Venticinque aprile, piccole storie a bordo di un tram
Scritto da Alessandra Cicalini il 21-04-2008
Quel 24 aprile di sessantatre anni fa Giorgio era un ragazzino. Ai tempi, Milano era già percorsa dai tram, gli stessi che oggi gli stranieri ci ammirano per il design elegante e solido, di quando il legno era ancora legno e anche la più piccola suppellettile era concepita con la stessa cura di un’opera d’arte.
Quel giorno, Giorgio e il suo amico Sergio erano a scuola e si trovavano nell’aula di disegno, assorti dalla lezione o più probabilmente distratti da altri pensieri, tipici di un’adolescenza più povera sì, ma nell’intimo non molto diversa da quella di oggi.
A dare l’allarme ci pensò Fratel Narciso, l’insegnante di matematica che di punto in bianco entrò nell’aula e si mise a parlare fitto fitto con il professore di disegno, Fratel Giulio.
Toccò a quest’ultimo comunicare agli studenti, con voce forzatamente calma, che era opportuno tornare subito a casa, perché in città stava succedendo qualcosa di grave.
Giorgio e Sergio recuperarono la cartella e cercarono di farsi largo nella calca per tentare di agguantare al volo il tram numero venti su via Villa della Regina, che oggi non esiste più, nei pressi di via Po.
Salirono con il fiatone che scuoteva su e giù i loro giovani polmoni. Le strade erano quasi deserte, un silenzio irreale era sceso su piazza Castello, i pochi passanti camminavano a passo svelto agognando la propria casa o il primo riparo disponibile. In lontananza Giorgio sentì i colpi di una mitragliatrice.
Arrivati all’altezza di via Cernaia, il respiro dei due ragazzi e degli sparuti passeggeri del tram si bloccò per un istante: un grosso carro armato stava avanzando verso di loro lentamente, come un enorme pachiderma. Sergio si sporse dal finestrino per guardarlo meglio, incurante del pericolo. La penna stilografica, regalo di suo padre, gli cadde dal taschino della giacca. In quel momento il tram era fermo, bloccato dal mezzo militare. Perciò Sergio non ci pensò due volte: salto giù per cercare di recuperarla, prima che il cingolato gliela schiacciasse polverizzandola.
Giorgio lo guardava con due occhi così e insieme a lui anche gli altri passeggeri. Diavolo di un ragazzino, pensavano di sicuro, ma come ti salta in testa di rischiare la vita per una penna? Un gesto del genere, oggi, sarebbe ancor più incomprensibile, sommersi come siamo da articoli di cancelleria di ogni foggia e prezzo; ma allora possedere una stilografica era un privilegio raro. Sergio corse così verso la sua penna, a testa bassa. Era talmente concentrato sul suo obiettivo da non accorgersi di un secondo carro armato che implacabile passò sulla penna sotto il suo sguardo impotente. Il tram, nel frattempo, si era rimesso in moto. Giorgio prese a chiamarlo a squarciagola: “Salta su, forza, salta su!”.
Sergio si riscosse e si mise a correre, riuscendo ad agganciare un finestrino posteriore dopo essere balzato su un respingente. Non si sa come, riuscì a schivare i colpi della sparatoria che si protrasse fino a Porta Susa. Quando scesero dal tram, in piazza Bernini, era tornato il silenzio. Giorgio salutò Sergio e tornò a casa: solo dall’abbraccio dei genitori capì con quanta ansia lo stessero aspettando. Quella sera un gruppo di partigiani passarono sotto le sue finestre agitando in aria i fucili. Giorgio e i suoi uscirono per strada: tutti si abbracciavano gioiosi. La guerra era finita, finalmente.
La storia di Giorgio Bianchi è stata raccolta dieci anni fa: non sappiamo se l’autore sia ancora in vita. Con il tempo, i testimoni diretti della fine del nazifascismo sono destinati a scomparire, anche se la loro memoria viene conservata dall’Associazione nazionale partigiani d’Italia, che ogni anno organizza manifestazioni e convegni http://www.anpi.it/250408/index.htm per ricordare quel periodo.
La storia di Giorgio è solo un piccolo aneddoto, certo, di quelli che di solito non vengono raccontati sui libri di storia. Eppure, anche la cronaca minima può aiutare a comprendere almeno l’atmosfera di un periodo, come capita anche con la letteratura (si pensi al primo romanzo di Italo Calvino, “Il sentiero dei nidi di ragno”, che parla di Pin, un ragazzino che finisce in un gruppo di partigiani per motivi che nulla hanno a che fare con la politica).
Sul significato del Venticinque aprile, come di molte altre feste nazionali, in Italia non c’è del tutto concordia. Lo sostiene lo storico e scrittore Emilio Gentile sull’ultimo numero di “Domenica” del Sole 24 Ore, uscito ieri con il quotidiano economico. Sarebbe bello, dice lo studioso, parlare di quei momenti in ogni caso fondamentali per la storia del nostro Paese, con uno spirito scevro da condizionamenti ideologici: per crescere, sostiene, un popolo ha bisogno di capire senza pregiudizi, dannosi a tutte le età.
Giorgio e Sergio, probabilmente, sarebbero d’accordo.