Il gatto nel pugno
Scritto da Stannah il 30-05-2008
Sbattè la portiera malamente e mentre metteva in moto nervosamente, gli parve quasi di sentirsi vibrare la terra sotto i piedi, per effetto del colpo secco che aveva inferto alla sua auto.
Damiano era arrabbiato, molto arrabbiato; si potrebbe anzi dire che era furibondo.
La riunione con il suo capo area era stata un vero disastro. “Stai lavorando male”, l’aveva rimproverato, “che ti sta succedendo? Lo sai che al terzo richiamo sarò costretto a prendere provvedimenti…“.
Che cosa voleva dire? Che l’avrebbe licenziato? Messo alla porta dopo quindici anni di onorato servizio? Certo, aveva ragione lui, Damiano lo sapeva. Ma possibile che per guadagnarsi la fiducia di qualcuno ci vogliono mesi, anni a volte, e per perderla bastano due o tre sbagli?
Che poi, sì, la prima volta l’aveva fatta grossa, ma insomma… Damiano aveva dimenticato di incontrare la cognata del suo capo. Sì! Proprio quella rompiballe della Renata, che in realtà, lo sapeva, alla fine non avrebbe comprato nulla perché il reale motivo per cui voleva incontrarlo era, ma sì, passare un po’ di tempo con lui…Quando Massimo, il suo capo, l’aveva avvisato che la cliente delle quindici e quaranta di mercoledì 6 maggio era proprio la Renata, Damiano era quasi sbiancato.
Avrebbe voluto dirgli: guarda, no, mandaci Luisella, ma proprio in quell’istante a Massimo era squillato il cellulare, e poi il telefono dell’ufficio, e nulla, il discorso-Renata era morto lì.
Poi, l’inconscio aveva fatto il resto: mercoledì 6 maggio, cioè una settimana dopo la richiesta di appuntamento della Renata per interposta persona, Damiano era da un altro cliente in tutt’altra zona della città.
Si trattava di una gentile e timida nonnina, ben disposta ad ascoltare le caratteristiche dell’elettrodomestico d’altissima tecnologia che Damiano stava cercando di venderle. Per conquistarne del tutto la fiducia, ma in fondo anche affascinato dal suo portamento signorile, Damiano se n’era rimasto ad ascoltare le storie sui nipoti e i ricordi di gioventù.
Una chiacchiera tira l’altra e via: l’appuntamento con la Renata era svanito del tutto dalla sua memoria.
Lì per lì, Massimo pareva non averci dato più di tanto peso, anche perché, in cuor suo, sapeva assai bene che tipo era sua cognata.
L’altro sbaglio, invece, era stato di tutt’altro genere. Damiano aveva dimenticato di registrare una vendita, preso com’era da altre urgenze. Il suo capo l’aveva presa un po’ meno sportivamente, stavolta, nel senso che Damiano aveva dovuto tirar fuori di tasca sua la somma non incassata. E non era proprio una cifra da poco.
Quando non hai che da rimproverare te stesso, però, conviene non fare tante storie.
Da quel giorno, però, Damiano aveva cominciato a chiedersi se, forse, non fosse il caso di fermarsi un attimo. Che avesse bisogno di una vacanza? In fondo, pensava, non faccio un viaggio da un pezzo, e del resto dove vado, e con chi?
Ma chi l’ha detto che la vita da single è una gran cosa per un uomo?
Con Teresa avevano rotto da un anno e mezzo. I motivi del loro fallimento di coppia? Mah, Damiano non sapeva spiegarseli bene. Di sicuro il fatto di essere un tipo di poche parole, almeno nel privato, non aveva giovato al loro rapporto.
In ogni caso, ripensarci ora, a distanza di così tanto tempo, era inutile.
Però il pensiero di essere arrivato al limite non l’aveva più abbandonato. Da quel giorno Damiano si ritrovò più volte fermo a contemplare le vetrine delle agenzie di viaggio sognando di acquistare il primo pacchetto-vacanze che l’ispirava di più.
E fu così che commise il terzo errore, quello che, forse, gli avrebbe fatto giocare il posto.
L’annuncio esposto in bella vista mostrava un paesaggio da paradiso terrestre.
Fiori giganteschi e multi-colore saturavano la foto come un fondale teatrale volutamente sovraccarico. Al centro dell’immagine, su un praticello verde smeraldo, un tavolino di vimini e quattro sedie accoglievano due coppie di giovani donne e uomini, nell’atto di avvicinare i loro calici contenenti un invitante coctail alla frutta. Nessuno calzava scarpe, solo una ragazza sfoggiava sottili infradito sotto un pareo a fiori, un perfetto pendant con l’ambiente intorno.
