Massimo Del Papa e i segreti della musica immortale

Scritto da Stannah il 02-10-2013

Intervista di Alessandra Cicalini

Se si facesse un sondaggio su chi sia il musicista italiano perfetto per ogni stagione, dell’anno e della vita, quasi certamente vincerebbe Lucio Battisti. Eppure, per Massimo Del Papa, giornalista e scrittore, per anni firma di punta del mensile Il Mucchio Selvaggio, il grande artista nativo di Poggio Bustone, ma brianzolo d’adozione, è l’unico in grado di farlo tornare ragazzo.
Ed è questa una delle ragioni che l’hanno spinto a dedicargli l’ultimo libro, intitolato “Lucio-ah”, in omaggio a una canzone del Nostro, meno famosa, ma altrettanto unica, quanto le celebri “bionde trecce” e “motocicletta”, conosciute così, monche dei loro veri nomi, dagli adolescenti di almeno tre diverse generazioni di connazionali. “Solo Battisti – considera infatti l’autore – riesce a suscitare emozioni originarie e originali: un po’ come sapeva fare Marcel Proust”.
Alla vigilia del Festival di Sanremo, viene perciò da fargli spontanea la più classica delle domande: esiste ancora oggi un autore così? E se non c’è, perché?
Nell’intervista che segue, le risposte di Massimo Del Papa, autore anche di “Happy”, dedicato a Keith Richards ,“Ti vivrò accanto”, sulla “favola infinita di Renato Zero” e di un inedito su Frank Zappa.

Hai scelto di raccontare Battisti inserendolo nel contesto storico in cui sono fiorite, letteralmente, le sue canzoni: come ti è venuta questa originale idea? 
C’erano stati già così tanti libri, che era necessario inventarsi una chiave di lettura diversa. L’ho ricavata nella cronaca, perché ho sempre pensato che i dischi di Battisti (e di Mogol) fossero credibili come documenti di coscienza collettiva, che illustrassero agli italiani, senza mediazioni, come sarebbero stati dal giorno seguente, nella loro vita di ogni giorno.

Eppure Battisti è sempre stato accusato di essere un cantante disimpegnato: tu che cosa ne pensi?
Per me non lo era affatto! Prendi, per esempio, Neanche un minuto di non amore, in cui si parla di una coppia, sì, ma la voce incrinata di lei al telefono non dipende da problemi tra loro, bensì dal fatto che ha appena perso il posto di lavoro. Un problema molto sentito anche oggi, solo che prima era più facile ritrovarlo… Inoltre, a modo suo, Battisti ha parlato di ambientalismo, di pubblicità, insomma di tutti i temi della modernità, filtrati attraverso l’esperienza che sta più a cuore all’essere umano: l’amore. Come diceva il mio amico poeta Lugano Bazzani, “si canta sempre l’uomo”. Anche Battisti l’ha fatto, ed è per questo che è immortale.

Scrivi, a ragione, che i geni nascono raramente: secondo te, come si fa a riconoscerne uno per tempo?
È qualcosa che si manifesta in modo impercettibile eppure perentorio, una questione di sensazioni. Te lo trovi davanti e capisci. Magari all’inizio non fa presagire granché, ma c’è sempre quel qualcosa, che turba, che sconcerta. Di solito, sono entità convinte di essere lì per qualcosa, lo sanno loro per prime. Johann Wolfgang Goethe diceva che la prima qualità del genio è di riconoscersi tale.

Renato Zero è stato/è un genio? A tuo avviso, è più capace oggi di parlare a tutte le generazioni di quanto non sapesse fare ieri con le sue canzoni provocatorie degli anni Settanta o è vero il contrario?
Zero è stato un genio per il coraggio, l’inventiva e per la capacità di percepire tutto in modo abnorme, perfino morboso, nella totalità della sua proposta artistica. Uno che passava nottate ad inventarsi e cucirsi costumi che poi le grandi firme avrebbero copiato. Il tutto nel conformismo dell’Italia vaticana: era più difficile essere Renato Zero a Roma che non David Bowie a Londra. Ha senza dubbio contribuito a cambiare certe cose. Oggi, parlo del lato artistico, questa sua pacificazione non mi convince: proprio perché un genio o è agitato o non è. Certi dicono che abbia tradito. Io non penso questo, ma un artista che vuole impormi la sua fede, è uno che non tiene conto di Emil Cioran, di Albert Camus, dello stesso Carmelo Bene. E questo, quando viene da uno che correva parallelo a Bene, ad Antonin Artaud, delude.

