenerne lo spirito, ossia di un luogo in cui c’era voglia di aiutarsi a vicenda.

Non solo di farsi gli affari altrui, insomma… Lei ha ricevuto in eredità il personaggio della Teresa direttamente dal fondatore della compagnia, Felice Musazzi: si è mai sentito non all’altezza del compito?

In verità mi sento sempre un gradino sotto al mio maestro; ma in ogni caso la mia Teresa è un pelino diversa da quella del Felice.

Perché?

La sua era più drammatica, venendo il Felice dalla Filodrammatica, dotata tra l’altro di una comicità un po’ più lenta della mia. Io ho invece cercato di cabarettizzare il personaggio e di renderlo più veloce per adattarlo ai tempi di oggi. In tutti i modi, la maschera della Teresa è di Musazzi e il mio intento è solo quello di non farla dimenticare, continuando a portarla in scena nel miglior modo possibile.

E pensa di esserci riuscito?

Beh, a giudicare dalla buona affluenza di pubblico (circa 160 mila spettatori ogni anno), penso di essere sulla buona strada.

Oltre a Felice Musazzi, di recente avete citato altre due figure importanti nella compagnia, se non sbaglio da poco scomparsi.

Sì: si tratta di Antonio Luraghi  e Giuseppe Parini. Il secondo mi ha fatto quasi da secondo papà quando sono entrato nella compagnia, nel 1982: all’epoca ero il più giovane di tutti e Giuseppe interpretava una delle donne di cortile. Era un personaggio incredibile, simpaticissimo: oggi con noi recita il figlio, nelle vesti di comprimario.

Che ruolo ha?

A seconda delle necessità, fa il fidanzato della Mabilia, il commissario, il dottore, comunque tutti ruoli maschili.

E di Antonio Luraghi che cosa dice?

Oltre che un grande attore, era un pittore straordinario: è suo il monumento a Felice Musazzi che si trova davanti alla Pretura di Legnano. A Parini e Luraghi abbiamo dedicato tutti e tre gli spettacoli andati in scena a Legnano lo scorso novembre.

Qual è il vostro pubblico-tipo, sempre ammesso che ne abbiate uno?

Lo dico sempre: il nostro pubblico è vario e variegato. Da noi vengono infatti dall’imprenditore alla casalinga, dal pensionato ai bambini, questi ultimi veramente tantissimi.

Come mai?

Perché innanzitutto rimangono abbagliati dai balletti e dalle canzoni che noi abbiamo attinto dalla tradizionale rivista italiana, e poi perché negli scambi tra gli attori ci rivedono i loro nonni, le zie zitelle, insomma la loro quotidianità.

Però gli anziani sono la maggioranza?

Diciamo che lo zoccolo duro è costituito dagli over 50, e meno male, dato che sono gli unici ad avere ancora qualche soldino!

Visto il vostro ricorso al dialetto lombardo, vi è mai capitato che qualcuno vi affibbiasse qualche etichetta, diciamo così, localistica?

Parla della Lega? Sì, ci è successo, ma siamo riusciti presto a sfatare questo mito. Anche perché consideri che la famiglia Colombo è più proletaria che mai: il papà operaio, la figlia disoccupata e la mamma pensionata sono quanto di più lontano ci possa essere dalla Lega. E poi quest’ultima è nata nel 1980, i Legnanesi nel ’49, quindi si figuri un po’.

Oltretutto, poi, avete già superato i confini regionali più volte?

Infatti: quest’anno siamo stati al Sistina a Roma, con grande successo di pubblico, e poi a Firenze, mentre il prossimo andremo a Torino e poi a Genova.

Non vi piacerebbe farvi conoscere anche dalla provincia di altre regioni italiane, così piena di splendidi piccoli teatri?

Per il momento ci accontentiamo di toccare almeno i capoluoghi di provincia, poi, pian pianino, chissà. Il mio sogno, comunque, sarebbe arrivare a Napoli, città che io amo.