Damiano capì che doveva essere una classica isola tropicale, le Hawaii, forse, o un’altra, faceva lo stesso. Quasi sotto ipnosi, entrò nell’agenzia per chiedere maggiori informazioni su quell’eden terrestre.
Un’impiegata cordiale e chiacchierina fece il resto.
Damiano restò inchiodato al di là della scrivania dell’agenzia viaggi per almeno un’ora e mezza, dimenticandosi di avere un appuntamento, stavolta con un importante fornitore.
Non sentì nemmeno il cellulare che vibrava insistemente nella sua ventiquattr’ore, inerme sotto la sedia dell’agenzia, come il suo padrone arresosi al sogno tropicale prossimo venturo.
Con il viso ancora assorto e il biglietto aereo in una mano, Damiano fece scattare la sicura dal portachiavi, poi salì sull’auto e accese meccanicamente il motore. Dal sedile alla sua destra avvertì un leggero borbottìo. La tasca esterna della sua valigetta emetteva una leggera luce e pareva animarsi di vita propria. In un attimo si riscosse e realizzò che cos’era successo.
Non ebbe il tempo di replicare nulla: dall’altra parte del ricevitore un Massimo in versione “Mister Hyde” gliene stava dicendo di tutti i colori, ma di una sfumatura un po’ più acida di quelli che aveva ammirato poco tempo prima nella foto dell’isola dei sogni.
Dopo i rimproveri e il senso di mortificazione subìto senza proferire parola, adesso che stava tornando a casa si sentiva terribilmente in collera.
Aveva sbagliato, certo, per colpa sua rischiavano addirittura di perdere un’intera partita, verissimo, ma non trovava giusto essere sottoposto a un processo.
Massimo gli aveva prospettato l’eventualità che il suo caso arrivasse alle orecchie del super-super capo. E dire che non aveva neanche reagito, la stanchezza e la consapevolezza di essere nel torto gli avevano impedito di difendersi.
Che cosa doveva fare? Avrebbe dovuto implorare il suo capo di dargli un’altra possibilità? Avrebbe dovuto fare altrettanto con il super-super capo?
Un’angoscia così forte Damiano non l’aveva mai provata, neanche nel periodo dei primi litigi con Teresa.
Avrebbe dovuto lottare o no per recuperare la fiducia del suo datore di lavoro? E come?
Era talmente assorto nei suoi pensieri da non rendersi conto di essere quasi arrivato a casa.
Alzando gli occhi per non perdere la svolta a destra, notò uno strano assembramento.
Che ci faceva quella gente lì sotto quell’albero?
Damiano fu costretto a rallentare, dato che diverse persone erano ferme proprio sull’angolo tra le due strade. Facendosi largo a fatica, gettò lo sguardo verso il punto in cui erano rivolti i visi di quei passanti. Su un ramo, un gattino spelacchiato, bianco e grigio, urlava con tutto il fiato che ancora gli restava. Non riusciva a scendere, era chiaro, ma nessuno pareva intezionato ad arrampicarsi fin lassù.
In un attimo prese la sua decisione. Damiano accostò l’auto e si avvicinò al piccolo assembramento. Da ragazzo aveva fatto roccia e ancora adesso si manteneva abbastanza in forma con qualche corsetta mattutina.
Guardò il tronco: c’era più di qualche venatura e protuberanza nel legno che gli avrebbe permesso di salire senza troppo sforzo.
Pezzetto dopo pezzetto, Damiano arrivò fino al ramo su cui se ne stava abbarbicato il gattino. Era consapevole che se si fosse sporto troppo in avanti, poteva rischiare di spezzarlo, quindi di rompersi l’osso del collo.
Con molta cautela, perciò, si allungò fino dove si sentiva sicuro, la gente giù taceva, tramortita dalla tensione. Con un braccio si reggeva al tronco mentre con l’altro cominciò a raschiare sul ramo per cercare di attirare l’attenzione del piccolo felino. “Coraggio”, gli diceva, “vieni verso di me”. Ma quello niente: miagolava e basta, dandogli le spalle. Allora tentò di richiamarlo con i versi tipici con cui ci si rivolge agli animali. Il gattino però sembrava ancora più turbato, tanto da aumentare ulteriormente i decibel dei suoi lamenti.
