Gli esseri umani? Fatti di carne, ossa e... paesaggio!
Scritto da Paolo Ferrario il 28-07-2010
Il periodo delle vacanze estive mostra con forza un aspetto importante della nostra personalità: abbiamo bisogno di paesaggio.
Sia che sfogliamo i cataloghi e le guide turistiche dei viaggi progettati durante l’anno, sia che continueremo ad abitare nelle città parzialmente svuotate dal piccolo esodo di luglio e agosto, scopriamo di essere molto influenzati dall’ambiente che ci circonda e dalle sue rappresentazioni.
Dall’infanzia alla vecchiaia percepiamo che il paesaggio è parte integrante della nostra esperienza soggettiva e che noi facciamo parte di esso, poiché vi intrecciamo le nostre relazioni e i nostri destini. Attraverso le emozioni ogni persona connette “l’io” che percepisce a un oggetto che viene percepito. In tal modo il paesaggio non è più un insieme di oggetti materiali della natura, ma diviene una costruzione culturale.
Lo spiega bene lo storico delle sensibilità, Alain Corbin: “Il paesaggio è il modo di leggere e analizzare lo spazio, di rappresentarselo in rapporto al sapere sensoriale, di schematizzarlo per offrirlo all’apprezzamento estetico, di caricarlo di significati ed emozioni. In breve, il paesaggio è una lettura indissociabile dalla persona che contempla uno spazio“.
Prendiamo un gesto semplice come quello di affacciarci a una finestra: in quegli attimi la nostra soggettività stabilisce un contatto con ciò che è fuori da noi. Il dipinto di René Magritte (si guardi la foto in alto a sinistra) La condizione umana racconta in modo estremamente espressivo cosa sta avvenendo: si vede un quadro che viene sovrapposto alla scena rappresentata e fra i due dipinti non c’è distinzione e soluzione di continuità. “E’ così che vediamo il mondo“, diceva il pittore, “lo vediamo come se fosse fuori di noi, anche se è semplicemente una rappresentazione mentale di ciò che sperimentiamo all’interno“.
Dunque, riflettere sul paesaggio significa anche riflettere su noi stessi, sulla nostra storia biografica e sulla più generale storia socio-economica nella quale siamo immersi. Ancora una volta l’etimologia ci aiuta a decifrare questi aspetti. Il termine “paese” rimanda al verbo latino “pangere” (conficcare),
da cui “pagus“, ossia un paletto conficcato nel terreno per segnare i limiti di un campo, di un abitato o di una strada. Dunque “paese”, che è alla radice di “paesaggio”, non è solo un oggetto pittorico o fotografico, ma è una dimensione più ampia e articolata che rimanda ai territori di appartenenza e alle loro caratteristiche e che consente di leggerli e interpretarli.
Se vediamo la questione in questa prospettiva, potremo valorizzare la straordinaria bellezza dell’Italia e impegnarci a difenderla, proprio perché la nostra soggettività trova qui le sue più solide basi. Il Touring Club Italiano (l’associazione che ha la finalità di promuovere la conoscenza del nostro paese) pubblicò nel 1977 un volume della collana Capire l’Italia che merita di essere ricordato, soprattutto oggi, fra i fondamentali sull’argomento: I Paesaggi italiani. La consapevolezza che il TCI voleva divulgare è ben espressa nell’introduzione: “l’Italia è forse il paese dove la storia ha più profondamente plasmato il paesaggio. E ne sono stati consapevoli per primi gli artisti, che del paesaggio hanno individuato gli aspetti più significativi: quelli nobilitati dalla presenza delle opere umane (…) l’impronta più continua e più evidente che l’uomo ha inciso sull’ambiente è la grandiosa trama dei paesaggi agrari, che sovrappone a gran parte del territorio italiano una geometria più o meno fitta e regolare di campi, filari, terrazzamenti, canali, strade e dimore. Una geometria punteggiata da miriadi di centri abitati, che ne costituiscono i punti nodali“. Interessante è poi l’indice dei diversi tipi di paesaggio italiano: il mondo alpino; la fascia prealpina; la Padania; l’arco ligure; l’Appennino settentrionale; i paesaggi collinari tosco-umbri-marchigiani; la fronte marittima tosco-laziale, i massicci centrali appenninici, il Mezzogiorno fra Tirreno e Ionio, la Puglia, la Sicilia, la Sardegna.
Lo sviluppo economico ha molto compromesso il territorio italiano e, dunque, il suo paesaggio. Molte zone agricole sono state abbandonate e, all’opposto, altre parti di territorio sono sovraffollate. Sono equilibri secolari, dovuti al lavoro delle generazioni precedenti a quelle industrializzate, che si stanno rapidamente alterando. Sul piano giuridico la Convenzione europea del paesaggio (20 ottobre 2000),
resa esecutiva con la Legge 9 gennaio 2006 n. 14, fissa alcuni principi di tutela che si spera diventino patrimonio comune della cultura civica italiana. Qui troviamo alcune chiare definizioni di principio: a. “Paesaggio designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali o/e umani e dalle loro interrelazioni“; b. “salvaguardia dei paesaggi indica le azioni di conservazione e mantenimento degli aspetti significativi e caratteristici di un paesaggio“; c. “gestione dei paesaggi indica le azioni volte a garantire, in una prospettiva di sviluppo sostenibile, il governo del paesaggio al fine di orientare e armonizzare le sue trasformazioni provocate dai processi di sviluppo sociali, economici e ambientali”.
