l'ultimo pasticciere
Scritto da La Redazione il 16-03-2008
Don Antonio ad 87 anni cammina con una leggera zoppia per una recente rottura del femore, mantenendo tuttavia una fiera postura eretta. Prima di rispondere alla scampanellata che annunciava la nostra visita, ci ha messo un bel po’ e non solo per il suo incerto incedere. l’edificio in cui vive infatti è davvero enorme.
Lo costruì nel 1946 per ventisette milioni. “Solo le scale mi costarono cinquecentomila lire”, ci dice, indicando con orgoglio le piastrelle del frusinate. La sua era una famiglia di pasticcieri di Siena, approdati poi, chissà mai perché, in questa Campania profonda, fra il Vesuvio sullo sfondo e il mare così lontano che neanche lo si riesce ad immaginare. Il palazzo sorge nell’immancabile via Roma: più che indirizzo, l’indicazione esprime lontananze siderali dai mondi conosciuti. Qui tutto è alieno: appare diverso anche l’ufficio postale che sorge al piano terra del palazzo. Tutto il resto dell’edificio è talmente ampio da ospitare un intero condominio dove Don Antonio vive da solo, forse, ogni tanto, smarrendosi.
Al primo piano ci sono stanze dalla volumetria impressionante: il salone che dà sulla strada, ha sei finestre doppie che si affacciano su un balcone che corre lungo tutta la facciata. Nonostante l’ampiezza delle finestre c’è buio nello stanzone. Al centro campeggiano due colonne; ai lati, dispersi come relitti spiaggiati, una coppia di divani dozzinali, unapoltrona lontanissima, un tavolo pur grande che, in quella piazza d’armi, appare minuscolo.
Nessun segno di presenza di familiari in casa: poche foto qua e là evocano presenze che di certo, in chissà quale passato, hanno animato questi spazi. Il vuoto è tuttavia saturo di rumore: come un ricordo del passato chiacchiericcio che in questi ambienti s’è disteso, ora la televisione che Don Antonio tiene a volume altissimo invade ogni anfratto senza grazia e
senza cura. La sonorità estrema che pure assorda resta comunque estranea alla casa, pervasa di solitudine e assenza. Don Antonio è stato un pasticciere famoso: i suoi dolci venivano a comprarli da Napoli.
Il prefetto XY mandava la macchina a prendere una sua creazione originale, nata per sbaglio durante la preparazione di un dolce classico. I ricordi sembra quasi vengono messi a fuoco attraverso lo scambio continuo fra tre paia d’occhiali: recentemente ha avuto problemi con una cataratta che gli vela lo sguardo. Questa parziale cecità è condivisa dal suo cane di 16 anni, acciambellato su un cuscino rosso, che segnala una residua vitalità con squassanti colpi di tosse. Don Antonio ci accompagna in cucina, vasta come una caserma, unica stanza che mostri cenni di vita condivisa.
Il tavolo sufficientemente ampio da accogliere una dozzina di commensali, appare ingombro dei resti del pranzo. Su questo stesso tavolo una volta un boss locale fece porre una montagna di banconote che Don Antonio con un gesto spazzò via, per restare libero.
Fu prelevato ed accompagnato dal padrino per rendere conto del suo rifiuto. Le sue ragioni vinsero l’arroganza e se ne tornò a piedi. Ora s’accende una sigaretta, una delle sue tre quotidiane “perché tengo la testa”, ci dice Don Antonio.Parlando con Don Antonio siamo stati catturati dal riverbero di un passato, quasi mitico e
dal sapore intenso, che solo una vita vissuta all’insegna della libertà può avere. Il concetto di libertà espresso da Don Antonio ci ha affascinati: libertà di esprimersi, libertà di creare e di innovare, libertà di essere se stessi, senza paura, libertà di non scendere mai a compromessi, costi quel che costi. Ancora oggi Don Antonio non è disposto a rinunciare
allo splendore, seppur offuscato dagli anni, di una vita vissuta all’insegna della vitalità.
Gianfranco Parenti