Una serata particolare
Scritto da Stannah il 25-04-2008
Fabiana bussò alla porta un po’ timorosa. Chissà che cosa avrebbero fatto. Forse, pensava, ho sbagliato, non dovevo venire: quando mai mi sono confidata con qualcuno, figuriamoci poi con degli estranei.
Paradossalmente, però, proprio la certezza dell’anonimato la tranquillizzò. Fabiana viveva in un’altra città, una grande metropoli, anzi. Il workshop, così si chiamava, si teneva invece nella provincia padana, sperduta in fondo a una strada lattiginosa che Fabiana aveva percorso come sospesa su un tappeto di nuvole.
Si accorse di un breve bagliore: qualcuno aveva sollevato lo spioncino ed era rimasto a scrutarla per qualche secondo.
“Buonasera, sono qui per il work…”. Fabiana pronunciò la frase ad alta voce, non si sa se per rassicurare se stessa o la persona ancora celata dietro alla porta. La serratura scattò prima ancora che riuscisse a terminare la frase.
“Benvenuta! Siamo già tutti in cerchio, l’aspettavamo!”. Un uomo sui sessant’anni, o giù di lì, l’accolse con tono squillante e cordiale, spingendola lievemente per il braccio, con una naturalezza per lei sorprendente.
Nello stanzone rettangolare disadorno e illuminato a giorno da tubi di neon che correvano lungo i quattro lati del soffitto, risaltava un cerchio un po’ irregolare di sedie rosse tipiche dei circoli per anziani.
“Buonasera!”, esclamarono in coro i convenuti. “Segga qui!”, una signora minuta con un paio di pesanti occhiali in bilico sul naso le fece segno di accomodarsele accanto.
Fabiana sentiva friggersi le orecchie e temeva di essere diventata tutta rossa.
A giro partirono le presentazioni.
“Sono Sergio, ho 70 anni, e sono felice di essere qui a raccontarvi la mia esperienza”.
“Io sono Giovanna, 60 e… rotti… mi si conceda di non aggiungere altro! Anch’io sono assai contenta di condividere con voi quel che mi è successo”.
Seguirono Filippo, Franco, Adelina, Gianni, Maria… incredibilmente Fabiana riuscì subito a memorizzare tutti i nomi.
“Io sono Fabiana, ho 45 anni… sì, sono un po’ più giovane, ma il tema della serata era…era…”. Sentì la sua voce incrinarsi. Diavolo, pensò, non starò mica per mettermi a piangere?
L’ometto che l’aveva accolta all’ingresso venne in suo soccorso: “Non ti preoccupare, Fabiana, lasciati andare, non c’è niente di più poetico delle lacrime di gioia!”.
Un gocciolone le scivolò sulla guancia.
“Lasciamo pure che Fabiana si sfoghi… Gerardo, tu che cosa volevi raccontarci?”. Il suo salvatore diede la parola all’uomo sedutole a destra.
“Ho ripreso a camminare in montagna, ecco, ed è una meraviglia sentirsi le forze che ritornano!, esclamò quasi tutto d’un fiato questo signore un po’ grosso, gli occhi tondi da persona buona.
“Io invece sto prendendo lezioni di pianoforte… avevo sempre desiderato farlo da ragazza, ma non ne avevo mai avuto il tempo… o forse chissà era solo una scusa…”, considerò Matilde, con vocina flebile ma convinta.
Mentre rovistava nella borsa alla ricerca di un fazzoletto, Fabiana ascoltò la storia di Marisa, finalmente capace di uscire da sola, superata la paura irrazionale di sentirsi male; poi fu la volta di Giorgio che si diceva orgoglioso di aver smesso di fumare, e stavolta sul serio, diamine, mica come l’altra volta che aveva solo finto di esserci riuscito.
Quindi toccò a Saveria, la signora occhialuta accanto a lei. “Cinque anni fa ho perso mio figlio e, credetemi, desideravo solo seguirlo… non m’importava più nulla. Poi, l’anno scorso, è successo, sì… un miracolo. Come tutte le mattine, sono entrata nella stanza del mio Marco per spolverarla… non avevo toccato nulla da quando mi aveva lasciato. Insomma, non so come, il lucernario s’era aperto, forse la notte c’era stato un po’ di vento, e… lì, sul suo letto zampettava un uccellino, piombato lì chissà come”. Fabiana osservava la sua vicina, gli occhi che le si illuminavano dietro ai pesanti vetri, mentre raccontava come l’avesse curato e nutrito. Saveria aveva fatto anche un’altra azione e fu proprio quella che la spinse a parlare dopo di lei. Saveria l’aveva lasciato libero di raggiungere il cielo, di volare con gli altri, di seguire il proprio destino, un po’ come, in un altro senso, era successo a suo figlio. Il giorno dopo il commiato al piccolo volatile, Saveria decise di ristrutturare casa e di trasformare la stanza del suo Marco in una lussureggiante serra.
“Tocca a me, sì…in realtà non ho una storia da raccontare. La verità è che non mi è mai capitato nulla, non ho mai bevuto né fumato, non ho mai acquistato ossessivamente scarpe, mai avuto un lutto grave, né sono mai stata preoccupata per i chili di troppo…”.
Fabiana sollevò gli occhi dalla borsa e si accorse che la stavano fissando tutti. “In definitiva perché sono qui?”, aggiunse facendosi coraggio come se avesse intuito la domanda che si celava dietro quegli sguardi attenti.
Quasi senza accorgersene sentì la sua voce affermare con decisione: “Forse perché ho capito che è giunta l’ora di lasciarmi andare alle emozioni…di vivere, insomma”.
Seguì un silenzio, svuotato come lei in quell’istante. Durò pochissimo, ma a Fabiana sembrò infinito. Con la coda dell’occhio vide Saveria togliersi gli occhiali e riporli nella custodia nascosta nella tasca del giaccone di tweed appeso alla sedia. Prima che potesse dire altro, sentì il calore delle sue braccia intorno al collo. Per un altro lunghissimo istante Fabiana rimase con le braccia penzoloni, poi le sollevò cingendo la schiena della donna fino a un’ora prima sconosciuta.
Fabiana non dimenticò mai più l’applauso che ne seguì.
Soprattutto, mantenne fede alla promessa implicita nelle parole pronunciate quella sera.
Capì profondamente che ogni giorno è speciale, che niente è insipido se sappiamo condirlo con sapienza e abbandono e che la peggiore schiavitù è la rinuncia alla vita, per paura, pigrizia o peggio, per consapevole aridità.
Martina Serventi