Fare "resilienza" per fronteggiare le crisi
Scritto da Paolo Ferrario il 12-10-2009
Nel film La Strada per il paradiso una coppia di coniugi immersi in un dolore silenzioso per la morte accidentale del piccolo figlio accoglie un ragazzo per una vacanza estiva nella loro città di campagna: la trama delle relazioni interpersonali che si sviluppano li porta a riprendere il loro contatto interrotto.
In Caos calmo un dolente Nanni Moretti interpreta un marito al quale è morta per annegamento la moglie, mentre lui stava salvando un’altra donna: per anestetizzare il suo dolore si accampa davanti alla scuola della figlia, fino a far diventare quel luogo uno spazio di elaborazione della propria rinascita psicologica.
Infine, in Amici miei Atto III i vecchi amici delle “zingarate” sono ormai ricoverati in una esclusiva casa di riposo: il corpo non è più quello di una volta, ma il valore dell’amicizia, il senso dell’umorismo e la voglia di vivere ancora con divertimento l’ultima tappa esistenziale sono gli ingredienti per una botta di vita. Pur nella diversità delle situazioni e dei gradienti del dolore, cos’hanno in comune queste storie che il cinema ha offerto al nostro bisogno di partecipazione?
Direi che sono tutti casi di “resilienza”.
Ha un bel suono questa parola, ma cosa significa?
Conviene partire dal vocabolario:
– “Capacità di un materiale di resistere a urti improvvisi senza spezzarsi” (dal Dizionario Etimologico della Lingua Italiana Zanichelli);
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“resistenza a rotture per sollecitazione dinamica determinata da una prova d’urto” (Vocabolario Treccani);
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“capacità di un filato o di un tessuto di riprendere la forma originale dopo una deformazione” (Dizionario De Mauro).
Le parole, però, hanno la meravigliosa tendenza, una volta nate, di vivere una loro vita propria e così negli anni ’50 il termine è entrato a far parte del lessico di educatori, medici e psicologi che lavoravano alla presa in carico e cura di bambini cresciuti in ambienti estremi, come gli orfanotrofi o le comunità per disabili. In questa transizione la resilienza ha assunto il significato di “capacità o processo per far fronte, resistere, integrare, costruire e riuscire a riorganizzare la propria vita nonostante l’aver vissuto situazioni negative”.
Ma non è solo una questione di psicologia: non si può chiedere troppo al solo individuo. E’ necessario allargare lo sguardo al mondo sociale e alle responsabilità pubbliche e in tal senso possiamo dire che la resilienza corrisponde alla capacità individuale, sostenuta da un ambiente adatto, che aiuta ad affrontare i problemi che i cicli della vita propongono e di trovare le energie per superarli e magari uscirne anche rafforzati e cambiati in meglio”. Questa straordinaria possibilità ha, dunque, alla sua base il fatto che gli elementi costitutivi della resilienza sono già presenti in ogni essere umano e la loro evoluzione accompagna le diverse fasi dello sviluppo della persona: nell’infanzia è un comportamento intuitivo legato all’istinto di sopravvivenza, poi si rinforza fino ad essere attivo nell’adolescenza, e dopo ancora si incorpora nella condotta propria dell’età adulta fino ad influenzare lo stile delle successive vecchiaie (quella attiva e quella con le ridotte capacità).
Ma per tirare fuori queste energie, occorrono servizi alla persona che appoggino e talvolta si sostituiscano ai vuoti della socializzazione e dell’inculturazione. Occorre ancoraggio a valori solidi, anche se questi valori hanno oltre 2000 anni. Occorrono radici da innaffiare: perché un albero con forti radici resiste meglio alle bufere. Occorrono decisioni nel volere ottenere questo risultato educativo. I pionieri e applicatori di questo metodo (Boris Cyrulnik, Elena Malaguti, Froma Walsh, per citarne alcuni) usano l’immagine della “casita” (casetta, piccola scala in spagnolo) per descrivere il percorso di costruzione di una persona e di un ambiente resiliente:
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il suolo è costituito dalla soddisfazione dei bisogni fisici di base (cure del corpo, nutrizione, sonno, salute);
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le fondamenta richiedono accettazione incondizionata della persona, correzione dei comportamenti inadeguati e una buona rete di relazioni primarie (famiglie, amici, vicini);
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al piano terra si lavora alla scoperta del senso da dare alle proprie azioni;
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al primo piano c’è la ricerca della stima di sé, di attitudini e competenze, di senso dell’umorismo;
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nel solaio si vanno a cercare le nuove esperienze che è possibile fare perché siamo un poco più forti.