Del resto non sarebbe strano: il contrario è già successo.

Sì, è proprio così: io paragono spesso Musazzi a Eduardo De Filippo o al genovese Gilberto Govi. Sì: andare a Napoli sarebbe davvero bello.

Nel tempo è mutata la lingua che utilizzate in scena?

Sì, perché per stare al passo con i tempi, l’abbiamo dovuta molto italianizzare. In particolare, noi desideriamo far tornare in teatro i giovani e in qualche maniera ci stiamo riuscendo: soprattutto la domenica pomeriggio circa il 25-30% del pubblico è composto da ragazzi.

Cominciate a incuriosire anche i nuovi italiani, quelli di origine straniera?

In generale, da noi vengono anche molti meridionali e poi, sì, da un po’ di tempo qualche faccettina scura si comincia a vedere. Magari si fa spiegare le battute, ma comunque la multietnicità è inevitabile e pur non volendo, naturalmente, uscire dai nostri canoni, persino la Teresa, nella scena finale dedicata all’Expò, ne parla.

E che cosa dice?

Sì alla multietnicità, ma sì anche a ricordarsi da dove arriviamo, perché un popolo che non ha radici il vento se lo porta via.

Giustissimo… il testo dello spettacolo è, se non erro, completamente nuovo ed è la prima volta che succede?

Pur essendoci qualche idea di Musazzi, sì, il testo è nuovo, anche se abbiamo voluto tornare alla linea dei Legnanesi anni Settanta.

In che cosa consiste?

Abbiamo lavorato molto sui cortili, come già le accennavo, per rappresentare un’idea di semplicità e di voglia di aiutarsi, come succedeva allora.

Quindi mostrate un volto più impegnato?

Nei nostri spettacoli non si parla mai di politica: quella la lasciamo ai cabarettisti. Ciò che invece ci interessa è dare un omaggio all’italianità, lanciando il messaggio: è inutile scappare, dobbiamo al contrario restare e difendere ciò che siamo.

Un modo concreto con cui rendete onore alla nostra Nazione è la canzone dedicata al Festival di Sanremo, per celebrarne i 60 anni in tv: vi piacerebbe se vi invitassero a cantarla direttamente sul palco dell’Ariston?

Certo che ci farebbe piacere, ma sarà difficile che ci invitino. La canzone di cui lei parla, comunque, chiude il primo tempo in una scenografia tutta tricolore, studiata da Enrico Dalceri (la Mabilia sulla scena, ndr) e dal suo staff. È una parte davvero molto suggestiva.

Da vedere, insomma… tornando alla nostra povera patria, visto che Giorgio Napolitano sta per mollare, se la sentirebbe nelle vesti di Teresa di dare un messaggio alla nazione al posto suo o per lo meno di supportarlo in questi tempi grami? 

A dire il vero una scena del genere c’era in un nostro spettacolo di qualche anno fa, in cui la Teresa diventava la presidentessa d’Italia e andava alla prima della Scala. In ogni caso, lei direbbe di rimanere uniti e di non svendere il nostro patrimonio agli stranieri.

Un messaggio serio, quindi?

Sì, perché mi fa davvero rabbia pensare che noi italiani abbiamo storicamente insegnato agli altri come si vive e adesso sono i cinesi a insegnarlo a noi. Non ce l’ho specificamente con i cinesi, eh, però come italiano sono dispiaciuto di assistere a certe situazioni. A un certo punto la Teresa chiama l’Expò Exboh, perché chissà come andrà a finire.

Difficile liberarsi dell’amarezza che ci dà l’attualità, è comprensibile… Però riderci in maniera intelligente è ancora possibile.

Infatti: nei nostri spettacoli c’è sempre una morale positiva, data anche dal fatto che facciamo anche pensare, oltre che ridere.

E poi offrite pure qualche posto di lavoro o sbaglio? Sul vostro sito ci si può candidare per fare i boys.

