Armando Federico Ceccati e il senso vero della sua seconda vita

Scritto da Stannah il 02-10-2013

Intervista di Alessandra Cicalini

La società delle immagini e della velocità ci ha abituati a metabolizzare con troppa fretta le sofferenze altrui. Sarà per questo che poi, quando a star male è un nostro vicino di casa distogliamo lo sguardo dall’imbarazzo. Qualcosa del genere è successa ad Armando Federico Ceccati, un ragazzone di quarantacinque anni dal viso sorridente e cordiale, quando si è ritrovato a fare la spesa nel supermarket del suo paese sull’Appennino reggiano con la mascherina d’ordinanza impostagli dalla sua condizione di cardio-trapiantato ancora in convalescenza.  In fondo, però, è normale: chi non ne sa nulla, non immagina quanto in fretta ci si possa riprendere dopo un intervento destinato a cambiarti totalmente la vita. Del prima e del dopo, Ceccati ha parlato nel libro Il trattore e la carriola, sottotitolo “Un cuore per due”, pubblicato da Incontri Editrice di Sassuolo (Mo) a fine 2010. Il ricavato delle vendite sta andando tutto alle tre associazioni nazionali che danno una mano ai trapiantati d’Italia, conosciute da Armando per via dei lunghi periodi di degenza negli ospedali dell’Emilia Romagna, in particolare al Sant’Orsola di Bologna, sede dell’Associazione trapiantati di cuore, dellaOnlus G. Gozzetti dei trapiantati di fegato e dell’Associazione nazionale trapiantati del rene. Da qualche tempo, poi, stralci del libro hanno dato spunto anche a una rappresentazione teatrale, replicata finora in poche date. Anche in questo caso i proventi dei biglietti sono destinati alle associazioni sponsor del libro scritto da Armando con il fondamentale contributo diLaura Antinogene ed Enrico Lusuardi, i genitori di Federico, il giovane che gli ha donato il cuore, a distanza di tre giorni dal terribile incidente stradale in cui perse la vita insieme con l’ancora più giovane fidanzata, Giulia Tomasi, in quell’indimenticabile pomeriggio del 6 dicembre 2003. Da allora molte cose sono cambiate, a partire dal legame oggi solido e profondo che lega Armando ai genitori del suo donatore, come lo stesso ha raccontato a Muoversi Insiemenell’intervista che segue.

 

In genere, quando si fissano le nostre emozioni su carta, dopo ci si sente svuotati: è successo anche a lei?

Direi di no, se per svuotato si intende sentirsi privo di energie. Al contrario, io mi sono sentito meglio: la parola precisa, anzi, è leggero. L’aver trasferito su un foglio emozioni anche molto vecchie e che a distanza di tanti anni mi facevano ancora male, mi ha permesso infatti di rielaborarle e finalmente di “liberarmene”; credo che lo stesso lavoro in qualche misura abbia fatto bene anche a Laura ed Enrico, i genitori di Federico.

Come sono i vostri rapporti oggi?

Tra noi c’è un legame di amicizia molto saldo e molto bello. A loro sono molto grato anche perché non hanno mai visto in me la continuazione di Federico, nonostante abbia deciso unilateralmente di aggiungere legalmente il nome di Federico al mio: hanno capito il motivo che mi ha spinto a farlo.

Dice così perché in Italia la legge impone l’anonimato sulle donazioni, giusto?

In realtà la legge 91 del 1999, all’articolo 18 recita: “Il personale sanitario ed amministrativo impegnato nelle attività di prelievo e di trapianto è tenuto a garantire l’anonimato dei dati relativi al donatore ed al ricevente”. E io, in linea generale, sono d’accordo. La disposizione di legge, però, oltre ad elevare la nobiltà della donazione a gesto d’altruismo disinteressato, ha anche motivi più concreti: nei soggetti più deboli di entrambe le parti, già provati dalla loro esperienza, potrebbero innescarsi meccanismi psicologici di sudditanza che ne potrebbero limitare pesantemente le libertà.

Il caso, però, l’ha portato a conoscere l’identità del suo donatore, come racconta, e a fare il primo passo di avvicinamento verso la famiglia di Federico. Com’è riuscito a vincere la timidezza iniziale?

Mi ha molto aiutato Clarenza, la madre di Giulia Tomasi, che ho incontrato per caso al cimitero di Coscogno, in un giorno di marzo del 2006. I primi tempi con i Lusuardi ero rigido come un manico di scopa: avevo il terrore di sembrare inadeguato.  E di conseguenza anche loro non sapevano come prendermi…

Come ha avuto l’idea del libro?

Come racconto, durante la convalescenza lo psicologo che mi seguiva mi propose di mettere sulla carta le mie emozioni del momento. Mi sentivo infatti molto solo e inascoltato. Finché un giorno, la prima estate dopo l’intervento, dovevo partire per la Corsica con i miei amici, perciò decisi di fare un salto in libreria per cercare letture appropriate: ed è così che ho trovato il libroLe scarpe appese al cuore di Ugo Riccarelli, scrittore e giornalista che aveva vissuto un’esperienza molto simile alla mia anni prima. Leggendolo, mi ci sono ritrovato moltissimo e ho soddisfatto anche il mio bisogno di condivisione che non ero riuscito a trovare nel rapporto con i miei conoscenti diretti. La pagina scritta, insomma, si era rivelata assai più utile di qualsiasi discorso. Da lì ho pensato di fare qualcosa di simile, ma rileggendo il mio diario mi sono reso conto che avrebbe avuto molto più valore se ci fossero state anche le testimonianze di Laura ed Enrico.