Poi però, chissà, un frammento dell’innato spirito di sopravvivenza della sua razza doveva avergli fatto capire che se si fosse avvicinato a quella mano, avrebbe avuto molte più probabilità di uscire da quella brutta esperienza.
Una zampetta alla volta, miagolando sempre a più non posso, il micetto arrivò a pochi centimetri dalle dita di Damiano, che cominciava a sentire tutta la stanchezza per essere rimasto troppo a lungo in una posizione così scomoda.
“Su, dai”, esclamò qualcuno da sotto con un pizzico di esasperazione. “Ma no, non urlare che lo spaventi!”, lo redarguì una voce femminile, con quella confidenza un po’ sgraziata tipica delle mogli.
Il gattino, in effetti, si arrestò un attimo, incerto se accettare o meno il contatto sconosciuto.
Alla fine si lasciò andare e saltò sul palmo del bipede salvatore. Con ferma dolcezza, Damiano lo tenne stretto nel pugno e pian piano si riavvicinò al tronco. Poi cominciò a ridiscenderne utilizzando solo le cinque dita libere e la spalla e il braccio culminanti nel piccolo felino.
A pochi metri da terra, si sentì abbastanza sicuro per saltare. Hoplà! Eccolo a terra con il gattino tremante ancora nel pugno.
Al tonfo seguì un attimo di silenzio e poi un applauso scrosciante, subitaneo e fragoroso come un temporale estivo.
Damiano sorrise un po’ intimidito. Non era abituato a sentirsi al centro dell’attenzione, se non nel dialogo a tu per tu con i clienti. Per attenuare l’imbarazzo poggiò lo sguardo sul micetto e nei suoi occhi gli parve di scorgere lo stesso attonito disorientamento.
“Grazie, hai salvato il mio gattino”, una bambina con i capelli ricci neri neri si fece spazio tra gli astanti. Damiano non si era proprio accorto della sua presenza quando aveva deciso di trasformarsi in superman.
Con gli occhioni ancora pesti per le recenti lacrime la bambina lo scrutava dal basso in alto, con una certa ansietà: le avrebbe restituito il suo gatto? Sembrava chiedersi.
“Di niente…eccolo qui”. Carezzandogli la testolina, Damiano porse il gattino alla sua padroncina.
La bambina lo abbracciò illuminandosi di una gioia assoluta, come capita solo a quell’età.
Di nuovo partì un applauso.
Damiano strinse le mani di chi gli si parava incontro, neanche fosse il Presidente della Repubblica, e quasi senza emettere suono si accomiatò risalendo sull’auto.
Aveva deciso che cosa fare.
Il giorno dopo sarebbe passato dall’ufficio con una lettera e una valigia al seguito.
Mentre saliva sul trenino che l’avrebbe condotto all’aeroporto, sorrise pensando alla faccia che avrebbe fatto Massimo quando avrebbe letto le sue parole.
“Caro Massimo,
mi scuso se il mio rendimento è sceso, ma forse quello che mi è successo non è successo per caso.
Forse è arrivata l’ora di cambiare vita, di respirare di nuovo, magari inebriato dal profumo di fiori giganti mentre gusto un coctail di frutti tropicali.
Certo, è probabile che dopo qualche tempo a respirare aria salmastra e aromi floreali, mi verrà voglia di fare altro. Di la-vo-ra-re, che parola impegnativa… Non c’è problema: sono pronto a ricominciare, non mi spaventano gli inizi.
Non credo, Massimo, che avevi mai ricevuto una lettera di dimissioni così bizzarra.
Sicuramente mi darai del matto.
Probabilmente lo sono, ma ognuno si sceglie il suo ruolo nella vita, o glielo dà qualcun altro.
Io non avevo ancora capito di averne uno. Poi, un giorno, sbagliando una volta, e poi di nuovo e di nuovo, mi sono accorto di vivere una parte che non mi stava bene. Quella del venditore perfetto, dello yes-man che non crea mai grane ma che sotto sotto è considerato uno smidollato proprio perché non parla mai. Io non sono così. O almeno, vorrei provare a essere qualcos’altro. Qualcun’altro. Qualcuno. Uno.
Vuoi capire come ci sono arrivato?
Chiedilo a una bambina dai riccioli neri che aveva paura di perdere il suo gatto.
Addio, Massimo.
Anzi, aloha”.
Renzo Sirtori