Combattere l'obesità per vivere meglio
Scritto da Massimo Tanzi il 05-06-2009
Diabete, infarto miocardico e ictus: sono queste le patologie che rischiano di contrarre in misura maggiore le persone obese. A dirlo, è l’Istituto superiore di sanità che lo scorso anno ha condotto insieme con il ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca scientifica un’indagine sulle abitudini alimentari degli italiani a partire dall’infanzia.
Dall’indagine denominata “Okkio alla salute” è risultato che il 12% degli italiani è obeso (con differenze spiccate da Nord a Sud: si va dal 4% del Friuli Venezia Giulia al 21% della Campania).
Le percentuali salgono ancora se si distinguono i maschi dalle femmine: i primi sono obesi nel 18% dei casi, le seconde nel 22 per cento.
Non solo: le cattive abitudini che portano all’anomalo aumento di peso cominciano molto presto: già da piccoli molti abusano della merenda e della sedentarietà. Sembra infatti che soltanto 1 bambino su 10 pratichi una corretta attività fisica.
l’obesità imperversa nei paesi industrializzati e sta diventando un serio problema di salute pubblica. Anche in Italia la situazione sta diventando allarmante, poiché circa il 50% degli uomini e il 34% delle donne tra i 35 e i 74 anni ha un indice di massa corporea troppo elevato.
Ma che cos’è l’indice di massa corporea?
Indicato con la sigla inglese “BMI”, ossia “Body mass index”, l’indice di massa corporea si ottiene dividendo il peso (espresso in chilogrammi) per il quadrato dell’altezza (espressa in metri) del soggetto da valutare.
Risulta così che chi ottiene un valore sotto i 19 è in sottopeso; chi si trova tra il 19 e il 25 è in “normopeso”; chi sta tra il 25 ed il 30 è in “sovrappeso”, mentre oltre il 30 si parla di “obesità” (a sua volta suddivisa in: I, II, III grado).
In ambito scientifico esiste una stretta correlazione fra sovrappeso e numero di anni di vita persi per cui, ad esempio, un maschio obeso di 20 anni (con un BMI superiore a 45) rischia di vivere fino a 13 anni in meno, con una riduzione dell’aspettativa residua di vita pari al 16,67% (ipotizzando una vita media di 78 anni).
Non va trascurato il numero di anni vissuti in “cattiva salute” dalle persone obese, che si evidenzia come invalidità lavorativa prematura, ricoveri per malattie cardiache (coronariche in particolare),
impiego di farmaci destinati alla cura di malattie croniche conseguenti all’obesità stessa.
l’obesità si associa ad una resistenza dell’organismo agli effetti dell’ormone insulina e ad alterazione di alcuni fattori di crescita coinvolti nello sviluppo del diabete mellito, dell’aterosclerosi e di alcune tra le più comuni forme di cancro, a squilibri dell’assetto ormonale in senso generale, alla dislipidemia, all’ipertensione, ad un incremento dei processi infiammatori.
Si parla quindi di “sindrome metabolica”, e si intende con questo termine la co-presenza di fattori di rischio responsabili di un sensibile incremento dell’incidenza di malattie nei pazienti in sovrappeso od obesi.
l’Organizzazione mondiale della sanità definisce la sindrome metabolica come presenza di diabete mellito, o alterata glicemia a digiuno o ridotta tolleranza al glucosio o insulino-resistenza, in associazione a dislipidemia e a elevata pressione arteriosa.
Fattori di rischio “di base” della sindrome metabolica sono: l’obesità, l’inattività fisica e una dieta non corretta.
Fattori di rischio “maggiori” sono rappresentati da fumo e ipertensione arteriosa.
Il tessuto adiposo è un attivissimo organo in grado di regolare probabilmente anche la fisiopatologia dell’invecchiamento.
Infatti, negli ultimi 50 anni numerosi studi hanno chiaramente dimostrato che la restrizione calorica è in grado di prevenire e/o ritardare l’insorgenza delle malattie croniche associate all’invecchiamento e, soprattutto, di allungare la vita massima negli animali da laboratorio, nell’ordine anche del 50%.
E’ stato dimostrato che la restrizione calorica è in grado di aumentare sia la vita media che la vita massima, mentre l’attività fisica aumenta solo la vita media degli animali da esperimento.
Se si prende come paradigmatico del mondo occidentale l’esempio americano, in cui la popolazione anziana è sempre più prevalente e oltre la metà degli adulti è obesa, è stato stimato che la sindrome metabolica diverrà un fattore di rischio primario per malattia cardiovascolare, più importante del fumo di sigaretta.
Un recente studio effettuato negli Stati Uniti, ha dimostrato che circa un maschio su cinque e quasi una donna su quattro è portatore di sindrome metabolica (Ford ES, Giles WH, Dietz WH, “Prevalence of the metabolic syndrome among U.S. Adults: findings from the Third National Health and Nutrition Examination Survey”, JAMA 2002).
La prevalenza di queste condizioni aumenta con l’età ed è presente in quasi la metà della popolazione di età superiore a 60 anni.
Soggetti affetti da sindrome metabolica hanno un rischio di morte per malattie cardiovascolari circa doppio, e il rischio d’insorgenza di attacchi di cuore e ictus è praticamente triplicato rispetto ai soggetti sani (Eckel RH, Krauss RM. “American Heart Association call to action: obesity as a major risk factor for coronary heart disease”, AHA Nutrition Committee Circulation, 1998).
Allora, che fare? Tutti i pazienti con diagnosi di sindrome metabolica dovrebbero essere incoraggiati a cambiare la propria dieta e le abitudini di vita quotidiana come “terapia primaria”.
La perdita di peso migliora tutti gli aspetti della sindrome metabolica, così come riduce la mortalità totale. Benché molti pazienti trovino difficile ottenere una perdita di peso, l’esercizio e la dieta possono ridurre comunque la pressione arteriosa e migliorare i livelli lipidici, migliorando l’insulino-resistenza anche in assenza di effettiva perdita di peso.
Non da ultimo, deve essere preso in considerazione l’eventuale ricorso alla chirurgia dell’obesità patologica, o chirurgia bariatrica, che consente di ottenere, in casi selezionati e attentamente valutati, una diminuzione del 50-60% dell’eccesso di peso che viene poi mantenuta a lungo termine.