La vecchiaia? Che forza!
Scritto da Luciana Quaia il 10-12-2009
Nello svolgere una professione di aiuto può sussistere il rischio che le persone di cui ti occupi giungano a rappresentare un orizzonte di riferimento.
E così, interagendo con le patologie della vecchiaia, dietro l’angolo si annida il pericolo di uniformarsi a un modello di pensiero che colloca questa età della vita come anticamera della sua stessa fine.
A sollevare le sorti di un’angusta visione del diventare vecchi e, di conseguenza, a rinforzare la motivazione di chi con essi lavora, ci ha pensato il suggestivo pensiero di James Hillman.
Nel suo libro “La forza del carattere” (Adelphi, 1999) l’autore spiega perché l’invecchiamento è un tratto necessario per consolidare e significare ciò che ognuno di noi “è” e, contemporaneamente, invita ad una profonda riflessione centrata non solo sui vecchi che conosciamo, ma, qualunque sia la nostra età, alla struttura e all’impronta che già stiamo costruendo oggi per il domani che ci attende.
Dunque, se la biologia della vecchiaia racconta un certo tipo di storia, la psicologia sostiene che il carattere ha bisogno di essa per poter raggiungere il suo pieno compimento: “I cambiamenti cui va soggetto il carattere nell’ultima parte della vita – dice infatti la relativa voce sull’enciclopedia Treccani – sono, in primo luogo, il desiderio di durare il più a lungo possibile; poi, i cambiamenti che avvengono nel corpo e nell’anima man mano che la capacità di durare ci lascia e il carattere si espone e si conferma sempre più; infine, emerge una terza tessera del mosaico: ciò che resta quando ce ne siamo andati”. Ecco le tre idee portanti del carattere nella vecchiezza: Durare, Lasciare, Restare.
Hillman afferma: “Ciò che avviene nel corpo è sempre imprigionato nell’idea che la mente ha del corpo”. Scrolliamoci quindi di dosso il condizionamento culturale che continua ad imporci la rincorsa della giovinezza e recuperiamo l’idea di ri-significare il senso della nostra posizione nel mondo. La vera longevità, il Durare che dura per sempre, deve liberarsi dall’involucro temporale e cercare di estendere il pensiero.
Come? All’indietro, poiché andando a scavare nelle radici della tradizione riusciamo ad allungare il tempo alle nostre spalle. All’ingiù, verso i discendenti, che si forgiano e imparano dal nostro carattere. All’esterno, perché la curiosità per la vita altrui estende anche la propria vita.
Restituiamo inoltre valore al tanto vituperato termine vecchio: “La prima cosa che scopriamo – prosegue l’autore – è che ciò che più ci rende preziose le cose definite vecchie è appunto il loro carattere senza morte e senza età. Il Ponte Vecchio, i vecchi manoscritti, i vecchi giardini, le vecchie mura non richiamano l’idea di morte, anzi, al contrario,di semprevivo… Che cosa se non il carattere delle vecchie parole, dei vecchi oggetti, dei vecchi luoghi arreca conforto e consolazione alla nostra vita quotidiana?
…Oh sì, si assottiglia e si logora, e tuttavia il “vecchio” trattiene affettuosamente il tempo. Ama gli anni, i decenni, i secoli. Tiene lontano il cambiamento, avvicinando tutte le cose vecchie allo stato di permanenza. Il tempo non è soltanto distruttivo; esso tempra, oltre che indebolire. Il tempo dura; continua ad andare avanti, avanti, avanti; perciò non è nemico della vecchiaia e del vecchio. Il tempo è distruttivo, semmai, per la giovinezza, che corrode e alla fine cancella”.
Forse il Lasciare è il momento più critico, schiavi come siamo dell’idea fisiologica che la vecchiaia sia un processo che conduce inesorabilmente al decadimento. Ma anche in questo caso Hillman ci invita ad esaminare come il carattere impari dal corpo la saggezza. E’ vero che le nostre facoltà si modificano, ma è solo l’atteggiamento nei confronti di queste trasformazioni che ci convincono a definirci più lenti ed ottusi. Maggiore è l’inclinazione a leggere i fenomeni della vecchiaia come indizi di morte, minore sarà la propensione ad interpretarli come iniziazioni ad un altro modo di vivere.
E’ così difficile da immaginare? Che cosa si può imparare dal fatto che il corpo non “duri” più come una volta? Anche in questo caso la soluzione offerta da Hillman esorta ad alcune meditazioni:
“Devo proprio mettere mano personalmente a tutto? O adesso la mia presa ha una diversa fermezza, che mi viene dall’autorevolezza di un carattere più fermo? E se rimangono compiti concreti da svolgere, non esisteranno altri sistemi per eseguirli? Per esempio ammettendo di avere bisogno di aiuto, o lavorando in collaborazione con altri, andando al passo anziché di corsa, distribuendo gli impegni nel tempo, sfrondando un po’, essendo più tollerante con me stesso, o rinunciando ad accettare nuovi incarichi così da godermi quello che ho realizzato fin qui”.
Infine, il concetto di Restare. Secondo l’autore, l’ancoraggio alla dualità corpo-anima spinge il pensiero a rincorrere interrogativi metafisici che distraggono dalla concentrazione sulla vita presente per interrogarsi piuttosto sul che cosa sarà dopo di essa.
Anche in questo caso Hillman ci propone un’idea diversa: “Un carttere prende vita con elementi di corpo e di anima e non è riducibile né all’uno né all’altra, e nemmeno ai due insieme. Il carattere è una configurazione indipendente… l’immagine di una persona sopravvive alla sua partenza e, a volte, dopo che la persona se ne è andata, è ancora più potente”.
Quello che si manifesta in quest’ultima transizione è il prestigio dei ricordi, perché è grazie ad essi che la forza del carattere assume valenza di indistruttibilità. Infatti, identificando nel carattere quell’insieme di proprietà osservabili per cui una persona si riconosce e si distingue come differente da qualsiasi altra, “ciò che resta è la porzione di destino che il carattere unico e irripetibile di ciascuna persona incarna. .. Le eccentricità che per tutta la vita abbiamo cercato di smussare, di conformare alla norma, riemergono nell’ultima parte della vita per comporre l’immagine che resterà. l’immagine che rimane di noi, quel modo di essere che lasciamo nella mente di altri, continua ad agire su di loro … come modello ideale, come voce guida, come antenato protettivo; una forza potente all’opera di coloro che hanno ancora una vita da vivere”.
In questa visione così radicalmente originale dell’idea di vecchiaia, Hillman ci insegna che la migliore terapia per vivere bene questa età è quella delle idee. Accattivanti spot pubblicitari annunciano che le idee mantengono desta la mente, ma la mente è desta solo quando sa modificare le sue idee, smontandole, rinnovandole, sostituendole. E per fare questo occorre tempo, grinta e resistenza. Il carattere, in realtà, è “un fascio di caratteristiche, un groviglio, una cartelletta piena di fogli. Ecco perché ci serve una vecchiaia lunga: per sbrogliare i fili e trovare i bandoli”.