Come si comprende, si tratta di obiettivi troppo spesso contraddetti dalla realtà. E tuttavia la strada è tracciata ed è giusta. Tuttavia c’è qualcosa che si può fare attingendo alla sfera della responsabilità individuale, senza minimizzare quella delle responsabilità collettive. Si può imparare a “vedere” e a “leggere” il paesaggio, attraverso i suoi segni. Infatti, le precedenti forme storiche del paesaggio italiano sono talvolta ancora visibili, documentabili e ricche di ragioni e significati. Anche dove l’industria ha modificato la struttura dei centri storici e delle periferie si può provare a ritrovare le tracce antecedenti: argini, rogge, fiumi, mulini, fabbriche dismesse, santuari, mercati annuali, prati di riposo per i cavalli da posta, fortificazioni delle mura cittadine. Questo recupero della memoria aiuterebbe a comprendere la complessità di città e paesi che hanno fatto la nostra storia e a ritrovare l’identità distrutta attraverso il recupero di frammenti di una realtà paesaggistica e naturale che hanno perso di leggibilità e significato. Far rivivere gli “avanzi” e renderli di nuovo significanti attraverso la connessione e il recupero significa dotare la collettività di reali e intensi luoghi di vita.
In tal modo la coltissima e appassionata lezione di Raffaele Milani, docente di Estetica all’Università di Bologna diventa un eserciziario di psicologia cognitiva. Ascoltiamo le sue parole. Come ritrovare il paesaggio dopo il suo declino, come far rifiorire l’idea di un luogo? Potremmo cominciare con la ricerca dei luoghi segreti della città e fermarci a guardarli, come fossimo stranieri e scoprire che appartengono alla nostra emotività. “Quel muro, quella piazza, quell’angolo sbrecciato, quel glicine che affiora dal cemento con la forza della disperazione possono diventare i fuochi della nostra attenzione per un recupero dal degrado, per favorire il ripristino e la dignità delle forme, ora rilette e aiutate a emergere rispetto al tutto uguale”. In tal modo, anche brutti edifici che circondano quelle poche isole potrebbero essere resi più gradevoli mitigandone l’aspetto brutale con piccoli interventi. Inoltre parteciperemmo alla costruzione della città e lasceremmo un’impronta del nostro passaggio. In contrasto con la vista delle auto, continua il professor Milani, “spiccherebbe allora, nel silenzio, l’immobilità degli alberi dalle foglie tenere ai bordi delle strade, i colori delle pareti delle case, le linee delle vie, le aiuole adorne di tulipani, dalie, rose e poco alla volta il mondo delle forme si rivelerebbe senza l’angoscia dell’uniforme. Ricominceremmo a sentire il profumo delle foglie nuove e la freschezza dell’aria della sera, ad ammirare il cielo nella fluttuazione dei colori dal giorno alla notte. Le strade e i cortili si trasformerebbero in nuovi paesaggi da esplorare, si metterebbe in gioco uno stato affettivo dei singoli e dell’intera comunità“.
Milani prospetta un’opera di acuita percezione critica e valorizzazione del luogo. La sua immaginaria ricostruzione della mappa urbana assomiglia al delicatissimo lavoro di restauro di un arazzo. Partendo da brandelli sporchi o scoloriti si prova a restaurare le poche parti rimaste, cercando di intervenire, dove è possibile, a ridare forma a quelle immagini. “La città – osserva infatti – è fatta di strappi, ferite e profonde lacerazioni. Contemplare vuol dire anche ridefinire un disegno di relazioni, comporre un tessuto di forme. Potremmo consumare l’intera giornata in contemplazione di fronte a luoghi restaurati o da restaurare: dal cuore fluiscono passioni, dal cervello pensieri. Noi guardiamo e mentre guardiamo sentiamo anche sgorgare parole dentro di noi come un canto“.
Proviamo a esercitare la nostra capacità di osservazione almeno in questi giorni di vacanza: forse, una volta tornati alle nostre normali attività, avremo imparato a guardare con occhi diversi anche il nostro spazio di vita consueto. Potremo anche trasmettere le nostre riflessioni ad altri e così contribuire alla preservazione della memoria del paesaggio.
Bibliografia
Questo breve articolo deve molto ai seguenti libri:
– Sandro Amorosino,Introduzione al diritto del paesaggio, Edizioni Laterza, 2010;
– Alain Corbin, l’homme dans le paysage, Les éditions Textuel, 2001;
– Michael Jacob, Il paesaggio, Il Mulino, 2009;
– Raffaele Milani, Il paesaggio è un’avventura, Feltrinelli, 2009
– Darko Pandakovic, Angelo Dal Sasso, Saper vedere il paesaggio, CittàStudi edizioni, 2009;
– Touring Club Italiano,I paesaggi umani, 1977.
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