Immagini della vecchiaia al cinema
Scritto da Luciana Quaia il 15-10-2012
Il 2012 è stato proclamato dall’Unione Europea l’Anno Europeo dell’invecchiamento attivo e della solidarietà tra le generazioni”.
Ottobre è il mese in cui si festeggia il ruolo svolto dal nonno all’interno della famiglia e della società in generale.
Quotidianamente il dibattito sulla crisi economica pone interrogativi cruciali sul costo della popolazione che invecchia.
Non si può certo dire che il tema della vecchiaia sia marginale nel contesto sociale attuale, nonostante si continui spesso a considerare la figura dell’anziano come vittima di emarginazione.
E’ indubbio che oggi la longevità rappresenta una rivoluzione di portata epocale, mai precedentemente conosciuta dalla storia umana. E questa rivoluzione, oltre a porre domande sul piano economico, interroga pure sulle soluzioni da prendere di fronte non a una vita più lunga, bensì a una vecchiaia più lunga, che non sempre corrisponde a qualità di vita soddisfacente.
Età cronologica – quella anagrafica – ed età biologica – quella del corpo – possono essere notevolmente influenzate dall’età psicologica, ovvero la percezione che la persona ha di sé stessa indipendentemente dal numero di anni vissuti. Ogni individuo ha un suo vissuto, una sua storia, che determina necessariamente il suo peculiare modo di vivere la terza età.
Ecco perché pur essendo la vecchiaia corrispondente all’ultimo periodo dell’esistenza, come qualsiasi altra transizione nel corso della vita va analizzata nella sua globalità e complessità, per non cadere nella trappola degli stereotipi, siano essi negativi (vecchiaia sinonimo di decadenza fisica e mentale, impotenza, sterilità, stanchezza e rassegnazione) oppure positivi (vecchiaia come portatrice di pregi e risorse, serenità, soddisfazione, saggezza legata alla maggiore esperienza).
Se consideriamo il cinema come uno specchio entro cui la società si riflette, vedremo che, a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso a quello che apre il nuovo millennio, questa scissione tra vecchiaia positiva tesa all’autorealizzazione e vecchiaia evocatrice di fragilità ed assistenza propone nelle pellicole sempre più numerose atteggiamenti e stati d’animo tipici della cultura moderna.
Scriveva Pier Paolo Pasolini: “Riproducendo la realtà, che cosa fa il cinema? Il cinema esprime la realtà con la realtà”. Ed ecco quindi il cinema affermarsi come documento di un’epoca, nello stesso modo in cui, nell’immediato dopoguerra, seppero fare con i loro capolavori Rossellini e De Sica.
Vediamo allora come mutano i volti della vecchiaia nei film che hanno per protagonisti persone della terza e quarta età.
Se consideriamo alcune opere antecedenti al 1990, il vecchio appare come peso od ostacolo che impedisce lo sviluppo sereno delle generazioni future.
“La leggenda di Narayama” del 1958 diretto dal giapponese Keisuke Kinoshita, ci presenta un povero villaggio giapponese dove la lotta per la sopravvivenza è quotidiana e se non c’è da mangiare per tutti, il fardello diventa insopportabile per chi non è più in grado di lavorare. Secondo l’antica usanza, per evitare di pesare sui giovani della famiglia, nella stagione in cui inizia a cadere la neve la settantenne Orin decide di farsi portare sulle spalle del figlio al monte Narayama e lì attendere la morte.
Nel 1973 il pessimismo di Richard Fleischer, in vista di una data ormai non tanto lontana, ci propone il film di fantascienza “2022: i sopravvissuti” dove il problema della sovrappopolazione, della siccità e della carestia alimentare ha fatto legalizzare al governo il suicidio assistito all’interno di luoghi confortevoli, mentre su un grande schermo vengono proiettate le immagini della scomparsa bellezza del passato. I corpi saranno poi trasformati in cibo necessario alla sopravvivenza delle generazioni future.
Sull’eliminazione dei vecchi poiché peso inutile per la società anche Ugo Tognazzi dirige nel 1979 il film “I viaggiatori della sera“. Acquisito il potere dai giovani, si sanziona per legge che al compimento del cinquantesimo anno, ignari della loro sorte, gli “anziani” abbandonano il lavoro per essere trasferiti in un ameno villaggio turistico. Qui fra giochi e intrattenimenti vari si procede in realtà alla loro eliminazione, mascherata dal premio di una crociera.
Decisamente un Tognazzi ben più amaro e grottesco del burlone Conte Mascetti che in “Amici miei – Atto III” di Nanny Loi (1985),
approdato in casa di riposo, non rinuncia alle consuete zingarate con i compagni di avventura conosciuti nei due precedenti omonimi film. Questo terzo atto centrato sulla vecchiaia, nonostante la goliardia dei personaggi, diventa ancora una volta espediente per mimetizzare la tristezza del ritiro e le infauste capitolazioni.
