Anziani non autosufficienti, cure sempre più "long term"

Scritto da Alessandra Cicalini il 01-09-2010

Nei prossimi anni in Italia si sentirà sempre più spesso parlare di “long term care”: con questa espressione anglosassone s’intende l’insieme dei servizi di cura e assistenza agli ultra 85, destinati a crescere enormemente di qui al 2050. A dirlo, è il Rapporto sulla non-autosufficienza presentato dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali a fine luglio scorso. Il documento si avvale del supporto di altre importanti analisi sulle condizioni di vita e di salute degli anziani in Italia prodotti negli ultimi anni e allega nell’ultima parte alcuni esempi di virtuose gestioni locali del segmento di quelli non autosufficienti. Tanto sono interessanti queste ultime esperienze quanto, purtroppo, non sono rappresentative della situazione generale del Paese, in cui persistono sacche di territorio (in prevalenza nel Sud Italia) ben lontane dall’offrire servizi adeguati ai bisogni dei cosiddetti grandi anziani.
In generale, il Rapporto ricorda la distanza dell’Italia dal resto d’Europa nell’erogazione dell’assistenza domiciliare, utilizzata dal 5% della popolazione anziana contro il 9,6% della Germania, il 7,9% della Francia e il 7,1% del Regno Unito.
In questo settore ci sarebbe perciò molto da fare, considerato che in buona parte si basa sul ricorso alle assistenti familiari note come badanti, stimate nel nostro Paese in circa 770 mila, di cui solo una su tre è dotata di un contratto di lavoro regolare. Eppure, prosegue il documento ministeriale, basterebbe, tra le altre priorità, introdurre agevolazioni fiscali più adeguate per spingere le famiglie a inquadrare secondo la legge queste importanti figure e, sul fronte opposto, potenziare i servizi residenziali per alleggerire il peso della cura domestica. Nei prossimi anni, infatti, i cosiddetti caregiver familiari, ossia i parenti degli anziani non autosufficienti che oggi si occupano di loro (mogli e figlie, in prevalenza) sarebbero destinati a diminuire per “la fragilità dell’attuale struttura familiare”, scrive il Rapporto.
Essenziale sarà, pertanto, rendere più fluido il passaggio dalla cura all’interno delle mura di casa a quella nelle strutture per anziani. All’interno delle case di riposo e delle altre forme di residenza per la terza età dovrebbero essere create sotto-aree destinate ai non autosufficienti, per esempio gli affetti da demenza, evitando al contempo di creare pericolose ghettizzazioni. Quest’ultima osservazione nasce dalla consapevolezza dell’aumento prossimo venturo dei casi di demenza senile, stimato in un 43% in più entro il 2020 e addirittura nel 100% in più entro il 2040.
Come far fronte al fenomeno? Secondo il rapporto ministeriale, puntando sul contenimento del declino cognitivo e della disabilità del malato e favorendo l’assistenza a domicilio attraverso opportuni aiuti alle famiglie di provenienza.
In questo ambito, le nuove tecnologie possono dare una notevole mano, come già dimostrerebbero le prime sperimentazioni di telesoccorso e telecontrollo degli ultimi anni. Il Ministero auspica quindi una maggiore diffusione della domotica “sempre più applicata a domicilio”, per la capacità della medesima di “consentire alle persone anziane e ai disabili di disporre di maggiori spazi di autonomia e di rallentare l’inserimento in percorsi assistenziali impropri”.
Analogamente, starebbe diventando sempre più indispensabile il centro diurno (si veda in proposito la nostra intervista a Luigi Bergamaschini) quale “servizio a carattere socio-sanitario qualificato professionalmente – afferma il documento – che consente di ritardare il ricovero nelle strutture residenziali” e alleggerisce l’accudimento continuo in famiglia. Purtroppo, però, il numero di ore trascorso dagli anziani in luoghi del genere è ancora piuttosto basso mentre, dall’altro lato, non decolla a sufficienza l’assistenza residenziale, con punte in negativo nel Sud Italia, “al di sotto degli standard europei – precisa ancora il rapporto governativo – anche di 7-8 volte”.
Di qui la conclusione dell’analisi con una serie di “questioni aperte”, l’ultima delle quali riservata alla necessità di aumentare le possibilità di garantirsi una vecchiaia serena rendendo più agevole l’accesso ai fondi integrativi. Su questo aspetto si sofferma Cristiano Gori (citato dal documento ministeriale per la sua indagine condotta con l’Inrca sulla non autosufficienza) in un articolo del Sole 24 Ore. Secondo lo studioso, gli italiani già in possesso di una previdenza privata sarebbero 320 mila e sarebbero destinati ad aumentare. Secondo il sociologo, però, la previdenza privata non potrà, per varie ragioni, mai soppiantare quella pubblica, bensì diventare sempre più complementare. Ciò significa, d’altra parte, che lo Stato dovrà investire più denaro a favore degli anziani non più autonomi: anzi, si tratterebbe, secondo Gori, della principale sfida del Welfare italiano per i prossimi anni.
In concreto, precisa lo studioso, la spesa pubblica per la non-autosufficienza dovrà passare entro il 2020 dall’1,18 % del Prodotto interno lordo ad almeno l’1,5-1,7. In fondo, aggiunge, non si tratta di un grosso incremento, tenendo conto che “la spesa complessiva destinata alla protezione sociale (principalmente sanità e previdenza)” equivarrebbe al 26% del Pil.
Il Rapporto ministeriale, infine, non dimentica di ricordare che il miglior antidoto (a costo quasi zero) contro la perdita dell’autonomia in tarda età è l’adozione di corretti stili di vita. Di qui l’impegno a potenziare sempre di più le campagne per la promozione della vita attiva “long term”.

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