I viaggi di Loretta Emiri, dall'Amazzonia a se stessa

Scritto da Stannah il 02-10-2013

Intervista di Alessandra Cicalini

Loretta Emiri ha uno sguardo molto penetrante, anche se fa di tutto per nasconderlo. Sicuramente, se ne saranno accorti anche gli Indios Yanomami, abitanti in Roraima, nel nord del Brasile, con cui la scrittrice di origine umbra, nata nel 1947, ha vissuto per alcuni anni a partire dalla fine degli anni Settanta. “Mi ci sono voluti mesi per parlare nella loro lingua”, racconta Loretta, “perché temevo che mi avrebbero preso in giro: gli Yanomami sono dei gran simpaticoni e io sono timida”. Sarà vero, però l’indole riservata non le ha impedito, intorno ai trent’anni, di stravolgere la sua vita. All’età in cui molte persone “si sistemano”, Loretta è partita per la foresta amazzonica per lavorare con un gruppo di missionari, partecipando  a un progetto di alfabetizzazione rivolto agli adulti, concepito in tempi in cui gli Indios subivano continue invasioni e violenze da parte dell’uomo bianco, a caccia di oro e legname. “Oggi la situazione è cambiata”, osserva la scrittrice, “ma ciò non significa che possiamo abbassare la guardia”. Tornata in Italia, Loretta ha continuato a farsi portatrice dei valori degli Yanomami, contribuendo a far acquisire alMuseo Civico Archeologico Etnologico di Modena  una collezione di oggetti di questo popolo. Soprattutto, tracce dei lunghi anni trascorsi in Amazzonia si ritrovano in tutte le sue opere, non solo di tipo saggistico. Un esempio lampante di quanto gli indios le siano entrati nel sangue è la sua ultima fatica, uscita pochi mesi fa, dal titolo “Quando le amazzoni diventano nonne”. Del libro e di molto altro la scrittrice ha parlato a Muoversi Insieme nell’intervista che segue.

Nello stile del suo ultimo lavoro riecheggia la tradizione orale, molto diffusa anche da noi prima dell’avvento dell’industrializzazione: quanto è frutto della lunga esperienza tra gli Yanomami e quanto fa parte della sua formazione?
Sicuramente è parte del mio bagaglio culturale: non a caso, il capitolo che ho dedicato alla nonna materna, contadina, si chiama proprio “Tradizione orale”. In più, non seguo le mode e a volte utilizzo di proposito termini ormai poco usati proprio per farli riscoprire, per valorizzarli.

Secondo lei  l’inattualità  è un valore, allora? Per questo ha scelto di scrivere una novella, alla maniera di Boccaccio e Pirandello, come recita la quarta di copertina?
In realtà, la “novella” esiste ancora, solo che oggi la si chiama “romanzo breve” o “racconto lungo”. Poiché parla di donne, preferisco definire il mio libro con il termine femminile “novella”. Inoltre, questo termine rimanda alle letture che facevo da adolescente e che tanto hanno contribuito alla mia formazione.

Non pensa che l’alfabetizzazione degli Indios possa portarli un giorno a smarrire la loro tradizione orale, com’è successo in Occidente?
Per il momento, non vedo questo pericolo: il processo è ancora troppo recente. In ogni caso, imparare il portoghese e la matematica per gli indios è una necessità. Solo in questo modo, infatti, possono rivendicare i loro diritti ed evitare di essere truffati quando fanno affari con i bianchi.

Lei ha curato un dizionario Yanomami-Portoghese. Quella che era una lingua orale adesso è anche scritta, quindi?
Sì: mi viene in mente che su un cesto, oggi conservato nel Museo di Modena, uno Yanomami aveva scritto delle parole nella sua lingua.

Anche questo può essere un modo per conservare la propria memoria storica… qual è stata la parola che ha imparato per prima?
Senz’altro “Urihi”, che vuol dire “foresta”, cioè il loro universo.

Ha vissuto con loro nella grande casa comunitaria, la “Maloca”?
Sì: dopo essermi trasferita a Boa Vista, la capitale della regione, ho fatto dei viaggi in area yanomami e mi ospitavano nella maloca; non si sapeva mai quando sarei tornata indietro, perché dipendevo da mezzi di fortuna. I miei soggiorni sono durati anche mesi (in un raro documentario girato da Sante Altizio nel 1992, si vede proprio la grande abitazione di legno e paglia della comunità Yanomami in cui ha vissuto la scrittrice, ndr).

Difficile cancellare ricordi del genere…
Veramente non c’è nessun desiderio di cancellarli, semmai direi che mi piace alimentarli.

