Abitare per Essere
Scritto da Giovanni Del Zanna il 26-01-2012
“Grazie alla casa il soggetto esce dal flusso caotico della vita, prende le distanze dalle urgenze e dai pericoli e si concede un tempo e uno spazio per sé“.
A partire dalle parole di Silvano Petrosino – docente di Filosofia dell’Università Cattolica – torniamo sul tema della casa, per soffermarci sul significato antropologico che l’elemento per antonomasia del costruito ha per l’uomo. Sul Magazine di Muoversi Insieme già altri esperti hanno affrontato questo tema (interessante, ad esempio, il recente articolo di Luciana Quaia sulla “Psicologia della Casa“) che,per la sua importanza, è bene che venga ripreso più volte, anche da punti di vista differenti.
Tutti abbiamo una casa, ci sembra normale, scontato. Nella realtà, però non è proprio così, altrimenti non parleremmo di homeless (senza casa). Per la maggior parte di noi, però, abitare in una casa è un fatto così normale che raramente ci fermiamo a considerare – anche dal punto di vista dei significati profondi – la nostra casa nella sua dimensione vitale, il significato che assume per il nostro “essere”.
Eppure il ruolo di chi pensa (progetta) questo spazio assume indubbiamente un ruolo fondamentale nel determinare lo spazio, la struttura, che serve da sostanza per la costruzione della casa, come luogo individuale per ciascuno di noi. La casa non è un oggetto, un insieme di strutture, materiali e impianti. Non bastano soluzioni tecniche e funzionali a spiegare il senso della casa, il significato del luogo in cui abitiamo. Essa è importante: un bene essenziale e costoso, per molti una meta lontana da raggiungere con mutui e sforzi significativi. Un bene primario: luogo in cui ristorarsi, riposarsi, ripararsi, ritemprarsi, ricaricarsi…
In quanto luogo dell’identità personale la casa è anche luogo delle relazioni. Relazioni tra persone: relazioni affettive tra uomo e donna, relazioni verso i figli e, in modo reciproco, verso i genitori. Relazioni positive o, a volte, negative. In ogni caso situazioni che segnano nel profondo il nostro essere.
La casa è anzitutto luogo antropologico, luogo abitato dall’uomo che rimanda immediatamente, al tema dell’abitare, che non è solo uno stare, ma anzitutto un esserci, come ci ricorda Heidegger, che dicendo “io sono” intende automaticamente “io abito“. La casa è il luogo umano per eccellenza; citando Petrosino: “l’uomo esiste come uomo in quanto abita un luogo” – Petrosino S. (2008) Capovolgimenti, la casa non è una tana, l’economia non è il business, JacaBook, Milano .
Il senso dell’abitare è legato allo stare in un luogo. L’etimologia propria del termine abitare si riferisce, infatti nel “aver consuetudine in un luogo”, non è quindi solo uno stare, un essere chiusi all’interno delle mura domestiche, ma un aver consuetudine con i luoghi, uno stare nel tempo.
L’abitare – dicono i filosofi – rappresenta l’azione propria dell’uomo che riflette e che non subisce semplicemente la vita; l’uomo abita la casa proprio perché non si limita a subire l’esistenza e le fatiche del vivere. In questo “abitare” assume il senso del prendersi cura, cura di sé, ma anche cura degli altri.
La casa che con le sue mura offre riparo all’uomo per le necessità basilari del suo esistere (nutrirsi, riposarsi, riprodursi),
attività in cui tutti noi diventiamo fragili, vulnerabili. In questo senso la casa diventa luogo della nudità: in essa ci “mettiamo a nudo” spogliandoci del nostro “vestito sociale”, e ci sentiamo a “casa” là dove non abbiamo più bisogno di difenderci da nessuno e dove non abbiamo più bisogno di dimostrare nulla, per essere autenticamente quelli che siamo.
Per questo quando progettiamo soluzioni di co-housing (o di co-abitazione) tra persone con storie ed esperienze differenti dobbiamo considerare non solo gli aspetti funzionali e organizzativi della condivisione degli spazi, ma la dimensione personale: i significati profondi dell’abitare che ciascuno si porta dietro, l’esigenza di uno spazio individuale, il rispetto della dimensione dell’intimità di ciascuno.
Ma se non c’è casa senza chiusure (i muri, il tetto), non c’è casa neppure senza aperture (le porte, le finestre) e in questo rapporto tra interno ed esterno, tra apertura e chiusura la casa diventa luogo dell’accoglienza, dell’ospitalità dell’altro. La casa non come spazio statico, ma come luogo di relazioni, di equilibri tra interno ed esterno, ma anche tra bisogni e desideri, tra intelligenza e ragione, per essere, in ultima istanza, luogo in cui il soggetto si prende cura della vita.
Prendersi cura della casa diventa allora un prendersi cura di sé. E anche le dimensioni “materiali” (tecniche, funzionali, di abbellimento, ecc.) della casa diventano strumenti utili per modificare, in meglio, il nostro spazio vitale in cui abitare.
Compito difficile, quindi, quello dell’architetto che non definisce lo spazio della casa, ma deve riuscire a porre le premesse per cui uno spazio possa diventare un luogo, da abitare nel tempo, in modo continuato,che in seguito diventerà “casa”.
Schizzo di apertura: “Io, la casa, il mondo” – di Giovanni Del Zanna
Disegni: Case del nord, di Anna de Lago Del Zanna.