Carla Bignami e l'aiuto “naturale” ai malati di Alzheimer

Scritto da Stannah il 02-10-2013

Intervista di Alessandra Cicalini

Immaginate l’effetto che doveva fare il telefono le prime volte che si è cominciato a usarlo. Probabilmente sembrava che la persona all’altro capo del filo fosse giusto dietro di noi, sarebbe bastato girarsi e ci si sarebbe potuti guardare in faccia. Più o meno questo è successo stamattina durante la conversazione a distanza con Carla Bignami, socia fondatrice del Centro donatori del tempo di Como. A settantasette anni, la sua voce ridente fa immaginare un viso aperto all’incontro con gli altri e alla vita in generale, come conferma lei stessa verso la fine della chiacchierata, durante la quale ha raccontato come mai un’impiegata nella direzione generale di un’importante industria serica della città abbia deciso a un certo punto di dedicarsi ai bambini disabili, prima, e agli anziani malati di Alzheimer, poi. Sentendola parlare, si hanno già tutte le risposte, ma pensiamo che sia utile non tenercele per noi, bensì condividerle con i lettori diMuoversi Insieme, soprattutto con chi tra loro sta vivendo il dramma della malattia oggi ricordata in tutto il mondo. Buona lettura.

Quando è nato il Centro donatori del tempo?
Siamo partiti nel 1977 raccogliendo il testimone di Beppe Cornaggia, una persona straordinaria.

Perché?
Beppe è rimasto tetraplegico per colpa della poliomielite: l’ho conosciuto nel 1971 e nei cinque anni successivi, fino alla sua morte, la mia vita è radicalmente cambiata.

Come mai?
Aveva un’apertura veramente speciale: era convinto che anche gli handicappati potessero fare qualcosa per gli altri, non solo essere oggetto di attenzioni. Si era iscritto a Ingegneria e anche se non l’aveva portata a termine, era un ingegnere nella testa: pensi che era capace di costruire ausili, in un’epoca in cui non si parlava così spesso di montascale, sollevatori e così via. Grazie a un paranco di sua realizzazione che teneva sul tetto dell’auto, siamo andati con lui in Toscana.

Che cosa le ha insegnato?
Moltissimo… soprattutto, credeva nella comunicazione come mezzo per combattere l’isolamento: se fosse nato in quest’epoca, sicuramente avrebbe voluto collaborare con voi!

Con chi ha proseguito il suo cammino?
Siamo partiti in sette nel 1977. Ora siamo una trentina… tutti vecchietti! Per questo ci piacerebbe che qualcuno raccogliesse il nostro testimone. Nel tempo si è aggiunto qualcun altro veramente speciale come la nostra psicologa Luciana Quaia!

La conosciamo bene… come siete arrivati a occuparvi di Alzheimer?
È successo negli anni Novanta, dopo le nostre esperienze con i bambini disabili fisici e psichici cui ci siamo dedicati dal 1979 al 1989. Di quell’esperienza conserviamo i giochi che usavamo nella nostra “Ludoteca per tutti”, la prima in Italia, e che oggi, guarda il caso, utilizziamo con gli anziani malati.

Niente accade per niente, sembrerebbe; com’è nato il vostro interesse per l’Alzheimer?
Dall’ascolto dei problemi emergenti dal nostro territorio: per l’handicap erano nate varie associazioni, per l’anziano con problemi di demenza non esisteva niente. Abbiamo quindi preso contatti con un gruppo milanese che se ne occupava, in anni in cui non esistevano neanche libri sulla materia tradotti in italiano (per fortuna Carla conosce tre lingue: facile immaginare chi si sia documentato sulla malattia, ndr). Poi abbiamo pensato di organizzare un convegno in città a scopo conoscitivo e per contarci: volevamo capire quanto il problema fosse avvertito.

E come andò?
Raccogliemmo moltissime testimonianze: era l’aprile del ’92, già il mese dopo è nato il “Gruppo di reciproco aiuto Alzheimer”, noto come G.R.A.A.L. Con il nuovo servizio abbiamo dato la disponibilità del nostro Centro (nella foto a destra, un momento delle attività con gli anziani) per un pomeriggio a settimana dedicato all’ascolto dei familiari dei malati di Alzheimer. Ai tempi, non sarebbe stato pensabile che ci portassero già questi ultimi.