Per restare in tema di case di riposo e di abbandono, nel film del 1977 “I nuovi mostri” diretto da Dino Risi, Mario Monicelli, Ettore Scola, nell’episodio “Come una regina” troviamo un mellifluo Alberto Sordi che, su pressione della moglie e per poter fare le vacanze in santa pace, accompagna l’anziana madre, tranquilla ed autosufficiente, in un ospizio dove è noto che gli ospiti sono abbandonati dai familiari e maltrattati dal personale.
Oppure, e in questo caso si affronta il tema della sessualità dell’anziano, nel 1991, con il suo “La casa del sorriso“, Marco Ferreri narra con leggerezza e umorismo la passione amorosa fra due ospiti, una relazione destinata però a non realizzarsi positivamente a causa dell’ostruzionismo degli operatori e all’incapacità dei protagonisti di dare vero amore e non semplice desiderio.
Il cinema di fine millennio tuttavia colora di nuove prospettive l’anziano e i suoi rapporti sia all’interno della famiglia, sia della società. Rintracciamo spunti di storie che rispecchiano valori e sentimenti specifici di questa stagione della vita, tesa all’introspezione, a fare i conti con le propria esistenza, ma anche a sognare e ad intraprendere nuove svolte.
Per esempio, di Giuseppe Tornatore il film “Stanno tutti bene” del 1990 mette in scena il viaggio compiuto dal vedovo e pensionato Matteo Scuro lungo tutta Italia per andare a trovare i propri figli creduti brillantemente sistemati. Un itinerario che rivelerà delusioni, verità nascoste, speranze disattese che restituiranno all’anziano padre un bilancio esistenziale costituito da una personale e penosa sconfitta.
Diverso il viaggio intimo proposto da David Lynch, “Una storia vera” del 1999 e percorso con lentezza a bordo di un tagliaerba che in cinque settimane percorre più di cinquecento chilometri. Alvin, il protagonista di 73 anni, durante il tragitto ritrova se stesso e la serenità, per arrivare infine, dopo dieci anni di rancore covato in silenzio, a trovare il fratello malato e a riappacificarsi con lui e la vita.
Di Wim Wenders ricordiamo del 1998 “Buena Vista Social Club“, film documento considerato fra i suoi migliori:un gruppo di suonatori di cubani di età fra gli 80 e i 92 anni, dimenticati dal pubblico, riuniti in una nuova formazione da Ry Cooder, musicista e impresario, ritrovano il successo internazionale di leggende tornate viventi. Da allora i musicisti, vitali, eterni, girano i teatri del mondo e vendono milioni di dischi.
Il sesso, tabù da sempre nell’età anziana, trova la sua rivincita nel film di Nigel Cole del 2003 “Calendar Girls“, che narra l’eccitante iniziativa di un gruppo di signore sulla soglia della vecchiaia , le quali per raccogliere i fondi destinati alla ricerca sulla leucemia, di cui è mortalmente colpito il marito di una di esse. decidono di posare nude per un calendario.
Bisogna poi attendere il 2009 per poter vedere sui nostri schermi il film di Andreas Dresen “Settimo Cielo“, la storia di una passione erotica senile in cui le scene di nudo e di sesso ci presentano una pelle avvizzita e rugosa di corpi la cui età cronologica non incide sul sentimento senza tempo dell’amore.
E c’è infine la vecchiaia che cede il posto alla sofferenza causata dalla malattia e all’amore che si intreccia con la morte e con la grazia. Nell’intenso “Madre e figlio” del 1997, di Aleksandr Sokurov, nella luce dei paesaggi rarefatti simili a tele pittoriche si raccontano gli ultimi giorni di una madre morente accanto al proprio figlio. Esistono i gesti di conforto, d’attenzione, una visione di umanità trascendente, una bellezza scandita dal ritmo lento e dolente, dove la morte incombe su tutto, insieme alla certezza di un futuro incontro in un indefinito altrove.
Ulteriore esempio di estrema e toccante sensibilità è la Palma d’Oro per il miglior film del 2012 “Amour” di Michael Haneke, una storia d’amore fra gli ultraottantenni Anne e Georges, che viene consumata fino alla morte dalla vecchiaia e dalla malattia.
Nei servizievoli gesti dell’accudimento (lavare, cambiare, preparare pappe, raccontare favole),
il coraggioso amore si mette alla prova con lo strazio della sofferenza e dell’impossibilità di sopportarla.
Un modo per far riflettere sull’unico volto che a ognuno di noi resta sconosciuto, quello della propria fine e del suo senso.
Una sfida, quella di Haneke, per il cinema del nuovo millennio che non ha paura di mettere in gioco i sentimenti più veri.