Che cosa potremmo imparare da loro?
Pensiamo solo ai rifiuti: in Occidente ne siamo sommersi e soffocati; la donna Yanomami, invece, mette tutti gli oggetti appartenenti alla famiglia nel “wyy”, il cesto da carico usato negli spostamenti. Sono davvero poche le cose di cui si ha veramente bisogno per vivere.

Il “wyy”, come narra, le è servito anche per stendere l’ultimo libro, quando ha avvertito la necessità di sfrondarlo da inutili orpelli che avrebbero solo appesantito la storia della sua famiglia: quanto le è costato guardarsi dentro?
La scrittura, per me, ha sempre un potere terapeutico. Mentre si scrive, si possono riacuire antiche ferite; dopo, però, si sta meglio…

Da ragazza ha bruciato le sue poesie, dice a un certo punto: che cosa l’ha spinta da adulta a riprendere a scrivere?
Veramente, ho sempre sognato di divenire una scrittrice: il mio primo regalo importante da bambina è stata una macchina per scrivere. Però volevo anche andare a lavorare nel cosiddetto Terzo Mondo. A un certo punto mi sono sentita davanti a un bivio: partire o scrivere. Ho scelto la prima strada, nella convinzione che, in un secondo momento, avrei avuto cose interessanti e importanti da raccontare.

Adesso, però, è tornata a guardare nelle memorie di famiglia… nel suo sito personale cita una frase di Federico Fellini, il quale diceva di non voler dimostrare niente, ma solo mostrare: come mai l’ha scelta?
Perché neanche a me piace dare risposte. Le conclusioni debbono trarle i lettori, ognuno a suo modo. E poi credo che la maturità mi abbia portato a essere meno radicale e fanatica.

Da chi pensa di aver ereditato il tratto più polemico e fiero del suo carattere: forse dalle nonne? 
Sicuramente entrambe le mie nonne avevano forti personalità, quindi penso che sia andata così. Il titolo del libro è “Quando le amazzoni diventano nonne” proprio per mettere in evidenza quanto forti e coraggiose siano state. E e se ho ereditato aspetti delle loro personalità, allora il termine “amazzone” può essere valido anche per me…

Invece dai nonni che cosa ha preso?
Il nonno materno era un uomo tranquillo e ottimista; del nonno paterno, che è morto prima che nascessi, mi è stata trasmessa l’immagine di una persona aperta, comprensiva e tollerante.

Ha trascritto i diari del nonno materno, un lavoro ancora inedito: che cosa ha significato, per lei, ricostruire la sua storia?
È stato un lavoraccio, ma molto coinvolgente: mio nonno ha usato due agendine piccolissime per descrivere le sue giornate in tempo di guerra, in un italiano non sempre comprensibile, visto anche che aveva solo la quinta elementare. Ho coinvolto mia madre, oggi quasi 93 enne: è stata un’esperienza di intesa e comunione con lei molto forte .

Vorrebbe che glielo pubblicassero?
Certamente! Purtroppo, però, non è facile, il mondo editoriale è spietato, ma non desisto: al di là del fatto che si tratti di mio nonno, sono orgogliosa di aver dato voce a una persona che la guerra non l’ha voluta, né dichiarata, né fatta, ma ha dovuto subirla insieme alla famiglia.

Che rapporto ha con la morte e il dolore?
Della prima non ho affatto paura: ho avuto una vita intensa, mi basterebbe già così. Con il dolore, invece, è un’altra storia…

A che cosa sta lavorando adesso?
Sto finendo un libro sul viaggio, inteso in senso più metafisico che fisico. Poi vorrei mettere mano a un progetto che ho in mente da tempo.

Di che si tratta?
Di un romanzo, che ha per protagonista qualcuno che mi somiglia molto…

Che cosa le ha impedito finora di mettercisi a lavorare?
Potrebbe essere molto doloroso, e, come dicevo prima, il dolore mi fa paura… ma anche in questo caso, spero, di stare meglio, dopo.

Insomma, dopo aver viaggiato nello spazio e nel tempo, con gli Yanomami e i ricordi di famiglia, Loretta Emiri sta scoprendo sempre di più l’importanza dell’autobiografia, anche se romanzata, almeno nel suo caso. Al di là del valore letterario di ciò che potremmo scrivere di noi stessi, che si tratti di un ideale cerchio che dovremmo percorrere tutti nella nostra vita, per non disperdere quello che siamo e per lasciare granelli di memoria a beneficio dei posteri?
Parafrasando l’autrice, la risposta spetta a voi lettori.

Da “Muoversi Insieme”, invece, un grazie di cuore a Loretta Emiri per l’appassionata e acuta conversazione. 

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