In “Happy” hai messo a nudo Keith Richards, senza mitizzarlo né censurarlo: secondo te, piacciono ancora gli anti-eroi, in un’epoca di musica (e non solo) spesso conformista e standardizzata? 
Keith Richards è più popolare oggi, forse, di quanto non lo fosse negli anni Sessanta e Settanta. Proprio perché rappresenta, a torto o a ragione, l’archetipo dell’eroe negativo autentico. Oggi ci sono due mode: la trasgressione e l’antitrasgressione, che si fondono. Vediamo figure di nessun peso, specialmente artistico, che pretendono di fare la rivoluzione con i carabinieri, come diceva Carmelo Bene; vediamo il peccare in grazia d’Iddio. Ma Keith Richards non ha mai detto: sono pentito, perdonatemi. E, non dimentichiamolo, ha concepito cinquant’anni di musica meravigliosa.

Dall’altra parte, siccome non credo nell’adagio “si stava meglio quando si stava peggio”, chi potrebbe candidarsi tra i musicisti italiani contemporanei a diventare la prossima icona capace di parlare a tutte le generazioni?
Siamo un Paese piccolo, ma, senza retorica, direi nessuno. I talenti sono pochi, rispetto a un’epoca, quella della ricostruzione industriale del Dopoguerra, in cui fiorivano copiosi, perché c’era una intera classe occidentale di adolescenti che non avevano voglia di andarsi a sedere nei posti che il capitalismo postbellico avrebbe loro assegnato: e così si giocavano il tutto per tutto, chi nella musica, chi nell’arte o nello sport. Oggi, effettivamente, il panorama è desolante. Ma non solo perché “sono altri tempi”, frase che, di per sé, è tautologica e spiega poco. Io penso che il tempo orizzontale di internet livelli in modo da non permettere ai rari, autentici talenti di emergere. La realtà attuale è strutturata in modo da inglobare, non da permettere di uscire. Tutti geni, tutti talenti che durano una stagione. Indotti, imposti, manipolati dalla pubblicità, dalle logiche di mercato. C’erano anche allora, naturalmente, ma rispettavano la consistenza di un artista, quando c’era. Oggi no.

Non riesci a fare neanche un nome?
Se proprio devo, direi Paolo Benvegnù, un artista totale, che però, non a caso, non ha vita facile. Ecco, lui è allo stesso livello di un Tenco, di un Battisti – ed è ancora giovane, può ancora crescere. Ma potrà farlo concretamente?

Chi lo sa… Guarderai il Festival di Sanremo? In generale, che cosa ne pensi? È ancora rappresentativo dello spirito nazionale oppure no?
Non lo vedo per anni. Lo trovo angosciante, patetico e inoltre, come lo sport, è tutto truccato, da cima a fondo. Inoltre, quest’anno è successa una cosa strana: hanno ingaggiato un cantante (parlo di Adriano Celentano) non per cantare, ma per parlare… Ma alla gente piacerà. In questo, Sanremo resta nazionalpopolare, perché rappresenta ancora l’italiano medio, per quello che è e che vuole essere.

Se dovessi tenere una lezione sulle canzoni immortali di Zero, Battisti e Rolling Stones, quali citeresti e perché? 
Lo faccio, l’ho fatto, ma è difficile proporre certi brani piuttosto che altri, almeno per me: la mia personalissima compilation cambia sempre. In ogni caso, per Zero direi La tua idea, con quel verso: “Ti vivrò accanto, farò il viaggio insieme a te…”. Di Battisti davvero ogni brano va bene, proprio per quella attitudine a rispecchiare la società italiana di ogni epoca. Anche se io, personalmente, torno spesso ad Ancora tu, che davvero fu la mia perdita dell’innocenza. Per iRolling Stones, citerei qualche brano misconosciuto, o dimenticato: per esempio, uno, che mi ossessiona: Down in the hole, la storia di un homeless che va alla deriva. È la purezza del blues elettrico, è senza scampo. Poi direi Sister Morphine, sull’agonia di un eroinomane. L’ho sentita montata su spezzoni del pubblico di un concerto, in Argentina, e ascoltare quelle vibrazioni, così tragiche, sotto il delirio delle facce che urlavano, che perdevano il controllo, è stata per me un’esperienza violentissima, che ha scatenato una commozione inarginabile.

