Luigi Bermagaschini e il sostegno ai caregiver

Scritto da Stannah il 02-10-2013

Intervista di Alessandra Cicalini

Luigi Bergamaschini ha una voce rassicurante, una caratteristica che gli sarà senz’altro utile con i familiari degli anziani colpiti da decadimento cognitivo. Da circa un anno, infatti, il medico, che insegna Geriatriaalla facoltà di Medicina e Chirurgiadell’Università degli Studi di Milano ed è direttore della Scuola di specializzazione nella stessa materia, partecipa a una sperimentazione per il sostegno psicologico dei caregiver dei pazienti che abbiano avuto una diagnosi di questo tipo: “Si tratta per lo più di anziani non ancora affetti da demenza  – precisa il docente universitario – ma ormai impossibilitati a vivere da soli”. Davanti al decadimento cognitivo, i caregiver, solitamente il coniuge o i figli,  si trovano nella condizione di dover reimpostare totalmente la propria vita familiare e spesso anche lavorativa; non è un cambiamento facile e non tutti sono in grado di accettarlo.  “Nel caso dei figli, è assai frequente il rifiuto inconscio ad accettare l’idea della malattia invalidante per i propri genitori”, aggiunge ancora Bergamaschini, come se ci aspettassimo, in altri termini, che la vita di chi ci ha messo al mondo “non possa dipendere in tutto e per tutto da noi”. Per il professore, la generazione dei 40-50 enni di oggi non è sempre pronta per un cambiamento di questo genere e per alcuni di loro è indispensabile il sostegno psicologico. Bergamaschini spiega come si arriva a erogarlo nell’intervista che segue, soffermandosi anche sulla “vecchiaia di successo” e sulle prospettive per il futuro.

Perché può essere difficile la convivenza con un anziano in decadimento cognitivo?
Perché non sempre il paziente riesce a esprimere il suo malessere o la causa dello stesso: per esempio, potrebbe dargli fastidio la radio o la tv accesa, oppure potrebbe avere semplicemente sete ma non riesce a farsi capire. Tutto ciò spesso scatena reazioni improvvise di profonda tristezza fino al pianto o addirittura di aggressività.  Da qui il disorientamento dei familiari che non riescono a capire e soprattutto a gestire tali cambiamenti di umore.

Come si riconosce un anziano in decadimento cognitivo?
Per esempio quando non sembra trovare più piacere in semplici atti della vita di tutti i giorni come leggere un libro perché non riesce più a ricordare dov’era arrivato, oppure perché non riesce più a svolgere attività manuali come cambiare una lampadina, oppure perché perde interesse per la cucina, non vuole più frequentare amici e parenti adducendo le scuse più disparate. Questi e altri possono essere campanelli d’allarme che devono spingere a condurre l’anziano dallo specialista.

Come aiutare l’anziano a non buttarsi giù?
Il caregiver deve sforzarsi di  ridefinire i nuovi limiti del paziente in modo da individuare per esempio quali attività tra quelle predilette un tempo sia ancora capace di svolgere, e quindi potergli  restituire uno scopo per la giornata. In altre parole, si deve favorire la ricostruzione di una vita su parametri nuovi che devono essere adatti al pazienti: non si tratta solo di rimuovere le barriere architettoniche, ma è tutto l’ambiente che deve essere modificato.

In concreto che cosa significa?
In primo luogo, dare sostegno ai suoi familiari sui quali ricade quasi totalmente l’onere della cura: già dalla prima visita, che spesso giunge dopo mesi dalla comparsa dei primi disturbi comportamentali, grazie alla consulenza di personale specializzato, si riesce a capire se il caregiver è in “burn out”, ossia in  forte crisi. Un caregiver in crisi non è di aiuto per paziente.

Come reagiscono i caregiver davanti alla prospettiva dell’assistenza psicologica?
In genere è bene accetta, dopo un’iniziale perplessità e talvolta diffidenza.

Chi vi chiede più spesso aiuto? Anche i partner degli anziani assistiti?
Non molto di frequente, perché sono loro stessi in condizioni di fragilità: tenga conto che i nostri pazienti hanno un’età media di ottant’anni. Più spesso si tratta dei figli sui cinquant’anni e oltre, raramente i nipoti e qualche volta le badanti stesse.

Com’è il vostro rapporto con queste ultime?
Nella stragrande maggioranza dei casi è estremamente positivo: anzi, spesso sono più brave dei familiari.

Forse perché possono gestire gli anziani con più distacco emotivo?
Non solo, ma anche perché vivendo costantemente vicino al paziente imparano a conoscerne limiti e possibilità, sono inoltre costrette a trovare una soluzione ai problemi che quotidianamente si presentano. La badante riesce per lo più a trasmettere un profondo senso di sicurezza al paziente che si trova nella condizione di dipendere da un altro anche per le attività più semplici, mentre per il paziente la badante costituisce un punto di riferimento importante e stabilizzante.

Questo tipo di progetto risponde anche alla necessità del servizio sanitario di evitare il più possibile l’ospedalizzazione degli anziani?
Indirettamente sì, anche se a noi interessa soprattutto evitare situazioni drammatiche nelle famiglie legate al burn-out del caregiver. D’altro canto, però, la stabilizzazione delle dinamiche familiari riduce probabilmente il ricorso alla ospedalizzazione e all’eccessiva medicalizzazione del problema.

Secondo lei, l’aumento nel numero degli anziani sta spingendo il sistema sanitario a riorganizzarsi per offrire risposte più adeguate? 
Sì, almeno da cinque-sei anni a questa parte anche se per il momento non in modo omogeneo nemmeno nella stessa regione.

