Luigi Valera e la “giusta” visione del lutto

Scritto da Stannah il 02-10-2013

Intervista di Alessandra Cicalini

In una società priva del senso del limite, la morte è un evento accidentale, difficile da metabolizzare. A dirlo, è Luigi Valera, psicologo-psicoterapeuta consigliere nazionale dellaSocietà italiana di psiconcologia (in sigla, SIPO), socio fondatore nonché membro del Comitato scientifico della Vidas, l’associazione nata in Lombardia nel 1982 con il principale scopo di dare una mano alle famiglie ad affrontare in maniera consapevole la malattia e la sofferenza. “Inizialmente eravamo un movimento filosofico-culturale – racconta Valera – animato da un nucleo di volontari e da alcune crocerossine che si affiancavano ai medici ospedalieri per combattere l’isolamento del malato terminale”.
Nel tempo, la Vidas è cambiata, com’è mutata, del resto, anche l’Italia. Da una parte, sono aumentati i servizi, offerti a domicilio o in “hospice”, la struttura dell’organizzazione che accoglie l’ammalato e il proprio familiare nei giorni dell’addio. Dall’altra parte, è diventato più frequente il ricorso alle sedazioni, anche su richiesta degli utenti stessi. “Oggi ci si chiede di togliere il dolore”, spiega ancora lo psicoterapeuta, “mentre noi originariamente volevamo togliere la sofferenza”. Come andare oltre questa dicotomia? La risposta nell’intervista che segue.

Come è nata la psiconcologia?
Dalla necessità di trovare psicoterapie mirate per i pazienti oncologici, troppo spesso vittime di disagi psichici impossibili da diagnosticare con i mezzi della psichiatria tradizionale. Il primo a gettare le basi della disciplina è stato il Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di New York, seguito da noi dalla Società italiana di psiconcologia. Personalmente, mi sono avvicinato alla disciplina grazie al professor Carlo Lorenzo Cazzullo.

Com’è cambiata la visione del lutto da quando è nata la Vidas?
Da evento naturale è diventato un trauma: anzi, per la precisione di recente è stato inserito tra gli eventi post-traumatici nel quinto manuale Diagnostico statistico dei disturbi mentali (il cosiddetto Dsm5, ndr).

Come superare questo tipo di trauma?
Con il sostegno di varie figure, compreso lo psicologo, purtroppo considerato un optional di lusso persino dalla legge.

In che senso?
Pur avendo oggi una legislazione ad hoc sulle cure palliative, non esiste il medico palliatore, inteso come professionista preparato da una scuola di specializzazione universitaria. Per ora, lo si diventa solo dopo master post-universitari o sulla base di molti anni di esperienza.

Nella vostra visione originaria, invece, puntavate molto sul lavoro d’equipe?
Il nostro motto era proprio: “Nessuno si salva da solo e nessuno può salvare da solo gli altri”. Con il tempo, ci siamo resi conto che era un punto d’arrivo anziché di partenza: ogni professionista è portatore di una sua visione del lavoro e del paziente, percepito solo come proprio. Invece, per aiutare davvero quest’ultimo, bisognava sentirlo “nostro”, passando dalla multi-disciplinarietà delle origini alla interdisciplinarietà.

E siete riuscire a compiere questo passaggio?
Sì, anche se oggi il tutto si è molto medicalizzato e abbiamo dovuto accettare la logica della sedazione per fronteggiare l’ansia e l’angoscia per la morte.

Quindi come lavora la Vidas attualmente?
Facciamo molta formazione, proponendo stage di quattro livelli sul “fine vita”.

Chi vi partecipa?
Il grosso proviene dall’assistenza domiciliare, poi dagli hospice, in particolare infermieri e medici, poi qualche psicologo e assistente sociale.

Da dove arrivano?
Da tutta Italia: siamo considerati un centro di eccellenza nel settore.

A suo avviso, come dovrebbe essere concepito un hospice? E in quale zona della città dovrebbe essere collocato?
Per prima cosa, non dovrebbe mai essere una corsia riadattata di un ospedale: si tratterebbe di un’organizzazione spuria che non permetterebbe la giusta proporzione tra medici e pazienti. Inoltre, nelle piccole città dovrebbe essere nel centro storico, in modo da non creare ghetti per lebbrosi; nelle città più grandi, analogamente, dovrebbe trovarsi in aree verdi. Infine, l’hospice dovrebbe porsi anche come un centro culturale aperto a tutti.

Voi lo siete?
Certamente: nella nostra sede di Milano organizziamo dibattiti e incontri aperti alla cittadinanza. In più, spesso andiamo nelle scuole per insegnare ai ragazzi che cos’è la morte, il tabù dell’oggi.

Li trovate sensibili all’argomento?
Sì: pensiamo che sia l’età giusta per parlarne. La morte è infatti per loro un’esperienza ancora lontana, anche se qualcuno l’ha già sfiorata per aver perso un nonno o un amico in un incidente. A quell’età, però, si è ancora idealisti e si è quindi più disposti a parlare dei propri sentimenti.

Trova forse che la rimozione della morte possa aggravare il senso di solitudine molto diffuso nella contemporaneità?
Sicuramente: oggi ci si sente più soli, non solo nelle grandi città, ma da un altro lato se ne parla di più.

Come vede il futuro, quindi?
A mio avviso, la figura del badante diventerà il caregiver d’eccellenza e dovrà a prendere decisioni sempre più difficili.

Quindi occorrerà sempre di più una formazione specifica?
Sì: già adesso stanno aumentando gli operatori socio-sanitari, che in otto casi su dieci sono di origine straniera, almeno in Lombardia. Man mano ce ne sarà sempre più bisogno.

Quanto conta il peso dei volontari, almeno nella vostra organizzazione?
Stanno diventando l’optional dell’optional… prima della crisi economica, venivano da noi giovani pensionate e pensionati e liberi professionisti del ceto medio: adesso molti di loro sono sempre più spesso costretti a cercarsi un secondo lavoro. Un tempo, invece, il grosso dei volontari era composto da donne tra i 40 e i 50 anni, con figli grandi e un reddito medio-alto. In genere, si trattava di persone che avevano già vissuto un’esperienza di tumore in famiglia.

Come sono cambiati gli operatori stipendiati, invece?
Passata l’epoca dei pionieri, oggi sono tutti più giovani e più tecnici. Pian piano stanno cambiando anche gli utenti: oggi le cure palliative non riguardano più solo l’ambito oncologico, ma anche il neurologico e il cardiologico.

Come mai?
Perché anche malattie come l’Alzheimer, il Parkinson e la Sla possono richiedere l’uso delle cure palliative, tutte patologie destinate ad aumentare nel giro di pochi anni.

Come prepararsi ad affrontare emergenze così serie?
Da parte nostra, abbiamo il dovere di insegnare alle persone ad avere una visione della vita in controtendenza: bisogna che si reimpari a dire “la morte esiste”. Solo così si getteranno gli anticorpi contro il falso mito del “tutto subito e gratis” e si avrà un paracadute per i tempi più bui.

Una sfida non da poco. Da Muoversi Insieme, grazie per la lezione filosofico-culturale e un augurio di lunga vita alla Vidas.

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