Li ha convinti subito?

Dopo le iniziali e comprensibili titubanze, leggendo le mie bozze, hanno acconsentito a darmi i loro contributi e può immaginare che percorso dolorosissimo sia stato il loro.

Mi spiega come mai l’ha intitolato “Il trattore e la carriola”?

In effetti qualcuno ha pensato leggendolo che si trattasse di un trattato di agronomia! (ride) In realtà, il titolo vero è quello sotto, cioè “Un cuore per due”, ma quell’immagine di me, carcassa malandata come una carriola, trainata da un trattore forte e resistente, mi è venuta in mente già dal primo pasto consumato subito dopo l’intervento. Prima, non riuscivo più a digerire neanche un brodino, dopo il risveglio mi sono accorto di avere una fame da lupi!

Com’è cambiata la sua vita dall’intervento: ha stretto anche nuove amicizie?

Come capita a tutti, qualche vecchia amicizia si è persa per strada, ma ne ho trovate di nuove anche nell’ambiente dell’Aido di cui oggi faccio parte.

Le capita ancora di parlare ai giovani della sua esperienza? Nel libro accenna alla scomodissima domanda che le fecero dei bambini giusto i primi tempi, quando ancora non aveva incontrato i Lusuardi…

E già! Adesso mi capita spesso di incontrare ragazzini e adolescenti e di rimanere molto colpito dall’interesse che suscita la nostra storia: ho in mente in particolare un ragazzino di terza media con tanto di cresta in testa che alla fine dell’incontro di due ore, anziché affrettarsi come gli altri a prendere la corriera, è venuto a stringere le mani ai signori Lusuardi. Se ci penso, mi commuovo ancora.

Quindi i ragazzi sono sensibili al tema dei trapianti?

Più di quanto possa pensare un adulto. È logico, d’altra parte, che un giovane non abbia voglia di parlare di morte: io stesso nel 2000, quando mi arrivò la lettera del ministero della Sanità in cui ci si chiedeva di prendere in considerazione la possibilità della donazione d’organi, girai la faccia. E invece è molto importante gettare i semi tra i più giovani, nella speranza che vengano raccolti anche dai loro genitori. Esiste ad esempio un libro destinato ai più piccoli dal titolo Le avventure della famiglia Organelli, pubblicato dall’editore Sestante, che in poche pagine riesce a spiegare efficacemente tutto quel che c’è da sapere. Ne esiste anche una versione in audiolibro davvero bellissima: mi piace talmente tanto da farmi regredire a bimbo di sette anni! Però poi ritorno ai miei 45 e capisco tutta l’importanza di un’opera del genere.

In questo senso anche la trasposizione teatrale del suo (direi a questo punto vostro…) libro può aiutare a diffondere tra i più giovani la giusta visione del trapianto d’organi?

Certamente, anche perché gli attori di volta in volta utilizzati sono scelti tra i ragazzi del posto e chi vive un’esperienza del genere ne rimane fortemente colpito.

I proventi di libro e spettacolo stanno andando in particolare a qualche progetto?

Per lo spettacolo dipende anche dall’eventuale presenza di progetti locali da finanziare. Nel caso del libro, invece, le associazioni che l’hanno sponsorizzato hanno deciso di convogliare i ricavi nel progetto Tetto amico, la raccolta fondi per l’ampliamento della foresteria già attiva nell’ex dermatologia dell’ospedale Sant’Orsola, a beneficio dei pazienti in attesa di trapianto o appena trapiantati e dei loro familiari. Si tratta di una struttura di fondamentale importanza in una città in cui, soprattutto in periodo fiera ma non solo, è difficilissimo (oltre che costoso) trovare posti letto, fondamentali per i non pochi degenti provenienti da zone d’Italia molto distanti.

Quali sono i suoi sogni oggi? Vorrebbe per caso scrivere un altro libro?

No, considerando che mai avrei immaginato di scrivere neanche il primo! E dire che di materiale ce ne sarebbe eccome, ma come penso si capisca, ho cercato di fissare sulla carta le mie emozioni vere e autentiche, come i miei sogni, normali come quelli di chiunque.

Come immagina la sua vecchiaia… tra una quarantina d’anni?

Mah, tra quarant’anni probabilmente sarò stanco di vivere (ride di nuovo); però a parte gli scherzi, tolti i problemi fisici che potrebbero capitarmi, essendo il mio sistema immunitario debole come quello di tutti i trapiantati, mi immagino una vecchiaia serena. Perché in effetti c’è qualcosa che è cambiato in me rispetto a prima: mi sono molto avvicinato alla fede, che mi ha dato alcune risposte che oggi mi aiutano a vivere, non solo a sopravvivere.

 

Si tratta di una presa di coscienza davvero preziosa che noi di Muoversi Insieme gli auguriamo di conservare per sempre, a beneficio anche di tutte le persone che avranno voglia di guardare in faccia il senso vero dell’esistenza senza inutili maschere. Grazie di verissimo cuore, a lei e ai genitori di Federico, e un grande in bocca al lupo per tutto.