Che cosa non dovrebbe mai mancare in un sistema virtuoso?
Fondamentali sono i Centri diurni, che non vanno confusi con i centri ricreativi per anziani: nei centri diurni operano psicologi, infermieri, fisioterapisti, terapisti occupazionali, assistenti sociali e altre figure ancora. Si tratta di operatori ben addestrati  per il lavoro che dovranno svolgere, che sono abituati a lavorare in equipe e in grado di intercettare sul nascere le le situazioni più a rischio.
Molto positiva è anche l’esperienza maturata negli ultimi anni con i Custodi Sociali: in origine si trattava di un ampliamento della loro abituale attività di portierato, ora è sempre più spesso svolta da personale dedicato. Si tratta di una sorta di controllore ausiliario (un po’ come quelli della sosta) per gli anziani soli al fine di un più coordinato ed efficace intervento del personale dei servizi socio-sanitari.

Quale ruolo spetta invece ai medici di famiglia? Secondo lei, perché spesso si dice che non sanno ascoltare i loro assistiti?
Guardi, spezzo una lancia a loro favore: spesso sono bombardati da richieste di tutti i generi per cui è davvero impossibile soddisfare il legittimo bisogno di ascolto degli anziani. Quel che conta è che ci segnalino le situazioni a rischio il prima possibile, ossia non quando il ricorso alla ospedalizzazione è la sola strada percorribile. Perché ciò accada, è indispensabile che si crei uno stretto rapporto di collaborazione tra loro e gli specialisti, cosa che, le assicuro, è possibile.

A parte i casi più gravi, sono comunque molti gli anziani sottoposti a politerapia: è sempre indispensabile prendere molte medicine?
In effetti, in molti prendono 4-5 farmaci diversi, con rischi a volte anche non trascurabili per la salute per le interazioni non note tra i differenti farmaci. Uno studio recente ha dimostrato che spesso il medico fa ricorso a un nuovo farmaco per rimediare agli effetti negativi di un farmaco già in terapia; si rischia di creare una catena senza fine pericolosissima. È invece necessario valutare attentamente se tutti i farmaci assunti dall’anziano servono davvero: quando possibile, io ne tolgo qualcuno.

Quando?
Per esempio, ci sono anziani che assumono farmaci per l’ipertensione a dosaggi bassissimi e spesso in modo non continuato; sopra gli 80 anni un valore di pressione attorno a 140/80 mmHg è più che accettabile. Inoltre, abbassando troppo la pressione, si rischiano crisi di ipotensione ai cambiamenti posturali (passaggio letto-poltrona, poltrona-stazione eretta) con il conseguente  aumento del rischio di caduta. Anche per i sonniferi è spesso possibile giungere alla loro sospensione: ci sono anziani che li assumono da molti anni senza aver mai provato a sospenderli. “E se poi non dormo?”, è la domanda piena di ansia che mi sento solitamente rivolgere. Per persuadere qualche mio paziente a eliminarli ho spesso fatto ricorso  questa frase: “Mezza compressa del suo sonnifero è uguale a mezza golia… provi a fare il cambio”… qualcuno riesco a convincerlo!

Come mai non si tengono conto dei rischi della politerapia?
E’ un problema che si è delineato nella sua complessità da pochi anni e non ci sono certezze in merito. I trials per la registrazione dei farmaci sono rivolti a valutare l’efficacia e la non tossicità della singola molecola, ma non a valutare gli effetti negativi della stessa molecola assunta assieme a tante altre. Bisogna però sottolineare che un trial con queste caratteristiche è improponibile e impossibile. Più semplice è riflettere sulla reale necessità di somministrare un nuovo farmaco e dei possibili effetti collaterali.

Che cosa pensa dell’impiego delle cellule staminali nella ricerca medica?
Hanno aperto la strada, ancora molto lunga, per nuove possibilità di cura. Non bisogna però creare false speranze: per ora è ipotizzabile un loro futuro impiego in specifiche malattie ben caratterizzate e mono-fattoriali: molto utili si sono dimostrate nei casi nei quali è necessaria la ricostruzione/rigenerazione dei tessuti: per esempio, nel caso di patologie degenerative articolari, una situazione molto frequente tra gli anziani.

E delle possibilità offerte dalla genetica?
Senz’altro la ricostruzione della mappa del genoma permetterà di individuare più facilmente i soggetti predisposti alla longevità, ma non bisogna dimenticare che il condizionamento dell’ambiente ha un ruolo più rilevante dell’assetto genetico.

Cioè gli stili vita: contano molto quelli virtuosi per vivere a lungo?
Senz’altro, anche se a ottant’anni si è quel che si è stati a venti…

Ma non si può fare proprio niente per modificare il proprio destino: per esempio verso i 50 anni si è ancora in tempo?
Diciamo che, per esempio, se si smette di fumare tra i 50 e i 60 anni, c’è ancora spazio per star meglio, perché si rallenta lo sviluppo delle patologie respiratorie. Però la vera soluzione è una sola: andare a piedi cominciando il più presto possibile.

E se invece non si è riusciti a evitare qualche incidente di percorso, quanto conterà seguire la giusta riabilitazione?
È fondamentale: per esempio, dopo un intervento per una protesi d’anca o dopo un infarto, è indispensabile cominciare il più in fretta possibile la riabilitazione per favorire il recupero funzionale. Ma per fare questo, non ci si può improvvisare riabilitatori, serve invece una preparazione ad hoc e ormai la medicina ne è consapevole.

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