Perché?
Occorre molto tempo perché un familiare riconosca di aver bisogno di aiuto confidandosi con un estraneo. E del resto noi non abbiamo mai pensato di fare consulenza a domicilio, una competenza che invece spetta alla Asl.

Quanto tempo vi ci è voluto per arrivare alla vostra organizzazione attuale?
Dopo alcuni anni pionieristici di “pomeriggi sperimentali” con i malati, nel 2001 è nato il nostro“Caffè del lunedì”, che si tiene allo Yacht club di Como e nel 2005 il nostro “Venerdì insieme”, ossia due pomeriggi di stimolazione ludica per i malati e di sostegno per i loro familiari. Le nostre attività si svolgono tutte le settimane da ottobre a giugno, dalle 15 alle 17.

Come si svolge il pomeriggio al “Caffè”?
I malati vengono intrattenuti dai nostri volontari in attività di svago, come il canto, la pittura (abbiamo un’arte-terapeuta che lavora con noi da tempo: si chiama Chiara Salza) e con giochi di memoria, quelli che usavamo nella ludoteca, come le accennavo, all’epoca molto all’avanguardia, tuttora molto validi.

Chi partecipa ai vostri pomeriggi? Solo i malati?
Anche i familiari, se lo desiderano, soprattutto nella fase iniziale: il nostro scopo è alleggerire il peso della cura, ma non tutti si fidano da subito a lasciarli da soli, così succede un po’ come con l’orientamento per i bambini del nido e la materna.

Avete attivato altri servizi?
Sì, abbiamo un “ filo diretto”  per i familiari dei malati affidato due volte al mese (il primo e il terzo mercoledì), dalle 17 alle 19, alla nostra psicologa. Poi ogni anno organizziamo delle iniziative in occasione della Giornata mondiale dell’Alzheimer.

In che cosa consistono?
Organizziamo colloqui per le famiglie per far conoscere i nostri servizi, offriamo consulenze psicologiche e legali e tentiamo di reclutare nuovi volontari, impresa durissima!

Chi sono i vostri volontari di solito?
Sono ultrasessantenni da poco in pensione, ma abbiamo anche un ottantacinquenne: è arrivato da noi a ottant’anni e si è mostrato subito bravissimo.

Come mai sono già pensionati? Perché hanno maggior tempo libero?
Sicuramente la possibilità di avere più tempo incide, ma soprattutto si tratta di persone che hanno sperimentato la sofferenza in famiglia, anche se molto raramente causata dall’Alzheimer. In genere, anzi, i parenti preferiscono allontanarsi una volta perso il loro caro, ed è più che comprensibile.

Anche a lei è capitato di conoscere da vicino la malattia?
Me l’hanno già chiesto, insieme con l’altra domanda: ma come mai ha così tanto tempo da dedicare agli altri? E io rispondo: perché sono una zitellona (ride)! A parte gli scherzi: non essendomi sposata, sono rimasta a casa con i miei genitori che ho avuto la fortuna di avere affianco in buona salute fino a oltre novant’anni. In un certo senso, credo di essere una privilegiata.

Perché?
Quando è nato il Centro donatori del tempo (nella foto a sinistra, altri momenti delle loro attività), avevo già 43 anni. Prima di conoscere Beppe, avevo girato il mondo e non mi ero mai fatta mancare nulla. Avendo ricevuto così tanto, mi è sembrata la cosa più normale da fare.

Voleva restituire quel che ha ricevuto?
Restituire mi sembra inesatto: ricompensare è meglio. Ma in modo molto naturale: se qualcuno mi elogia, anzi, non sa quanto mi arrabbio!

E noi non abbiamo nessuna intenzione di farla arrabbiare. Però non può negare di essere un tipo speciale. Ci permetta di dirle almeno grazie, per quello che fa normalmente (come dice lei, naturalmente!) e per il tempo che ha donato anche a Muoversi Insieme.

Leave a Reply

Your email address will not be published.