Beh, in verità ne cambiamo uno-due ogni due anni, anche perché non è che si può fare i boys a 40 anni, quindi il ricambio generazionale è inevitabile. Però, sì: proponiamo anche posti di lavoro e considerato che siamo una delle compagnie italiane più grandi, non è poco.

Bisogna saper ballare?

Assolutamente no! Ci pensa la coreografa a insegnare quel che c’è da sapere. Consideri infatti le nostre origini ossia l’oratorio: all’inizio nessuno era un professionista e anche oggi, tolti noi tre personaggi principali (Enrico Dalceri è anche stilista in una grande casa di moda, ndr), gli altri fanno tutti un altro lavoro. Per diventare un boy, insomma, basta essere piacente e sportivo, poi ci pensiamo noi.

Che cosa pensa che succederà ai Legnanesi di qui a cento anni?

Questa domanda fu fatta al Felice all’inizio degli anni Settanta, quando già i cortili cominciavano a scomparire, durante una tournée di tre mesi al teatro Odeon di Milano, in cui si registrò sempre il tutto esaurito. Finì anche all’interno di un documentario Rai. Sa che cosa le dico? Che se da allora a oggi poco è cambiato, anche se i cortili sono definitivamente spariti, vuol dire che c’è da ben sperare. Oltretutto, poi, in periodi di crisi come questo, ci si attacca ancora di più alle radici. Certo, io mi auguro che la crisi finisca, ma finora il riciclo generazionale c’è stato, perché non dovrebbe succedere ancora?

E lei personalmente sta già cercando un erede per la sua Teresa?

Direi di no, dato che ho solo 52, per cui spero di poterla interpretare ancora per dieci-quindici anni! Poi, dopo, ci si comincerà a guardare intorno.

Ha figli, a proposito?

Due figlie, di 15 e 18 anni.

E che cosa pensano vedendola interpretare una donna?

Sono abituate, perché ormai mi vedono così da quando erano molto piccole: credo però che siano contente e onorate.

Vista l’età del Giovanni e la Teresa, scherzate molto sugli acciacchi della terza età?

Certo che sì: è da lì che andiamo a pescare il grosso delle situazioni, per esempio, chiamandoci diversamente giovani. Guai, anzi, a chi ci tocca i nostri anziani che sono il nostro vero patrimonio nazionale. Bisognerebbe proprio che i giovani ricominciassero ad ascoltarli, un’abitudine che, ahimè, abbiamo perso.

Ha ancora i genitori?

Purtroppo no, se ne sono andati presto: il buon Dio avrebbe potuto farmeli gustare ancora un po’, ma purtroppo così non è stato. In particolare ho perso il mio papà quando ero troppo giovane e non ho avuto il tempo di ringraziarlo come avrei voluto. Perché quando si è giovani, non si capiscono tutti i sacrifici che i padri fanno per noi. In genere si vedono solo quelli della mamma. Solo quando si diventa adulti, se non si è tonti, lo si capisce davvero.

Forse ha trovato il suo modo per ringraziarli portando in scena le nostre radici.

Vero: la riscoperta delle nostre radici è fondamentale e facendo parlare i nostri vecchi non ce lo dimenticheremo mai. Mi permetta però di aggiungere un ulteriore messaggio.

Dica pure.

Vorrei ringraziare pubblicamente Mitia, la mia compagna, una persona splendida. Con lei sono rinato: è entrata a far parte della compagnia e mi dà una preziosa mano anche con la scrittura dei testi. Ci tengo a dirlo perché troppo spesso ci si dimentica delle donne e interpretandone una sul palco, io che ho la fortuna di averne una al fianco, non voglio prendermi tutti i meriti.

Detto fatto. Anzi, trascritto. Un messaggio più romanticamente carico di speranza per il futuro non poteva esserci… Muoversi Insieme ringrazia e augura di cuore ai Legnanesi altri cento, mille e più anni di cortili dell’anima… così!