La musica nella testa? Può salvarci la vita!

Scritto da Alessandra Cicalini il 15-10-2008

Rosa_sul_pianoIn piedi, davanti allo specchio del bagno, vi state lavando denti, avete la radio accesa e state cercando di fare più in fretta possibile perché siete già in ritardo.
Al volo infilate la giacca e correte verso la vostra meta. Improvvisamente vi accorgete che quella musichetta che gracchiava dalle casse vi si è annidata nella testa. Arrivate al vostro appuntamento, salutate, cominciate a parlare e, quando passate la palla al vostro interlocutore, vi rendete conto che lo sciocco motivetto è sempre lì e quasi quasi v’impedisce di concentrarvi sull’oggetto della discussione. La sera tornate a casa, cenate, guardate un po’ di tv, parlate con i vostri familiari e poi vi mettete a letto con la prospettiva di proseguire il vostro libro. Niente da fare. Le righe scorrono male, c’è qualcosa che non torna, anzi, che si ripete senza fine: è la musica che avete sentito al mattino!
Non vi spaventate: è piuttosto naturale e capita a una grandissima quantità di persone.


Tutt’altra storia sarebbe se, ascoltando un brano rock molto duro o anche un lieder iper-classico, vi accorgeste che vi prende uno strano tremore o cominciaste a muovervi in modo scomposto nello spazio.
Una reazione del genere potrebbe capitare, a grandi linee, a chi è colpito dalla sindrome di Tourette, descritta dal neurologo Oliver Sacks nel suo “Musicofilia”.
Non si tratta però per forza di una reazione negativa che potrebbe danneggiare le persone affette dalla patologia: anzi, spesso proprio l’ascolto e se possibile l’apprendimento di alcuni tipi di musica, spiega l’autore, soprattutto il jazz e il rock, potrebbero essere grandemente utili per curarle.

La musica può dare sollievo ed è una prerogativa unica, precisa Sacks nel suo libro, che non appartiene a nessun’altra forma d’espressione artistica.
Tutti abbiamo, chi più chi meno, un orecchio musicale, e tutti, potenzialmente, potremmo trarre giovamento dal contatto con le note se fosse necessario trovare forme di comunicazione con noi diverse dalla parola.

Capita spesso, infatti, di utilizzare la musica con i malati di Parkinson (parzialmente simile alla sindrome di Tourette) e agli affetti dall’Alzheimer. Sacks cita alcune esperienze vissute direttamente dai pazienti che ha avuto in cura nel suo ospedale. In particolare, si sofferma sulla storia di Woody, incapace di allacciarsi i pantaloni senza l’aiuto esterno, ma in grado di ricordare alla perfezione una quantità incredibile di canzoni. Woody non sa più quale lavoro ha svolto in gioventù né che cosa abbia fatto dieci minuti prima, ma non ha perso nulla della sua quarantennale attività di baritono in un gruppo a cappella di dodici elementi.

Insomma, quando Sacks chiede a Woody e ai suoi familiari di cantare, dopo aver esaurito tutte le domande da medico del tipo “chi sei?”, “dove abiti”, e via dicendo, resta incantato dalla maestrìa del malato nell’esecuzione corale, accompagnata anche da movimenti appropriati con il corpo e lo sguardo verso la moglie e la figlia. Quest’ultima ha avuto l’idea di portare suo padre da Sacks: vuole sapere se sia possibile fargli recuperare l’attitudine alle piccole incombenze quotidiane cantandogliele

Lasciamo che scopriate da voi che cosa ha risposto l’autore, anche perché, come precisa Sacks stesso, ogni caso è a sé e ogni paziente è un mondo diverso.
Tuttavia ci piace riportare la conclusione cui il neurologo americano giunge al termine delle quasi 400 pagine di questo prezioso volume: anche quando la memoria è pressoché azzerata, quando si arriva a non avere più contatto con l’identità di un tempo, “non si è mai davvero niente, mai una tabula rasa”.
Per dimostrarlo, basta accendere uno stereo, collegare l’i-pod alle casse, suonare dal vivo, insomma, fare musica: se per noi conservare un motivetto per qualche ora in testa può essere pure fastidioso, per chi soffre di demenza è diverso. “La musica – osserva infatti Sacks – per loro non è un lusso, ma una necessità, e può avere un potere superiore a qualsiasi altra cosa nel restituirli, seppure soltanto per poco, a se stessi e agli altri”.

La musica, dunque, è vita; non dimentichiamocelo mai.

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