Se potessi reincarnarti in uno o più dei tuoi musicisti preferiti chi vorresti essere?
Mi sono reincarnato in ciascuno di loro! Ho sempre subito il loro fascino, e alla fine questi libri, che per me sono tributi a chi ha reso un po’ più accettabile la mia vita e ha dirottato i miei sogni, sono un unico libro. A me è toccato di scrivere parole: ma le mie fonti non sono i grandi narratori e i grandi romanzi, bensì sono proprio loro, questi artisti, questi creatori di emozioni.

Ami molto anche Frank Zappa, cui hai dedicato il tuo ultimo lavoro, per ora ancora inedito: perché ti piace così tanto? 
Quando leggo – e scrivo – della sua vita, di come volesse fare tutto da solo, della sua fatica tragica per produrre, dei suoi espedienti per imporsi a una scena che non lo voleva, quando apprendo della sua opposizione sia a una cultura ufficiale che alla controcultura, con l’effetto di venire frainteso e combattuto da entrambi i fronti, beh, mi consolo un poco, perché, nel mio piccolo, io ho sperimentato e tuttora subisco tutto questo…

Zappa è stato sicuramente un genio, però per nulla nazionalpopolare: secondo te, riuscirà a vincere la prova del tempo?
Credo che Zappa sia “Il Genio”. Che è diverso dal talento (ancora Bene), il quale, per dirla con Ennio Flaiano, corre l’estremo rischio di farsi capire. Zappa travolge ogni categoria, definizione e diffidenza. Per me, un giorno verrà collocato nel posto che è solo suo: quello di una figura centrale dell’intero Novecento, al crocevia tra svariate direttrici artistiche, culturali e sociali. Come lui, nessuno, per sempre. È stato uno dei grandi odiati d’America, ma aveva capito per primo che l’America sarebbe divenuta il Paese di Amanda Knox… e ha fatto tutto questo adottando testi fintamente stupidi, di calcolata volgarità all’interno di costruzioni musicali strutturalmente impeccabili: Zappa non è una rockstar, è un compositore contemporaneo.

Perché uno scrittore relativamente giovane come te (Del Papa è nato nel 1964, ndr) continua a interessarsi di autori e anni che ti hanno visto bambino?
E considera che adesso ho appena scritto un libro su Cassius Clay, un altro mito del periodo! …perché in quegli anni era più facile sognare ed evadere dalle cose brutte, perché non c’era ancora l’omologazione imposta dal mercato discografico, perché in Italia oggi abbiamo una serie di artisti over 60 seduti.

In Usa, patria del consumismo e della globalizzazione, non è lo stesso?
No: da loro ci sono Tom Waits, uscito qualche mese fa con un capolavoro, idem, da pochissimo, per Leonard Cohen. E se avessero prodotto brutti lavori, i giornalisti americani li avrebbero stroncati, mica come da noi, dove c’è troppa intimità tra i media e i musicisti.

Insomma, come ci si salva?
Continuando ad ascoltare i grandi, imparando a conoscerli a fondo, scoprendo l’esoterismo intrinseco nelle loro canzoni. Per quanto riguarda noi che scriviamo di loro, invece, non ci resta che insistere nel fare compagnia a chi ci legge, mettendo ogni volta in luce quali operazioni culturali e sociali bellissime cantanti e musicisti italiani sono stati in grado di compiere solo l’altro ieri.

Tra le righe, si potrebbe pensare che da qui partirà il riscatto di una nazione così appesantita dal presente, ma anche così capace di risollevarsi proprio nei momenti più bui… Muoversi Insieme se lo augura di cuore e dice grazie a Massimo Del Papa per la lucidità e la brillantezza dei suoi ragionamenti.